Gene Harris & Roger Kellaway eseguono Señor Blues e Splanky

Tra i pianisti jazz poco frequentati e conosciuti della storia, credo che Gene Harris e Roger Kellaway occupino, per così dire, le prime posizioni di una possibile classifica. A onor del vero e non a caso, anche per il sottoscritto sono stati due musicisti scoperti relativamente tardi, ma andando poi ad approfondire la loro discografia ho trovato loro lavori di assoluta eccellenza e che meriterebbero un apprezzamento più ampio tra i jazzofili nostrani. Forse l’appartenenza di entrambi al calderone del cosiddetto mainstream (per quanto la carriera di Kellaway si sia distinta anche per un notevole eclettismo, così impegnato nella composizione di opere commissionate per orchestra, ensemble da camera, big band e piccole formazioni jazz, nonché per produzioni cinematografiche, televisive, balletti e produzioni teatrali) non li ha aiutati a distinguersi, così privi di quella etichetta da “rivoluzionari” o da “innovatori” che pare essere la conditio sine qua non per avere la necessaria attenzione critica nel nostro paese in fatto di jazz. Sta di fatto che entrambi manifestano una proprietà idiomatica e una maestria esecutiva nella proposta della loro musica che ha pochi paragoni possibili.

A tal proposito, ho giusto rintracciato in rete una loro esibizione in duo pianistico in cui mostrano tali doti e ho deciso di proporla all’attenzione dei nostri lettori. Non c’è molto altro da aggiungere se non ascoltare, sperando di stimolare così chi ancora non li conoscesse all’approfondimento della loro discografia. Buon ascolto e buon fine settimana.

L’ Armageddon secondo Wayne Shorter

Il grande Wayne Shorter ci ha lasciati poco più di un anno fa ed era considerato, oltre a tutto il resto, uno dei pensatori più originali tra i musicisti jazz. Non a caso la sua biografia, uscita nel 2007 e intitolata “Wayne Shorter, il filosofo col sax“, rivela aspetti umani e intellettuali molto profondi in grado di spiegare e trasferire tale profondità anche nel suo modo di intendere la musica. Oltre a ciò, è nota anche la sua passione per l’astrologia, ben documentata da tanti titoli di sue composizioni con riferimento ai segni zodiacali, tra cui quel meraviglioso tema da lui scritto e intitolato Virgo, dedicato al segno zodiacale di sua appartenenza essendo nato a fine agosto del 1933. Il brano è contenuto in Night Dreamer inciso nell’aprile del 1964 per la Blue Note, disco che documentava già allora il primo di una serie di capolavori da lui registrati in quel periodo per quella etichetta. Il lavoro contiene composizioni di livello eccezionale oltre alla splendida ballata testè citata, come il brano che dà il titolo al disco, Black Nile e Armageddon, su cui oggi vorremmo focalizzare la nostra attenzione.

Qualche tempo fa si discuteva sui social circa il fatto che l’hard-bop, secondo taluni, non avrebbe avuto una significativa evoluzione nel corso dei decenni, rimanendo sostanzialmente sempre uguale a se stesso. Dischi e brani come questo sembrano smentire abbastanza nettamente tesi del genere, poiché questo tipo di hard-bop dimostra di essere parecchio differente da quello espresso nel decennio precedente. Shorter non concepisce i temi solo come “scusa” per imbastire poi una sequenza di lunghe improvvisazioni in cui far sfoggio delle proprie abilità tecnico-esecutive, ma come vere e proprie piccole opere pensate nei dettagli, pur mantenendo un ambito strutturale relativamente semplice. Ciò tenendo anche conto del fatto che lo stesso Shorter era il direttore musicale dei Jazz Messengers di Art Blakey (gruppo hard-bop per antonomasia) sin dal 1960 e lo era ancora alla data di incisione del disco, poiché il passaggio al gruppo di Miles Davis sarebbe avvenuto di lì a pochi mesi. Night Dreamer è perciò da considerare senza dubbio un disco di hard-bop (che ovviamente risente dell’esperienza del jazz modale in atto in quegli anni ’60), così come lo sono tutti i brani ivi contenuti, Armageddon compreso, un tema che si distingue dagli altri anche negli intenti espressivi comunicati e che considero meraviglioso.

Dalle note di copertina del disco redatte dal compianto Nat Hentoff si evince che il filo conduttore sviluppato dal sassofonista nell’incisione era quello del “giudizio”, inteso nei diversi ambiti del vivere dei singoli e dell’intera umanità. Riguardo in particolare al brano che stiamo esaminando, lo stesso Shorter ha voluto precisare: “Io so che il significato accettato di Armageddon è la battaglia finale tra il bene e il male, ma la mia definizione del giudizio che verrà è un periodo di illuminazione totale in cui scopriremo cosa siamo e perché siamo qui.

Come accennato, Armageddon (che è la traccia finale del disco) possiede un intento espressivo più introverso e serio rispetto alla brillantezza comune degli altri brani del disco, presi mediamente a tempo più veloce (con la logica eccezione di Virgo che è una ballad), ma, come scriveva Hentoff nelle note di copertina: “È serio, ma non troppo. La breve introduzione fa sembrare che si tratti di un brano veloce, ma questo funge da camuffamento per la serietà successiva. Dall’introduzione si passa a un lento e pensoso tema principale in tonalità minore e qui abbiamo avuto l’eccellente aiuto di Elvin Jones, McCoy Tyner e Reggie Workman che hanno impedito che il brano si afflosciasse dandogli una spinta costante“.

A questo link è possibile osservare lo spartito della composizione.

Pensato in 4/4, il brano possiede una brillante intro di 12 battute che, dando solo l’impressione di rallentare, introduce a un arioso e maestoso tema principale di 16 battute enunciato all’unisono con enfasi declamatoria da tromba e sax. Il ruolo di Elvin Jones con le sue rullate è qui essenziale a dinamicizzare l’enfasi del brano. Seguono gli assolo splendidi di Shorter al tenore e di Lee Morgan alla tromba sostenuti dall’inconfondibile comping di McCoy Tyner e dal magnifico “lago ritmico” procurato da Elvin Jones alla batteria. La parte dedicata alle improvvisazioni si completa con il solo del pianista, prima di riprendere il tema finale in perfetto stile hard-bop. Una delizia per le orecchie. Buon ascolto.

Piano Spheres presenta Gerald Clayton in piano solo, Luglio 2021

Il quarantenne Gerald Clayton è uno dei taleti pianistici più importanti emersi nell’ultimo quindicennio sulla scena del jazz e della musica improvvisata. Clayton è figlio d’arte, in quanto suo padre è il noto John Clayton, contrabbassista e co-leader della Clayton-Hamilton big band. Di origine olandese ma cresciuto a Los Angeles, Clayton ha frequentato la Los Angeles County High School for the Arts studiando poi con grandi maestri come Billy Childs alla Thornton School of Music e Kenny Barron  alla Manhattan School of Music. 

Al suo attivo ha ad oggi sette incisioni da leader, emergendo già come promettente talento sin dal 2009 con l’ottimo esordio Two Shade, ma ha suonato e registrato anche con Roy Hargrove, Diana Krall, Ben Wendel, Dianne Reeves, Terri Lyne Carrington, Ambrose Akinmusire, Dayna Stephens, Kendrick Scott, Ben Williams, Terell Stafford & Dick Oatts, John Scofiled, Michael Rodriguez, Avishai Cohen, Gretchen Parlato e il quintetto dei Clayton Brothers. Clayton ha anche goduto di una lunga collaborazione dall’inizio del 2013, facendo tournée e registrando con il sassofonista Charles Lloyd, un gruppo che abbiamo avuto modo di ascoltare nell’ambito di Aperitivo in Concerto al Teatro Manzoni di Milano nel 2014.

Clayton ha già al suo attivo diversi riconoscimenti: nel 2009, è stato nominato nella sezione Best Improvised Jazz Solo per il suo assolo in All of You dal suo album di debutto, Two-Shade. Nel 2010, è stato nominato nella sezione Best Instrumental Composition per Battle Circle, presente nell’album dei Clayton Brothers, New Song and Dance. Nel 2012 e nel 2013 ha ricevuto nomination ai Grammy per The Paris Sessions (Concord) e Life Forum (Concord).

Lo proponiamo oggi ai nostri lettori in un suo concerto in piano solo del 2021, dove mostra tutta la sua abilità di improvvisatore di talento. Dopo una lunga parte dal carattere intimo e riflessivo, intorno a minuto 20 esplode in una ritmata sequenza pianistica di ispirazione gospel-soul in una modalità che ricorda non poco il Jarrett anni ’70 in piano solo. Nel brano successivo Clayton evidenzia la sua assoluta conoscenza e padronanza del jazz mainstream riprendendo il tema di Quicksilver dei primi Jazz Messengers di Art Blakey e Horace Silver, registrato live al Birdland nel 1954 con la presenza del leggendario Clifford Brown, ma tutto il concerto si lascia ascoltare con attenzione. Buon fine settimana con Gerald Clayton.

George Cables, molto più di un grande accompagnatore

Il caso del pianista e compositore George Andrew Cables (nato il 14 novembre 1944 a New York City) potrebbe sembrare particolare ma in fondo non è così raro da trovare nella storia del jazz, poiché è il caso riscontrabile in altri grandi pianisti del jazz che si sono distinti per gran parte della loro carriera più nel ruolo di accompagnatore che di leader di propri gruppi, emergendo poi solo in tarda età anche per le grandi capacità di maturi solisti. Oltre a quello di Cables, si potrebbero fare i nomi ad esempio di due grandi pianisti della storia come Tommy Flanagan o Hank Jones, che hanno manifestato caratteristiche analoghe alle sue, emergendo nella maturità e nella loro ultima parte di carriera con una serie di incisioni discografiche a proprio nome di altissimo livello. Sta di fatto che George Cables era stimatissimo e preferito da grandi figure come Dexter Gordon, Art Pepper, Bobby Hutcherson, Freddie Hubbard, Woody Shaw e Joe Henderson che ne hanno utilizzato non a caso le prestazioni in diverse loro incisioni.

Cables ha avuto una formazione classica da giovane e ha iniziato a frequentare la High School of Performing Arts quando ancora non sapeva nulla di jazz, ma presto sarebbe stato colpito dalla libertà di espressione di quella musica. Le prime sue influenze jazz sono state Thelonious Monk e Herbie Hancock, ma in proposito Cables ha avuto modo di dichiarare: “Non ho mai veramente ascoltato i pianisti quando stavo iniziando. Probabilmente direi che sono stato più influenzato da Miles o Trane e dalle loro intere band piuttosto che da un singolo pianista. Il concetto della musica è più importante dell’ascoltare le capacità di qualcuno, la tecnica di qualcuno, il modo in cui la band di Miles teneva insieme, era proprio come per magia. Venivi trasportato in un altro mondo.”

Cables frequentò il Mannes College of Music per due anni e nel 1964 suonò in una band chiamata The Jazz Samaritans che comprendeva stelle nascenti come Billy Cobham, Lenny White e Clint Houston. Più tardi ebbe modo di partecipare a Lift Every Voice and Sing di Max Roach e nel 1969 lo si ritrova al pianoforte con i Jazz Messengers di Art Blakey. Un tour nello stesso anno con Sonny Rollins portò Cables sulla West Coast, tanto che nel 1971 divenne una figura significativa della scene jazz di Los Angeles e di San Francisco. Come già sopra anticipato, collaborazioni e registrazioni con i tenorsassofonisti Joe Henderson e Sonny Rollins (lo si ritrova in Next Album), i trombettisti Freddie Hubbard e Woody Shaw (in Blackstone Legacy) e il vibrafonista Bobby Hutcberson hanno permesso a Cables di ampliare le sue abilità anche nell’utilizzo del piano elettrico.

La svolta decisiva di carriera arrivò quando Dexter Gordon lo ingaggiò nel 1977. I due anni trascorsi con il gigante del tenore riaccesero la passione di Cables per il pianoforte acustico e lo immersero nel vocabolario del bebop. Ne sono a documento le splendide registrazioni raccolte in tre volumi dalla Blue Note al Keystone Corner di San Francisco nel 1978 relative al quartetto di Gordon con al contrabbasso Rufus Reid e Eddie Gladden alla batteria. La relazione più lunga che Cables sviluppò alla fine degli anni settanta fu però con il sassofonista contralto Art Pepper. Cables, che Pepper soprannominava “Mr. Beautiful”, divenne il suo pianista preferito apparendo in molte incisioni per Contemporary e Galaxy, sino alle ultime incise dal contraltista in duo.

George Cables ha sviluppato poi una sua brillante carriera da leader pianistico dirigendo sue formazioni e incidendo diversi dischi di valore, che lo fanno considerare ancora oggi come una delle voci più importanti presenti sulla scena del jazz. Cables è un membro fondatore della band The Cookers, fondata nel 2010, comprendente nomi di assoluto valore come Billy Harper, Eddie Henderson, David Weiss, Donald Harrison, Cecil McBee, Billy Hart e altri.

La sua discografia sia come leader sia, a maggior ragione, come sideman è perciò davvero ricca di titoli. Tra le tante tracce che avremmo potuto scegliere, proponiamo qui sotto solo una stringatissma scelta di brani che mettono in luce anche le sue capacità da compositore. Buon approfondimento di ascolto.

Willie “The Lion” Smith Trio, Live – 1965

William Henry Joseph Bonaparte Bertholoff Smith, meglio conosciuto come “The Lion” (1893 –1973), è stato assieme a  James P. Johnson e Thomas “Fats” Waller  uno dei tre leggendari simboli del cosiddetto “stride piano style” (denominato anche Harlem piano), stile in voga nella sua epoca d’oro collocabile tra anni ’20 e ’40 del secolo scorso ma che poi è rimasto nel vocabolario pianistico del jazz in gran parte delle successive generazioni di pianisti.

Una sua curiosità biografica da riferire è che Willie “The Lion” Smith non aveva origini esattamente afro-americane, nel senso che suo padre era ebreo, mentre sua madre aveva sangue spagnolo, nero e indiano Mohawk. Dopo la morte del padre nel 1901, sua madre sposò John Smith, un meccanico di Paterson, nel New Jersey. Solo all’età di tre anni, sua madre e il patrigno aggiunsero il cognome Smith al suo nome legale.

Dagli anni ’40 sino agli inizi degli anni ’70 Smith si è esibito in diversi tour di concerti tra Nord America ed Europa, ricevendo particolare attenzione nel Vecchio Continente negli anni ’60, in un periodo di riscoperta del jazz tradizionale che l’ha visto riproporsi come una sorta di libro storico vivente in grado di intrattenere il pubblico con storie accompagnate dalla musica dell’epoca sia sua che di altri compositori e pianisti coevi quasi dimenticati. Il grande Duke Ellington lo ammirava molto, tanto che non ha mai perso il suo stupore per la sua abilità. A tale proposito Ellington stesso ha avuto modo di dire: “Willie The Lion è stata la più grande influenza tra tutti i grandi pianisti jazz che si sono succeduti. Ha un ritmo che rimane nella mente“. Non a caso gli dedicò una delle sue composizioni quando registrò Portrait of the Lion nel 1939.

Lo proponiamo per questo fine settimana dove si esibisce in un bel filmato del 1965 rintracciato in rete tratto da una serie di trasmissioni tv presentate da Humphrey Lyttelton, noto anche come trombettista jazz inglese. La formazione con cui suona è completata da Brian Brocklehurst – contrabbasso e Lennie Hastings – batteria. Il programma suonato prevede i seguenti brani: Relaxation / Carolina Shout / Morning Air / Polonaise in A / St Louis Blues / Dardanella / Nagasaki. Buon ascolto e buon fine settimana.

Il decennio discografico del jazz 2010-2019

Considerato come nella mente dei jazzofili vi siano dei riferimenti ben precisi circa i capolavori discografici del secolo scorso, mi sono domandato qualche tempo fa, e analogamente, quali fossero stati i dischi più significativi di jazz pubblicati dal 2000 in poi. In particolare, ho preparato nella circostanza una lista di personali preferenze riguardante esclusivamente (e per ora) il decennio 2010-2019, selezionando almeno una ventina di titoli su una prima passata che me ne ha fatti considerare circa una cinquantina.

Ovviamente non vuole essere una banale classifica e mi rendo conto che il gusto personale mi ha orientato verso lavori più “leggibili”, scartando così lavori più arditi e/o sperimentali, ma che come tali richiedono, a mio avviso, più tempo di sedimentazione storica per essere davvero considerati degni di menzione. Perciò, per quanto possano essere discutibili le scelte credo possano servire almeno a stimolare un confronto con altre opinioni per capire meglio cosa sta succedendo nel variegato mondo del jazz in questi due ultimi decenni e quali possono essere le prospettive per il futuro della musica improvvisata.

Ho selezionato una ventina di incisioni separando dieci che considero più significative (per la portata e l’impegno compositivo profuso) da altre dieci semplicemente considerate più belle. La scelta è stata difficile e zeppa di dolorose esclusioni, con leggera preferenza, a parità, per le figure emerse più di recente. Alcune opere ultime di musicisti che ci hanno poi lasciato avrebbero meritato una citazione: mi riferisco a nomi come Ahmad Jamal, Chick Corea, Stanley Cowell e Wayne Shorter.

Come ho detto e scritto anche in occasione della lettura di liste fatte da altri, leggendole si ha più un’idea dei gusti della persona che le compila, più che descrivere realmente un panorama musicale, e questo vale anche per il sottoscritto. Comunque ci si prova e la lista è questa:

Dischi più significativi

Arturo O’Farrill: The Offence of the Drum (2013)

Magnifico lavoro orchestrale realizzato da uno dei maggiori compositori per orchestra emersi negli ultimi decenni negli USA ma da noi inspiegabilmente trascurato, capace di rinnovare e innovare in chiave ammodernata l’eredità afrocubana del celebre padre Chico e che vede la collaborazione del pianista Vijay Iyer come compositore ed esecutore in un paio di brani. La scelta è anche un omaggio a quella influenza caraibica e più in generale “latin” che pervade tutto il jazz da decenni e che col nuovo secolo ha visto una ulteriore spinta in considerazione del fatto che la comunità latina negli USA sta assumendo anche a livello musicale oltre che sociale un ruolo importante, non inferiore a quello che continua ad essere quello degli afro-americani. Al disco dovrebbe essere associato anche il lavoro dell’anno successivo del big band leader, intitolato Cuba the Conversation Continues che, per quanto più dispersivo, è forse ancor più significativo di questo per varietà e portata sociale oltre che musicale.

Christian McBride: The Movement Revisited, A Musical Portrait of Four Icons (2020)

Registrato nel settembre 2013 ma pubblicato solo il 7 febbraio 2020 tramite l’etichetta Mack Avenue, il disco è un’opera di grande impegno sociale oltre che musicale condotta dal contrabbassista Christian McBride, uno dei maggiori e più prolifici protagonisti del jazz di questi ultimi due decenni. McBride ci ricorda ancora una volta il contributo culturale e musicale, oltre che di impegno civile della intera comunità afro-americana all’interno della complessa, dura e complicata società americana.

Wynton Marsalis: The Abyssinian Mass (2016)

Che Marsalis sia un eccellente strumentista e improvvisatore è cosa nota, bisognerebbe però cominciare anche a dire che si tratta di un non trascurabile compositore di opere a largo respiro. Una di queste opere che andrebbero ascoltate con minori filtri pregiudiziali sul suo conto è la sua Abyssinian Mass. Si tratta di una maestosa e ambiziosa opera costruita sulla spiritualità gioiosa propria del rito religioso delle chiese africano-americane, ma che allarga la prospettiva musicale anche ad altre fonti musicali decisamente più profane e proprie del jazz. Registrata dal vivo nel 2013 al Lincoln Center, la Abyssinian Mass è stata pensata da Marsalis per commemorare il 200° anniversario della chiesa battista abissina di Harlem, su un incarico ricevuto nel 2008. E un lavoro ad ampio respiro contenuto in due CD, che lo presenta impegnato nel tentativo di disegnare le connessioni tra musica sacra e profana, cioè tra cori gospel, blues e ritmi jazz.

Brian Blade &The Fellowship Band: Landmarks (2014)

Landmarks è il quarto album di Brian Blade & The Fellowship Band, una brillante formazione attiva già all’epoca da ben sedici anni e che arriva qui a una prova di maturità raggiunta nel percorso evolutivo del quintetto capitanato da uno dei batteristi più bravi e importanti emersi dagli anni ’90 in poi. Un disco davvero riuscito e di alto livello musicale.

Joshua Redman : Still Dreaming (2018)

Joshua Redman è una delle maggiori figure sassofonistiche dei nostri tempi e in questo sentito lavoro prodotto in compagnia di altri tre grandi musicisti come Ron Miles, Scott Colley e Brian Blade sfrutta da par suo l’eredità musicale del padre Dewey Redman, per rifarsi allo storico quartetto Old And New Dreams e alla lezione di Ornette Coleman riportata all’oggi. Non si tratta, però, di una mera celebrazione e men che meno di una imitazione ma di una riuscitissima sintesi in chiave contemporanea del jazz moderno, partendo dal be-bop filtrato dall’esperienza epocale del quartetto di Ornette Coleman e dai successivi sviluppi portati avanti dai suoi discepoli Don Cherry, Charlie Haden e appunto il padre Dewey. Una citazione l’avrebbe meritata anche Trios Live dello stesso sassofonista, prodotto nel 2014 e registrato in precedenza al Jazz Standards di N.Y.C e al Blues Alley di Washington D.C. ma forse non significativo quanto questo.

Orrin Evans’Captain Black Big Band: Mother’s Touch (2014)

Questo è il secondo capitolo della Captain Black Big Band di Orrin Evans dopo l’eccellente disco d’esordio registrato dal vivo a New York nel 2010. Evans è un musicista che come pochi ormai si muove nel panorama mainstream contemporaneo, con una credibilità e un’esperienza a prova di bomba in veste di leader, compositore, arrangiatore e, ovviamente, di pianista. La sua musica si muove nel solco della tradizione african-americana in un lucido percorso di rinnovamento della stessa. Ed infatti il suono della Captain Black Big Band discende in maniera lineare dalle orchestre di Oliver Nelson, Charles Tolliver e Thad Jones/Mel Lewis. Atmosfere, temi e composizioni riecheggiano il jazz orgogliosamente nero, rivedendolo in chiave orchestrale. Un album che si colloca tra il meglio del jazz contemporaneo di tradizione africano-americana.

Avishai Cohen: Introducing Triveni (2010)

Questo notevole e brioso disco in trio senza pianoforte ci fece scoprire ad inizio decennio 2010 un grande talento trombettistico in netta crescita proveniente da quell’ambito jazzistico israeliano che ha giocato un ruolo importante sia per quantità di talenti emersi che per loro qualità proprio in quel decennio. Per questo gli rendiamo omaggio con tale scelta. Basterebbe citare solo ad esempio proprio la sorella di Avishai, la clarinettista Anat, anche lei musicista di grande talento ma i nomi da citare sarebbero parecchi. Nel suo modo di suonare si evidenziano in modo netto le influenze di Don Cherry a livello strumentale (ma c’è molto di altro) e di Charles Mingus e Duke Ellington nell’uso delle sordine sullo strumento e nella scelta del repertorio. Il suo successivo passaggio a ECM a metà decennio ha un po’ peggiorato, a nostro parere, le prestazioni discografiche rispetto alle grandi aspettative che dischi come questo avevano creato, ma Avishai Cohen rimane comunque uno dei trombettisti più validi in circolazione.

Miguel Zenón & The Rhythm Collective: Oye!!! Live in Puertorico (2013)

Miguel Zenón è senz’altro uno dei compositori e improvvisatori più importanti emersi proprio dal nuovo millennio in ambito jazzistico. Portoricano di origine, anche lui contribuisce a documentare il maggiore contributo dato dalle popolazioni di lingua ispanica emigrate negli USA alla cultura musicale nord americana. Il sassofonista è da tempo infatti impegnato nella ricerca dei fili musicali comuni nella tradizione jazz nordamericana e nella musica della diaspora africana nei Caraibi e in America Latina. Questo progetto che ho scelto è una sorta di trionfo in questa ricerca. Anche se avrei potuto scegliere altri suoi lavori discografici del medesimo livello, ho preferito indicare questo disco registrato dal vivo a Portorico nel 2011 proprio per tale ragione. Queste tracce sono il frutto delle esibizioni svolte durante due serate colte in uno spazio per spettacoli ormai defunto a Rio Piedras, Porto Rico e sono quanto mai rappresentative di quanto accennato.

James Brandon Lewis: Radiant Imprints (2018)

In questo disco il sassofonista James Brandon Lewis si propone in duo con il batterista Chad Taylor richiamando alla mente l’idea coltraniana di Interstellar Space, ma concepita in modo molto diverso, cioè priva degli spiritualismi di Coltrane, ma soprattutto rivolto più verso il Coltrane pre-svolta free, mantenendo al contempo un suono decisamente più abrasivo e un approccio sufficientemente affrancato dal modello di riferimento. Lewis riprende la lezione coltraniana in chiave personale e ricollocandola in un contesto musicale più leggibile e  più ampio al tempo stesso. Si coglie soprattutto come il Coltrane prediletto sia quello pre A Love Supreme, risalendo sino ai dischi Atlantic. Non a caso le improvvisazioni in diverse tracce prendono spunto dai lacerti tematici di quelle incisioni. L’iniziale Twenty Four miscela sapientemente frammenti di Giant Steps con  il meno frequentato 26-2Imprints prende spunto dal classico Impressions, mentre With Sorrow Lonnie riprende il Lonnie’s Lament di Crescent. Una bella prestazione di un musicista in progressiva ascesa e che annuncia la sua maturità successiva.

Joel Ross : Kingmaker (2019)

Questo disco d’esordio del giovane vibrafonista illustra già con forza quello che sarà negli anni a venire uno dei maggiori talenti emergenti del jazz. Rappresenta bene una nuova generazione di talentuosi musicisti da considerarsi alfieri di una innovazione in grado di traghettare il jazz verso la modernità. Quello che colpisce in questa prima uscita discografica è l’alto livello di espressività con cui Ross si muove all’interno di strutture non proprio facili da reggere strumentalmente. Oltre alla piacevolezza dell’interplay tra i musicisti – dove spicca la voce di Immanuel Wilkins al sax contralto, un altro dei giovani virgulti di cui si è accennato – troviamo musica di alto livello, che si dimostrerà solo un assaggio di ciò che questi talenti riusciranno a fare negli anni successivi.

Dischi più belli

Dischi validi in questa lista ce ne sarebbero diversi altri da indicare, alla faccia di chi pensa erroneamente che il jazz sia ormai una musica morta. Alcuni lavori di George Cables, Aaron Diehl, Eric Reed, Mike Wofford, Denny Zeitlin, Kenny Werner, Ed Simon, Gwylim Simcock, Chris Potter, Branford Marsalis, Jason Moran, Fred Hersch, Jason Moran, Ambrose Akinmusire – ai quali si potrebbero aggiungere gli europei Joachim Kuhn e Philip Catherine, o Michel Portal – sono di livello analogo a quelli che sto per illustrare. La differenza è minima e legata inevitabilmente al gusto personale:

SF Jazz Collective:  Wonder (The Songs Of Stevie Wonder) (2012)

Il SF Jazz Collective è stata in questi ultimi due decenni una delle formazioni più importanti emerse in ambito jazzistico. Come ho scritto tante volte su questo blog, loro hanno avuto in un certo senso l’analogo ruolo che ebbero le formazioni dei Jazz Messengers di Art Blakey in ambito hard-bop e post-bop dagli anni ’50 sino agli anni ’80 del secolo scorso. La loro idea di riscrivere in chiave contemporanea il repertorio dei migliori compositori emersi nel Novecento, e non solo nel jazz, producendo dei progetti discografici ad personam è da considerarsi vincente. Tra i tanti bei dischi prodotti ero un po’ incerto nella scelta tra questo e quello fatto sulle musiche di Jobim. Alla fine mi sono orientato su questo che onora una delle figure più importanti della cosiddetta Popular Black Music emerse nel secolo scorso, ossia quello Stevie Wonder che personalmente considero una sorta di George Gershwin dei nostri tempi.

Vijay Iyer: solo (2010)

Vijay Iyer è indubbiamente una delle personalità pianistiche più interessanti, colte e variegate della nostra contemporaneità in ambito di musica improvvisata. Tra i tanti suoi lavori pianistici prodotti ho una certa preferenza per i suoi dischi incisi per la ACT piuttosto che per ECM. Questo in piano solo in particolare mi ha colpito per la grande capacità di rielaborare e rivitalizzare certo repertorio legato alla profonda tradizione pianistica “nera” del jazz, con particolare riferimento a Ellington, Monk e Earl Hines, ma anche a figure popolari più recenti come quella di Michael Jackson.

Geri Allen: Grand River Corossing (Motown & Motor City Inspirations) (2013)

La grande Geri Allen ci ha lasciato purtroppo troppo presto nel 2017 a causa di una grave malattia, ma ha fatto in tempo a lasciarci ancora qualche gioiello discografico tra i tanti da lei prodotti in carriera. Questo disco legato alla musica della Motown che immortala il meglio della cultura musicale della sua Detroit lo amo particolarmente e non potevo non citarlo per la sua intrinseca bellezza. Scelta forse poco obiettiva ma per me necessaria.

J.D. Allen: Love Stone (2018)

Partito da posizioni nettamente post coltraniane, come del resto tanti altri sassofonisti della sua generazione, J.D. Allen con questo disco (tra gli altri che avrei potuto scegliere) dimostra in particolare di aver raggiunto una sintesi capace di inglobare anche diverse altre esperienze sassofonistiche legate a figure storicamente non meno importanti di Coltrane, quali Dexter Gordon e Sonny Rollins, proponendo cosi un sassofonismo moderno e più a trecentosessanta gradi. Una figura attiva ormai da tempo ma che qui dimostra di aver raggiunto una notevole maturità musicale.

Michael Blake: Tiddy Boom (2014)

Questo è un sassofonista che ho scoperto abbastanza tardi, ma già attivo da diverso tempo e che a mio parere meriterebbe maggiore attenzione di appassionati e critica. Il canadese Michael Blake sta maturando da tempo uno stile e una proposta musicale di altissimo livello assolutamente da non trascurare. Blake fa parte di quei jazzisti contemporanei che, provenendo da esperienze d’avanguardia, non solo sanno spaziare tra diversi generi musicali (cosa peraltro oggi abbastanza comune), ma sono in grado di rileggere in modo del tutto originale gli stili del passato generando progetti discografici davvero interessanti e riusciti come questo da non lasciarsi sfuggire.

Scott Robinson: Tenormore (2019)

Scott Robinson è un autentico esperto di sassofono in tutte le sue versioni, capace anche di esibirsi in concerto con maestria sul mastodontico sax basso. Si tratta di un musicista attivo da tempo con un lungo e vario curriculum di collaborazioni ad ampio spettro stilistico, dalla tradizione all’avanguardia. Si tratta dunque di un conoscitore profondo del linguaggio jazzistico che pratica con maestria assoluta. Qui lo dimostra esibendosi su un repertorio vario e suonato in modo fresco e brillante. Gran bel disco.

Larry Willis: This Time The Dream’s on me (2012)

Il pianista Larry Willis è scomparso giusto cinque anni fa lasciandoci in eredità una serie di incisioni prodotte nella sua ultima parte di vita e carriera molto ispirate e di grandissimo livello musicale. Questa che ho scelto del 2012 incisa in piano solo è una di quelle e merita l’ascolto tutto di un fiato. Non ve ne pentirete.

John Scofield: Country for Old Man (2016)

John Scofield sembra un po’ come il vino buono: più invecchia e più migliora. Lo spessore artistico di questo grande chitarrista e improvvisatore si è manifestato anche in questi due decenni degli anni Duemila nel suo massimo splendore, sfornando una serie di dischi di altissimo livello. Ho scelto questo più che altro perché dimostra la sua capacità di saper utilizzare al meglio il materiale compositivo più variegato per improvvisare in modalità jazz, in questo caso in ambito Country, ma anche altri lavori meriterebbero una menzione.

Nels Cline: Lovers (2016)

Il chitarrista Nels Cline con questo disco ha davvero realizzato un’opera pregevole sotto vari punti di vista. Un lavoro importante e molto curato nei dettagli, ponderato a lungo dal musicista, tra i migliori che mi sia capitato di ascoltare nello corso del decennio preso in esame. Cline, qui già sessantenne, arriva a produrre un progetto musicale di grande maturità e mirabile sintesi linguistica, perfettamente inseribile nell’alveo di un jazz “avanzato” ma allo stesso tempo fortemente legato anche alla sua tradizione, dopo aver maturato esperienze pluridecennali negli ambiti più disparati della musica improvvisata e trasversalmente ai generi. Emerge chiaramente un’accurata conoscenza sia del song americano, sia di un repertorio jazzistico ricercato e non comunemente affrontato.

Brad Mehldau: Blues & Ballads (2016)

Brad Mehldau negli ultimi anni ha allargato di molto lo spettro dei suoi interessi musicali, perlomeno quelli evidenziati a livello discografico, dimostrando curiosità anche per mondi musicali al di fuori del ristretto ambito jazzistico, come dimostrano dischi come After Bach o quello in duo col suonatore di mandolino Chris Thiele con risultati molto più che interessanti. Rimanendo all’ambito più jazzistico dove comunque il pianista della Florida eccelle, dalla sua discografia avrei forse potuto e dovuto scegliere lavori più incentrati sulla sua idea originale di trio di pianoforte anche a livello compositivo, indicando per capirci dischi notevoli come Ode o Seymour Reads The Constitution!. Alla fine la scelta è caduta su un lavoro solo apparentemente più scontato ma che affronta per improvvisare con perfetto idioma jazzistico un materiale classico di blues e di ballads suonato da grande jazzista. Il risultato estetico e di sostanza musicale dal mio punto di vista è di altissimo livello, in grado di dimostrare l’abilità di questo eccelso improvvisatore proprio su un materiale compositivo così poco innovativo. Mehldau nella piena sua maturità artistica dimostra qui di essere il degno continuatore della tradizione pianistica “bianca” portata avanti dai Bill Evans e dai Keith Jarrett nei decenni precedenti.

Riccardo Facchi

James Brandon Lewis in azione

James Brandon Lewis è una delle figure sassofonistiche di maggior spicco emerse sulla scena del jazz e della musica improvvisata degli ultimi anni.

Nato a Buffalo, New York, nel 1983, Lewis si è laureato alla Howard University nel 2006. In quegli anni di studio ha raggiunto una solida maturità artistica studiando tutte le fasi della musica americana contemporanea, dal gospel alla fusion, dal rap al free jazz. Mentre studiava ha avuto modo di suonare con Benny Golson, Geri Allen e Wallace Roney assimilando le tecniche improvvisative del mainstream ma sapendo affiancarle a quelle della Popular Black Music legate all’hip-hop e al funk. In quel decennio ha studiato anche con Charlie Haden e Wadada Leo Smith e collaborato con Joshua Redman, Tony Malaby e Matthew Shipp.

Nel 2012 si è trasferito a New York City ed è passato definitivamente al jazz, pubblicando nel 2014 il suo album d’esordio intitolato Divine Travels. Da allora, altri dieci album ad oggi hanno fatto seguito a quel lavoro, tra cui Jesup Wagon, che è stato selezionato come album dell’anno dai critici di DownBeat nel 2022. Il più recente lavoro è stato prodotto assieme ai Messthetics.

Il suo stile sassofonistico, molto energico, mette al centro di tutto il suono, che risulta pieno, ricco, ed espressivo come nella piena tradizione del gospel (e di Mahalia Jackson in particolare, a cui ha anche dedicato recentemente uno splendido disco) e dei grandi sassofonisti afro-americani della storia a cui stilisticamente si riferisce: Albert Ayler, John Coltrane e Sonny Rollins.

Lo proponiamo oggi in un breve filmato rintracciato in rete in cui il sassofonista esegue brani dal suo album Eye of I (2023) con il suo trio e con i suddetti Messthetics. Buon ascolto e buon fine settimana con la musica di James Brandon Lewis.

La limpida tromba di Jon Eardley

Per la serie i dimenticati, più che misconosciuti, oggi parliamo brevemente di un eccellente trombettista jazz del passato di un certo valore e con uno stile trombettistico riconoscibile dal timbro limpidissimo, si tratta di Jon Eardley. È nato il 30 settembre 1928 ad Altoona, Pennsylvania, ed è scomparso trentatre anni fa, il 1 aprile 1991.

Eardley ha ottenuto a suo tempo riconoscimenti per il suo caratteristico stile trombettistico e per il suo contributo al jazz in voga negli anni ’50, con particolare riferimento a quello suonato nell’area californiana. Ha iniziato a studiare la tromba all’età di 11 anni; suo padre suonava nell’orchestra di Paul Whiteman dal quale ha appreso lo studio della tromba e un precoce approccio al jazz. Dal 1946 al 1949 Eardley ha suonato in una band dell’aeronautica militare a Washington, DC, per poi guidare lì un suo quartetto dal 1950 al 1953. Quindi si è trasferito a New York City suonando con Phil Woods (1954) e soprattutto nel formidabile sestetto di Gerry Mulligan (1954–57) con Zoot Sims al sax tenore e Bob Brookmeyer al trombone, emergendo nel periodo come una figura trombettistica di spicco. Mulligan lo ingaggiò mentre suonava in un jazz club del Greenwich Village, invitandolo a unirsi a lui. Quando Eardley chiese a Mulligan di provare con la band, il baritonista gli diede una pila di dischi e un giradischi dicendo: “Impara tutto entro lunedì“.

Eardley registrò diversi album come leader, tra cui Hey There (1955) e In Hollywood (1957). In questi dischi il trombettista mostra la sua improvvisazione melodica e il suo approccio lirico alla tromba. Sebbene non abbia mai raggiunto lo stesso livello di fama di alcuni dei suoi contemporanei, il contributo di Eardley al jazz è stato molto apprezzato dai conoscitori e dai musicisti che lo consideravano un trombettista di talento.

Dopo un tour europeo con Gerry Mulligan, con Zoot Sims e Bob Brookmeyer, Eardley decise di trasferirsi in Europa nel 1963. Inizialmente ha vissuto e lavorato in Belgio, poi si è trasferito a Colonia in Germania, dove ha suonato anche con Chet Baker continuando a lavorare fino agli anni ’80. Negli ultimi anni prima della morte ha suonato nella WDR Big Band di Colonia. Morì a Lambermont, vicino a Verviers, in Belgio.

Oltre ai suo rari dischi da leader, nelle sue collaborazioni risultano anche incisioni occasionali con Teo Macero, Zoot Sims, Charlie Parker, J.R. Monterose, Airto Moreira e Manfred Schoof. Di seguito allego alcune tracce del suo lavoro discografico riprese dalla rete. Buon ascolto.

Oscar Peterson Trio (con ospiti Roy Eldridge e Clark Terry)- Live In ’63, ’64, ’65

Ciclicamente proponiamo dei filmati che riguardano Oscar Peterson e il suo magistero pianistico. Lo facciamo perché crediamo che per troppo tempo su questo grande jazzista sono state dette e scritte delle autentiche sciocchezze a livello critico. Se penso poi alla suscettibilità e alla presunzione di certi nostri mediocrissimi jazzisti nostrani incapaci di accettare qualsiasi critica su di loro ma capacissimi di sparare gratuiti giudizi negativi su musicisti di livello per loro irraggiungibile, a maggior ragione mi sento in dovere di documentare e ristabilire con la musica proposta su questo blog un minimo di verità storica.

Nella circostanza, il filmato di oggi vede il trio del pianista canadese in una delle sue edizioni migliori, ossia quella degli anni ’60 con Ray Brown al contrabbasso e Ed Thigpen alla batteria. In aggiunta, si possono apprezzare anche i contributi in alcuni brani dei trombettisti Roy Eldridge (nel concerto svedese) e Clark Terry (nel concerto finlandese), due grandi improvvisatori che nella loro carriera hanno avuto diverse occasioni per incrociare Peterson sia in concerto che su disco.

i brani suonati in Svezia sono i seguenti: (1963) 01. Reunion Blues 02. Satin Doll 03. But Not For Me 04. It Ain’t Necessarily So 05. Chicago (That Toddling Town): quelli in Danimarca: (1964) 06. Soon 07. On Green Dolphin Street 08. Bags’ Groove 09. Tonight 10. C-Jam Blues 11. Hymn To Freedom; infine quelli in Finlandia: (1965) 12. Yours Is My Heart Alone 13. Mack The Knife 14. Blues For Smedley 15. Misty 16. Mumbles. Buon ascolto e buon fine settimana.

Alla scoperta del pianista perduto: Herman Chittison

Il jazz è colmo di personaggi oggi per lo più misconosciuti ma di valore che pur non segnandone la storia hanno saputo deliziarci con il loro ottimo artigianato e quindi meritano di essere ascoltati. Uno di questi è stato il pianista Herman Chittison.

Chittison è nato a Flemingsburg, Kentucky, il 15 ottobre 1908. Iniziò a suonare il pianoforte all’età di 8 anni suonando spesso inni alla Strawberry Methodist Church. Lui e la sua famiglia lasciarono il Kentucky per fargli frequentare la scuola nel Tennessee quando aveva 13 anni. Dopo aver completato il liceo, Chittison si iscrisse al Kentucky State College (ora Kentucky State University) nel 1925. Tuttavia, lasciò presto la scuola per intraprendere percorso professionale nella musica. La sua carriera iniziò quando si unì alla band di Zack Whyte, i Chocolate Beau Brummels, in Ohio nel 1928.  

All’inizio degli anni ’30, Chittison si trasferì a New York e trovò lavoro come solista e accompagnatore di cantanti del livello di Ethel Waters, Adelaide Hall e Mildred Bailey, registrando sia per etichette americane che francesi. Ha anche visitato Boston per la prima volta in uno spettacolo itinerante con protagonista l’attore comico Stepin Fetchit, continuando a viaggiare e suonare in Europa e in Egitto e andando in tournée con Louis Armstrong e il citato comico. Alla fine del 1933 fece una tournée in Europa con la Willie Lewis Orchestra. Lui e il trombettista Bill Coleman guidarono gli Harlem Rhythm Makers, ma lasciarono il gruppo nel 1938 per formare una band che lavorò per un po’ al Cairo, in Egitto, prima di tornare a New York nel 1940. Chittison formò poi il suo trio e continuò ad esibirsi regolarmente, apparendo regolarmente in una serie radiofonica per nove anni e registrando in modo irregolare per Musicraft, Columbia e una varietà di piccole etichette.

Il suo modo di suonare elegante influenzato da Fats Waller e Teddy Wilson ricorda in parte anche Art Tatum per la sua grande tecnica e l’uso di tempi molto veloci. Nell’ottobre 1959, Chittison lavorò come pianista residente al bar Red Garter del Lenox Hotel di Boston. Poi si è recato al Mayfair Lounge nel Bay Village. Ha suonato in diversi club importanti di New York negli anni ’50 e ’60, finendo per suonare ad Akron, Columbus e Cleveland, in Ohio, dove morì e fu sepolto l’8 marzo 1967.

La sua discografia è più ampia di quanto ci si potrebbe aspettare in questi casi. Proponiamo di seguito alcuni brani esemplificativi del suo stile rintracciati in rete. Buon ascolto.

Orrin Evans Trio in the Yamaha Concert Series (2023)

Il quarantanovenne Orrin Evans è a nostro giudizio uno dei pianisti jazz afro-americani più importanti in circolazione e già professionalmente presente sulla scena ad alti livelli da quasi un trentennio.

Evans è nato a Trenton, nel New Jersey, ma è cresciuto a Philadelphia, in Pennsylvania. Sua madre, una cantante d’opera classica, lo ha introdotto precocemente alla musica e lui ha iniziato a prendere lezioni di pianoforte fin da bambino. La città, ricca di musica, gli ha dato l’opportunità di studiare, in modo informale, con leggende del jazz come Trudy Pitts, Shirley Scott, Mickey Roker e altri. Ha frequentato e si è diplomato al Girard Academic Music Program e nel 1993 è stato ammesso alla Mason Gross School of The Arts della Rutgers University. Mentre frequentava la Mason Gross, ha studiato con Kenny Barron, Joanne Brackeen, Ralph Bowen e Ted Dunbar. Evans è arrivato a New York come uno dei giovani leoni emergenti che suonavano straight jazz e hard bop in particolare. All’inizio ha lavorato come sideman con il sassofonista Bobby Watson e il batterista Ralph Peterson, oltre che nei gruppi di Duane Eubanks, della cantante Lenora Zenzalai-Helm e di molti altri. Nel 1995 ha fondato l’etichetta Black Entertainment per pubblicare il suo debutto da leader, The Trio, con il bassista Matthew Parrish e il batterista Byron Landham. Ha firmato con la Criss Cross Jazz alla fine del 1996, registrando in modo prolifico con l’etichetta per poi passare ad altre etichette come Posi-Tone nel 2006 e Smoke Sessions nel 2014. Nel 2010 gli è stato conferito il Pew Fellowships in the Arts e nel 2017 è stato nominato il nuovo pianista del The Bad Plus in sostituzione di Ethan Iverson con gran beneficio sulla resa musicale del gruppo, debuttando in Activate Infinity con un successo di critica quasi universale. La permanenza di Evans nel trio si rivela però di breve durata; nella primavera del 2021 annuncia la sua dipartita. Molto interessanti sono i suoi lavori orchestrali effettuati con la Captain Black Big Band, da considerare tra le sue cose migliori incise su disco. A luglio 2021 pubblica The Magic of Now su Smoke Sessions, alla guida di un quartetto che comprende Bill Stewart alla batteria, il bassista Vicente Archer e il ventitreenne talentuoso sassofonista contralto Immanuel Wilkins, mentre il suo lavoro più recente, datato 2023 è The Red Door con un programma di brani assai vario e interessante.

Oggi lo proponiamo in trio in un recente filmato rintracciato in rete che lo vede in compagnia di Robert Hurst al contrabbasso e Marvin “Smitty” Smith alla batteria, dove suona parte del repertorio inciso nel disco testé menzionato. Buon ascolto e buon fine settimana.

Paul Bley: Sweet Time (Justin Time, 1994)

Si parla troppo poco di Paul Bley da quando ci ha lasciati nel 2016. Un pianista e un improvvisatore originalissimo, una delle menti pianistiche più geniali e visionarie del jazz moderno, capace oltretutto di influenzare una serie di pianisti successivi, per lo più bianchi americani ed europei, che hanno avuto poi una grande rilevanza sul pianismo improvvisato contemporaneo: un nome su tutti Keith Jarrett, ma non solo lui se pensiamo al Chick Corea del trio ARC, o a Frank Kimbrough e Brad Mehldau, o ancora al più recente Aaron Parks. Il pianista canadese ha saputo sempre trovare un difficile equilibrio musicale nelle sue improvvisazioni, quasi intuitivo e sempre “border line” tra tonalità e atonalità, con spiccato senso melodico anche sui brani più intricati e apparentemente ostici, trovando nuove soluzioni poi ampiamente sfruttate dalle successive generazioni pianistiche e con un uso degli spazi e dei silenzi davvero ammirevole. In questo senso, potrebbe essere considerato una sorta di Thelonious Monk bianco – titolo che forse spetterebbe più al quasi coevo Ran Blake, di soli tre anni più giovane e discendente più diretto – ma comunque con intenti estetici ed esiti diversi e distinti rispetto a quelli manifestati dal grande genio di Rocky Mount.

Questa specifica arte di Paul Bley si manifesta fortemente nelle sue incisioni in piano solo, come in questo esemplare disco della Justin Time intitolato Sweet Time e pubblicato giusto una trentina di anni fa: un lavoro che non pare risentire minimamente dell’impietoso passare del tempo da tanto sembra ancora attuale. Il disco mostra la straordinaria abilità di Bley nel creare strutture musicali cristalline e melodie ellittiche ma emotivamente coinvolgenti con mezzi minimali. L’iniziale Never Again ne è un lampante esempio, con il suo corpo scheletrico delicatamente dissonante costruito su una fila di otto note e una serie di accordi su cui realizzare una brillante architettura sonora il cui effetto musicale risulta sorprendentemente mozzafiato. Turnham Bay sembra inzialmente ricordare proprio lo stile di Ran Blake per l’uso degli spazi e dei silenzi ma poi emerge quasi dal nulla l’immaginazione melodica del pianista canadese. Nella traccia che dà il titolo al disco, come in Turquoise, Bley rivela il suo legame con la tradizione nel suo originalissimo e inconfondibile approccio al blues, ovvero ciò che meglio lo ha sempre distinto in ambito jazz. Un punto di vista differenziato da quello classico afro-americano immettendo intenzioni musicali ed espressive derivate più che derivative ma dal risultato estetico ineccepibile. E che dire della tenera Lost Love, una sorta di moderna ballata in cui Bley riesce sempre e comunque a fondere umori blues in modo proprio e mai forzato. In un certo senso e facendo un confronto tra grandi jazzisti e improvvisatori canadesi, in brani come questo Bley potrebbe essere considerato l’esatto opposto di Oscar Peterson, eppure l’apprezzamento dell’uno non esclude quello dell’altro. Contrary e Pointillist sono invece titoli espliciti che concedono spazio all’approccio più avanzato di Bley, utilizzando contrappunto melodico e puntillismo in improvvisazione. Tutto il disco merita comunque un attento ascolto per gustarsi momenti di musica improvvisata di grande bellezza.

Riccardo Facchi

Stan Getz Quartet – Live At Montreux, 1972

Ricordo, decenni fa (purtroppo), di aver letto una recensione di Arrigo Polillo a proposito di alcune pubblicazioni uscite in serie relative a Stan Getz, in cui egli sosteneva tra l’altro che “The Sound” (il nomignolo con cui veniva etichettato per il suo suono perfetto e suadente sullo strumento) non avesse mai fatto un disco “brutto”. Tra i dischi recensiti, mi par di ricordare che vi fosse anche quello che riportava su disco il concerto dato dal quartetto del sassofonista a Montreux nel 1972 e di cui sto per proporne il filmato ricavato dalla rete. Come Polillo all’epoca, anch’io non ero e non sono oggi certo di quella affermazione, specie considerando la sterminata discografia di Getz, ma credo che questo concerto confermasse tale opinione e, nel riascoltarlo, tocchi persino dei vertici tendenti al sublime.

All’epoca Getz era sostenuto da una ritmica costituita dalla migliore gioventù jazzistica del periodo: Chick Corea al piano elettrico, Stanley Clarke al contrabbasso e Tony Williams alla batteria. Si trattava di un meraviglioso quartetto in cui Getz si presentava in una veste rinnovata e più conforme alla tendenza maggioritaria di allora, così influenzata dal jazz elettrico conseguente alla diaspora davisiana post Bitches Brew. In un certo senso tale tendenza poteva essere considerata il “mainstream” di allora. In realtà, l’impressione è che comunque Getz rimanga sempre lo stesso, inteso come abilità strumentale e straordinaria capacità improvvisativa, ma anche nell’estetica e che con quel quartetto avesse solo proposto una sorta di cambio di vestito e di background a supporto del suo sassofono. Sta di fatto che il risultato è comunque eccellente e invito pertanto i nostri lettori a gustarsi la musica prodotta in quell’occasione.

Il set dei brani proposti è il seguente:
0:00 Captain Marvel 6:50 Day Waves 15:33 Lush Life 20:47 Windows 30:01 I Remember Clifford 35:10 La Fiesta 47:46 Times Lie. Buon ascolto e buon fine settimana pasquale.

La danza dei delfini secondo Herbie Hancock

Dolphin Dance è una melodia scritta dal grande Herbie Hancock, uno dei compositori più interessanti del jazz moderno oltre che influente pianista. Il tema, divenuto poi uno standard discretamente battuto, è stato registrato per la prima volta nel suo disco capolavoro del 1965 Maiden Voyage, una autentica pietra miliare del jazz modale. 
Si tratta di una bellissima composizione con un movimento armonico dinamico, arioso ma anche ardito per l’epoca. Combina l’armonia modale e tonale rendendola una melodia stimolante ma alquanto difficile su cui improvvisare, tanto che pare non esistere una tonalità fissa, poiché cambia costantemente i centri chiave e non inizia né finisce nella stessa tonalità. L’esposizione del tema si prolunga per 38 battute (ben oltre cioè le classiche 32 battute di una canzone) con l’aggiunta di una coda finale di altre quattro battute.

Il tema gode di diverse versioni molto belle. Ovviamente Hancock ne ha incise e suonate in concerto parecchie, ne piazzo giusto due, oltre all’originale, di cui una in trio e una in solo dal vivo.

Tra le versioni suonate da altri pianisti si distinguono quelle suonate da Bill Evans:

e Ahmad Jamal :

Molto interessanti alcune versioni orchestrali, di cui quelle incise dalla Mel Lewis Jazz Orchestra sono state arrangiate magistralmente e con uno stile perfettamente riconoscibile da Bob Mintzer:

In questa presa da un concerto del 1982 si distinguono anche un giovane Kenny Garrett al contralto e Joe Lovano al tenore.

Ottima anche quella incisa più di recente e per una sezione di tromboni da Slide Hampton, altro grande arrangiatore:

Altre versioni ancora citabili in postivo sono quelle di: Chet Baker, Grover Washington, Jr, Freddie Hubbard, Jaco Pastorius, Kenny Werner, Harold Danko, Donald Brown, Toots Thielemans, Nicholas Payton, e Arturo O’Farrill.

Trovo invece la versione di Anthony Braxton deludente e che conferma la mia consolidata opinione sul fatto che l’interpretazione degli standards, specie quelli con linee tematiche così melodiche, non sia mai stato il suo forte, al di là di un approccio certamente personale e inconfondibile. Alcune buone idee in improvvisazione a mio avviso paiono non sufficientemente sorrette da una adeguata tecnica strumentale. Le aspettative, almeno a questi livelli, dovrebbero essere doverosamente alte. Buon approfondimento di ascolto.

Mary Lou Williams at Les Mouches, NYC, 1978

Credo che Mary Lou Williams sia stata (e forse lo è ancora) tra le più importanti figure femminili emerse nella ormai lunga storia del jazz, certamente lo è stata nei primi decenni di diffusione di questa splendida musica, tra le prime a emergere in qualità di strumentista e non di cantante. Una sorta di pioniera a cui si può forse associare il nome di Lil Armstrong Hardin emersa con qualche anno di anticipo su di lei, ma che non ha raggiunto la stessa importanza musicale della Williams. Emersa con i Clouds of Joy di Andy Kirk, dove è entrata a far parte di quella formazione nel 1929 e rimasta con Kirk sino al 1942, la Williams è stata infatti una versatile ed eccellente pianista e compositrice, attraversando senza difficoltà tutte le stagioni stilistiche che il jazz ha rapidamente prodotto nei decenni successivi senza esserne minimamente  travolta: dalla fase pre swing nelle band di Kansas City, passando per il be-bop, arrivando sino al modale e al free.

In questo bel video che sto per proporvi, la Williams sembra raccontare una specie di sintetica storia del piano jazz: dallo stride piano al boogie woogie, proiettandosi poi nel piano jazz moderno utilizzando dei noti standard su cui improvvisare. Il filmato merita davvero l’ascolto per una musicista-jazzista che è sempre stata di una integrità artistica davvero rara da riscontrare. La pianista della Georgia è qui accompagnata al basso in parte del programma da Carline Ray, chitarrista e cantante nota anche per essere stata la moglie di Luis Russell e madre della cantante Catherine Russell ancora oggi attiva sulla scena internazionale del jazz e che abbiamo avuto modo di ascoltare al Teatro Manzoni di Milano alcuni anni fa in un bel concerto natalizio. Buon ascolto e buon fine settimana.