Jazz sinonimo di improvvisazione, o forse no?

Sul tema odierno abbiamo già dedicato alcuni spunti scritti senza però affrontare il tema in modo sistematico. Probabilmente non è questa la sede per affrontarlo così seriamente, ma proverò a portare alcuni esempi che forse potrebbero fornire maggior chiarezza o comunque spunti di riflessione.

Che l’improvvisazione sia una parte essenziale del jazz ci sono pochi dubbi, tuttavia ricavarne una totale identificazione è a personale avviso un errore di fondo. Ciò che occorrerebbe forse comprendere meglio è che il jazz è innanzitutto un preciso linguaggio musicale in continua evoluzione che si può esplicare sia all’atto dell’improvvisazione ma anche nell’attività puramente compositiva. Che poi il risultato finale di una composizione preveda quasi sempre anche parti improvvisate, spesso anche in grande maggioranza, quella è un’altra faccenda, ma si possono concepire composizioni jazz, per quanto rare, praticamente prive di parti improvvisate.

Peraltro, e detto per inciso, occorrerebbe intendersi sulla modalità con cui viene utilizzata l’improvvisazione nel jazz, che non deve intendersi mai o quasi come un qualcosa di estemporaneo, “inventato” al momento, ma spesso il risultato di una improvvisazione è una sorta di “montaggio”, un collage prodotto dallo strumentista sulla base di un lavoro sull’improvvisazione precedentemente fatto. Si pensi anche solo a Louis Armstrong, che già negli anni ’20 portava alla perfezione suoi assoli come quello di Potato Head Blues utilizzando le migliori idee elaborate in soli precedentemente prodotti, ma un analogo discorso si potrebbe fare con il Dexter Gordon di Body and Soul o per gli studi sull’improvvisazione di John Coltrane etc. etc.

Tornando al tema iniziale, la preponderanza della scrittura sull’improvvisazione è riscontrabile in particolare in quei jazzisti che si sono distinti in carriera come grandi compositori e non solo come strumentisti. Scorrere e analizzare ad esempio le discografie di Jelly Roll Morton, Duke Ellington e Charles Mingus (tre riconosciuti grandi compositori del jazz) potrebbe aiutare a sostenere la tesi esposta, per quanto la loro attività compositiva si è sempre caratterizzata per ricercare un equilibrio tra scrittura e improvvisazione. In realtà sono rintracciabili altri casi di grandi jazzisti che hanno spesso concepito il jazz assegnando alla scrittura una parte molto importante, se non preponderante. Vediamo di portare qualche esempio di scrittura con assenza di improvvisazione, citando autori come ad esempio (i primi che mi sono venuti in mente, ma probabilmente non sono i soli) Thelonious Monk, Jimmy Giuffre, Wayne Shorter e Joe Zawinul.

Il primo esempio che portiamo è Crepuscule With Nellie di Thelonious Monk. L’esecuzione che riporto è totalmente priva di parte improvvisate. Un tema suonato dal pianista e poi appoggiato nella ripetizione dai fiati. Tutto evidentemente scritto e/o predisposto e certo nessuno si sognerebbe di affermare che non si tratti di jazz. Qualche altro esempio si potrebbe rintracciare nel book di composizioni di Monk (Thelonious ad esempio?), ma certo la stragrande maggioranza delle sue incisioni contiene improvvisazione a larghe manciate.

Qualcosa di analogo, anche se più breve, si può riscontrare in Jimmy Giuffre con la sua idea di ritmo implicito nell’esecuzione di Scintilla brano brevissimo tratto da Tangents in Jazz del 1955. Un tema che possiede tra l’altro più swing di quello di Monk ma con assenza quasi assoluta di improvvisazione.

Molto più evidente è rintracciare la pura scrittura nei temi studiati da Joe Zawinul in ambito di Weather Report. Qui gli esempi sono maggiori anche perché il gruppo era volutamente concepito per limitare al massimo le improvvisazioni. Brani come Night Passage e Birdland sono quasi integralmente scritti.

Non deve poi sorprendere il ritrovare questa caratteristica di pura scrittura nelle composizioni “circolari” di Wayne Shorter. Brani come Palladium (solo verso la fine del brano Shorter accenna a una brevissima improvvisazione che risulta più come abbellimento) e The Three Marias esemplificano perfettamente ciò che si intende sottolineare in questo articolo. Si tratta di pure composizioni in linguaggio jazz praticamente prive di improvvisazione.

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The Vanguard Jazz Orchestra: cinquant’anni di lunedì (2016)

Nel 1965, il trombettista e compositore/arrangiatore Thad Jones e il batterista Mel Lewis (entrambi da tempo scomparsi) si ritrovarono con un book di composizioni per big band originariamente destinato alla Count Basie Orchestra e nessuno che lo eseguisse. Così ne crearono una propria. Scelsero alcuni dei migliori talenti di New York e convocarono le prove il lunedì sera, quando i musicisti di studio potevano effettivamente venire. Quando debuttarono il lunedì del febbraio 1966 al famoso Village Vanguard, erano già una forza da non sottovalutare e presto sarebbero diventati la big band più influente degli ultimi 50 anni. La Thad Jones-Mel Lewis Orchestra, poi Vanguard Jazz Orchestra, suona ancora ogni lunedì sera.

Il concerto che proponiamo oggi è relativo allo spettacolo dato dall’orchestra per il 50° anniversario della band, dato perciò nel febbraio 2016. Il programma dei brani suonati e riportati nel filmato prevede: Ah, That’s Freedom – 1:44 Mornin Reverend – 13:43 A word from original Thad Jones/Mel Lewis Orchestra member – 19:51 All My Yesterdays – 25:11 Once Around – 32:22 ; Feb. 8, 2016 al Village Vanguard di New York.

Musicisti: Mat Jodrell (trumpet), Jon Owens (trumpet), Terell Stafford (trumpet), Scott Wendholt (trumpet), Luis Bonilla (trombone), Jason Jackson (trombone), John Mosca (trombone), Douglas Purviance (bass trombone), Dick Oatts (alto sax/winds), Billy Drewes (alto sax/soprano sax/winds), Rich Perry (tenor sax/winds), Ralph Lalama (tenor sax/winds), Gary Smulyan (baritone sax), Michael Weiss (piano), David Wong (bass), John Riley (drums) with Jerry Dodgion (alto sax). Buon ascolto e buon fine settimana.

Jazzisti italiani vs critici, vediamo di chiarirci…

Arrigo Polillo

Tra le tante narrazioni odierne distorte, o comunque eccessivamente enfatizzate, che circolano intorno al tema del jazz, quella relativa alla presunta alta qualità del jazz nostrano è per certi versi emblematica. In Italia, è vero, abbiamo a livello quantitativo un numero rilevante di jazzisti professionisti. Non ne conosco esattamente il numero, dato probabilmente in possesso della Associazione nazionale musicisti Jazz (AMJ), ma credo che si tratti di alcune migliaia, di cui godono però di adeguata esposizione nazionale solo poche decine. Per non parlare della esposizione internazionale, dove probabilmente si arriva alle dita di una mano di jazzisti peraltro già affermati da decenni e pure parecchio attempati. Si consideri poi che da anni non si vede un nostro jazzista nei premi, nelle classifiche, nei referendum della stampa specializzata internazionale e pochissimi vengono invitati a partecipare ai cartelloni dei maggiori festival internazionali. Evidentemente, una spiegazione oggettiva ci sarà pure, perciò il livello medio qualitativo tanto enfatizzato in patria non pare essere suffragato da reali riscontri, a meno che si voglia rimanere in certa stucchevole e irreale enfasi nazionalistica (in tema col sovranismo attualmente in voga politicamente) utilizzando magari slogan ormai abusati e un po’ patetici relativi alle nostre presunte “eccellenze che tutto il mondo ci invidia” grondanti di misero provincialismo.

La cosa che mi ha sempre colpito dei jazzisti affermati a livello internazionale e in particolare di quelli americani è che dei giudizi della critica fondamentalmente se ne sono sempre preoccupati poco o nulla, tirando sempre diritto per la propria strada. Viceversa, il rapporto tra jazzisti nazionali e relativa critica è sempre stato problematico. Ricordo, sin dai tempi della direzione di Arrigo Polillo di Musica Jazz, diverse accese diatribe e polemiche nella sezione “lettere al direttore”, dove spesso si leggevano sfoghi di musicisti parecchio irritati per recensioni negative di loro dischi o esibizioni concertistiche, tanto che a un certo punto quella sezione è sparita dalla rivista (comprensibilmente per quieto vivere) e ben raramente mi è toccato leggere successivamente una qualsiasi recensione sugli italiani con la minima critica negativa. Insomma, risolto il problema alla radice con un bel “sei politico” garantito come ai bei tempi della rivoluzione(?) studentesca anni ’70.

In questi anni nei quali, da semplice appassionato di lunga data, mi sono esposto pubblicamente con scritti e opinioni sia dalle colonne di questo blog che su articoli pubblicati sulla citata rivista, mi è toccato talvolta vivere l’esperienza suddetta relativa a problematiche di relazione con alcuni jazzisti italiani. Recentemente è capitato qualche episodio anche a un collaboratore occasionale di questo blog con analoghe competenze alle mie e che ha vissuto lo stesso tipo di problema, quasi in fotocopia. Il tipico refrain argomentale che è capitato ad entrambi nelle discussioni accese avute col risentito musicista di turno è che i critici musicali non sapendo suonare, o non avendo studiato seriamente la musica, si permettono di pontificare e dare giudizi (intendendo ovviamente negativi su di loro o su musicisti affini, o su loro opinioni, perché se gli stessi sono positivi sei subito premiato con diploma di competenza assoluta sul campo).

A parte il fatto che si dà pregiudizialmente per scontato che l’interlocutore sia una sorta di analfabeta musicale senza alcun riscontro tangibile, la domanda che verrebbe di conseguenza e immediatamente da farsi è: se la musica la possono comprendere e giudicare solo i musicisti, per quale ragione loro si esibiscono davanti a un pubblico certo non fatto solo di musicisti, gli unici pare in grado di capire quel che fanno? Sicché si dovrebbe suonare solo per altri musicisti, al più amici e parenti, dunque il pubblico pagante sembrerebbe composto solo da una manica di incolti utili alla propria professione, ma non degni di altro rispetto, mentre i critici, somari che si permettono di giudicare senza competenze, sono solo degli ignoranti, velleitari rompiscatole, a meno di essere utili alla propria causa.

Definire un tal genere di atteggiamento infantile mi pare il minimo e professionalmente prima che artisticamente poco serio, peraltro lo sarebbe in qualsiasi altro ambito lavorativo, dove il proprio lavoro viene sempre giudicato da qualcun altro a diversi livelli, dove a nessuno verrebbe in mente di fare strampalati discorsi del genere.

Si dà poi per scontato che la conoscenza dell’ambito musicale sia esclusivamente legato all’attività del suonare e non più ampiamente un fatto culturale, il che è un evidente non senso. La conoscenza del Jazz non passa solo dal saper mettere le mani su uno strumento e nemmeno dall’aver ottenuto un diploma di conservatorio (analogamente, nel mio settore professionale di base, un laureato in ingegneria non fa un ingegnere), tant’è che la personale esperienza mi dice che diversi jazzisti nazionali con cui ho discusso hanno mostrato una conoscenza più limitata del supposto in ambito di storia e cultura jazzistica, spesso approfondita solo verso i musicisti e gli stili preferiti e con i quali condividono il proprio senso estetico. Una ragione in più per la quale i musicisti non dovrebbero fare i direttori artistici e forse nemmeno i recensori. A ciascuno il suo ruolo.

Riccardo Facchi

Rahsaan Roland Kirk Quartet, Praga 1967

Scorrendo gli articoli pubblicati in ormai quasi otto anni di vita di questo blog, si sarà probabilmente osservata la personale ammirazione per Rahsaan Roland Kirk, jazzista e polistrumentista all’epoca da noi un po’ frainteso più come fenomeno folkloristico che artistico, a causa della sua originale caratteristica di suonare più strumenti a fiato (tradizionali e non) contemporanemanete, compresi fischietti, flauti a naso e quant’altro potesse essergli utile a creare particolari effetti sonori. In realtà Kirk col tempo si è rivelato un pioniere sia sul piano strumetale (in particolare per l’uso della cosiddetta respirazione circolare) che su quello musicale, anticipando di molto quella tendenza multistilistica intorno al jazz (per quanto soprattutto in ambito di Black Music) che è poi dilagata in prossimità della nostra contemporaneità.

Lo proponiamo oggi in un bel concerto svoltosi a Praga nel 1967, colto in uno dei suoi periodi più creativi in carriera e accompagnato da una ritmica di notevole livello, composta dall’eccellente quanto sottostimato Ron Burton al pianoforte, in aggiunta a Steve Novosel al contrabbasso e Jimmy Hopps alla batteria, due musicisti che poco dopo ritoveremo anche nel quartetto del trombettista Charles Tolliver in capisaldi del modern mainstream come The Ringer.

I brani eseguiti sono i seguenti: 01 Ode To Billy Joe 02 My Ship 03 Creole Love Call 04 The Inflated Tear 05 Lovellevelliloqui 06 Making Love After Hours. Buin ascolto e buon fine settimana.

La breve e leggendaria carriera di Tony Fruscella

La storia del jazz è piena di personaggi leggendari che sembrano nati per diventare protagonisti di storie dalla natura più oscura. Outsider destinati a una mala vita, che può essere evitata solo grazie a un talento innato che li trasforma in simboli romantici. Tony Fruscella è stato uno di questi.

Come trombettista, Fruscella ha condotto un percorso intermedio tra Bop e Cool, una mistura stilistica poi resa popolare da Chet Baker. Il suo suono smorzato e vellutato esprimeva un senso di poesia pieno di riferimenti “letterari”, nei registri bassi e medi, di una ricca varietà di tonalità che rendevano i suoi assoli sensuali, profondi e un po’ malinconici.

Per tutta la sua breve carriera negli anni ’50, Fruscella è rimasto ai margini della scena jazz. Faceva parte di una giovane scuola di trombettisti con sede a New York che includeva Jon Eardley, Don Ferrara, Don Joseph, Jerry Lloyd, Dick Sherman e Phil Sunkel che riuscivano a lavorare occasionalmente in città ma avevano poca visibilità sulle registrazioni. Stilisticamente erano prodotti della rivoluzione bebop ma conservavano gran parte del delicato lirismo di maestri precedenti come Harry Edison, Bobby Hackett e Charlie Shavers. 

Dan Morgenstern ha dichiarato che, contrariamente a quanto detto nella maggior parte delle biografie, Fruscella fosse in realtà nato in Cornelia Street nel Greenwich Village il 14 Febbraio 1927. Successivamente allevato da suore in un orfanotrofio del New Jersey si arruolò nell’esercito nel 1945. Nel 1947, mentre studiava alla Hartnett Music School insieme ai compagni Al Haig e Phil Urso, sposò la cantante Morgana King – il matrimonio durò fino al 1956. Nel 1948 fece il suo debutto discografico con un gruppo di amici (Chick Maures, Bill Triglia, Red Mitchell e Dave Troy) in una sessione che non è stata pubblicata fino al 1974. Il suo modo di suonare qui si rivela straordinariamente maturo con alcune delle delicate introspezioni associabili a Miles Davis. L’anno successivo venne invitato a prendere parte a una registrazione di Lennie Tristano con Lee Konitz. In un’intervista a JJ (dicembre 1996) Konitz disse a Dan Morgensten: “Tony avrebbe dovuto essere all’appuntamento, ma quando è venuto nella mia stanza per provare, a quanto pare l’ho offeso in qualche modo con un paio di suggerimenti, quindi si è ritirato. Ho avuto davvero problemi a relazionarmi con lui perché tutta quella mentalità da drogato è sempre stato un grande problema per me. Non potrei mai identificarmi con esso e odiavo quell’aspetto del mio ambiente”.

Alla fine degli anni ’40 Fruscella si trovava spesso a suonare alle sessioni nel loft di Teddy Charles all’angolo della 55a Strada e Broadway con Phil Woods, Jimmy Raney, Frank Isola e Brew Moore. Era anche un habitué del Don Jose’s sulla 49th Street West, dove si esibivano anche Gerry Mulligan, Zoot Sims, Brew Moore, Lester Young. Un po’ di tempo dopo, incoraggiato dalla sua ragazza Gail Madden, In quel locale Mulligan aveva iniziato a sperimentare un quartetto senza pianoforte con Tony Fruscella, Don Ferrara o Don Joseph alla tromba, Phil Leshin o Peter Ind al basso e Walter Bolden o Al Levitt alla batteria.

In quel periodo Lester Young lavorava spesso con Jesse Drakes, ma nel 1950 assunse Fruscella per due settimane, forse per un impegno a Birdland. Intorno al 1951 Herb Geller (vedi discografia) arrivò a New York da Los Angeles, iniziando a lavorare illegalmente (senza tessera) nella zona di Nyack con Fruscella, Phil Urso, Bill Triglia, Bill Crow e Ed Shaughnessy. Una prova che fece col trombettista fu registrata e pubblicata anni dopo sotto il nome di Fruscella per l’etichetta Xanadu.

Fruscella aveva però grossi limiti nel ruolo di leader a causa dei suoi problemi esistenziali e di droga. All’inizio del 1953 Robert Reisner e Dave Lambert iniziarono a presentare sessioni di bop all’Open Door nel Greenwich Village con Fruscella nominato come leader. Fu un disastro. Reisner ebbe a dichiarare anni dopo:“Era così permissivo che non poteva dire ‘No’ a nessuno che volesse sedersi[…] quello che era iniziato come un quartetto è diventato un’orchestra cacofonica. Preoccupato per il sindacato e volendo controllare il caos, ho iniziato a trascinare i ragazzi fuori dal palco. Un tenore ha messo la campana del suo corno vicino al mio orecchio e ha suonato una raffica di note. Tony si è girato verso di me e ha detto: ‘Guarda amico, sta dicendo qualcosa‘”.

La nota di copertina di Dan Morgenstern per una registrazione di Fruscella con Brew Moore all’Open Door dipinge una descrizione del club: “The Open Door era un paradiso per i jazzisti senza soldi. Quando sei entrato dalla strada, sei entrato in una stanza con un lungo bar che aveva un’atmosfera Bowery. A un’estremità di questo bar c’era un antico pianoforte verticale, presidiato quasi tutte le sere da Broadway Rose, un ex artista di vaudeville sbiadito ma arzillo. Conosceva mille vecchie canzoni e onorava allegramente le richieste. Una porta cigolante conduceva all’enorme e cupa stanza sul retro con un lungo palco dell’orchestra, una pista da ballo mai usata e tavoli e sedie traballanti. Qui fu dove Tony Fruscella tenne le esibizioni per la maggior parte del 1953, solitamente assistito da Brew Moore, Phil Woods, Ronnie Singer e Bill Triglia. Spesso il suo buon amico Don Joseph si univa a lui e talvolta eseguivano duetti di Bach durante l’intervallo. Di tanto in tanto, quando nessun altro pianista era disponibile, il ventenne Cecil Taylor poteva sedere. Alcune delle star del giorno come Charlie Parker, Monk, Mingus, Roy Haynes e Milt Jackson apparivano occasionalmente al club, ma non molto spesso – probabilmente perché la remunerazione era più generosa altrove. Nel 1954 l’Open Door aveva cessato di presentare il jazz“.

I fratelli Ertegun della Atalantic ascoltarono Fruscella al club e fecero in modo che registrasse per l’Atlantic Records. Uno dei titoli –  I’ll Be Seeing You – è probabilmente il suo assolo più famoso e anni dopo Red Mitchell aggiunse un testo all’esibizione di Tony che si esibiva spesso al Bradley’s di New York.

Nel giugno 1954 Gerry Mulligan reclutò Fruscella per il suo quartetto senza pianoforte in sostituzione di Bob Brookmeyer. Hanno fatto due settimane al Basin Street, seguite da un set al Newport Jazz Festival a luglio che è stato il canto del cigno di Fruscella con il gruppo. Stan Kenton presentò il quartetto a un pubblico entusiasta e un nastro di loro mentre eseguono Bernie’s Tune, The Lady Is a Tramp e Lullaby Of The Leaves circola da anni. Fruscella suona estremamente incerto e privo di fiducia. Nel 1994 Mulligan fece le sue osservazioni sul trombettista. “Newport mi è bastato per capire che avere Tony in viaggio con me e stare insieme sul palco notte dopo notte mi avrebbe fatto impazzire. Viveva in un mondo tutto suo… peccato che non funzionasse perché era un trombettista così adorabile“.

Nel novembre 1954 prese di nuovo il posto di Bob Brookmeyer, questa volta con il quintetto di Stan Getz. Si sono esibiti a Buffalo, Baltimora, Boston e Birdland a New York e John Williams era il pianista del gruppo. Il trombettista può essere ascoltato con Getz in una breve trasmissione di Birdland e in due affascinanti titoli in studio – Blue Bells e Roundup Time – registrati nel gennaio 1955. Il loro rapporto musicale è notevole, ma. a quanto pare. c’è stato un conflitto nella loro relazione personale che ha portato a una rissa costringendo Fruscella a lasciare il gruppo.

Poco dopo iniziò a vivere con l’ex moglie di Stan Getz, Beverly, nel suo appartamento. Fu arrestato lì con l’accusa di possesso di droga nell’aprile 1957 e condannato a sei mesi. Per tutta la vita Fruscella è stato conosciuto come un “ragazzo di strada” che apparentemente non ha mai posseduto un telefono o un indirizzo fisso, di solito preferendo andare a dormire nell’appartamento di un amico. A parte alcuni ricoveri ospedalieri causati dai suoi noti problemi personali non si sa nulla delle sue attività negli anni Sessanta. Fruscella è morto il 14 Aprile 1969 nell’appartamento di un amico. La causa della morte è stata cirrosi epatica e insufficienza cardiaca.

Per completare la conoscenza dello sfortunato trombettista, sono consigliate le seguenti pubblicazioni discografiche:

Tony Fruscella – Complete Studio Recordings – 2CD The Jazz Factory

Tony Fruscella – Complete Live Recordings – 2CD.The Jazz Factory

Tony Fruscella & Brew Moore Quintet -.Fresh Sound Records

Aggiungo qui un altro paio di tracce ricavate dalla rete. Buon approfondimento di ascolto.

Earl “Fatha” Hines – Blues Alley, Washington DC, 1975

A seguito del personale recente ascolto di un bel disco intitolato Mostly Fats, oggi ho deciso di proporre ai lettori un interessantissimo filmato dedicato a quello che è considerabile come il padre di tutto il pianismo jazz, ossia Earl Hines, pianista oggi malamente dimenticato da chi tratta il jazz sradicato dalla sua storia e legandosi quasi esclusivamente all’attualità, pensandolo in pratica solo come una delle tante mode effimere presenti. Hines, tra l’altro, è un pianista originalissimo e dal pensiero musicale molto complesso in improvvisazione, per nulla datato, in cui viene esaltato un approccio alla tastiera estremamente percussivo, che poi è la caratteristica precipua ed imprescindibile di tutto il pianismo africano-americano, dallo stride piano a McCoy Tyner, Cecil Taylor e oltre. Una caratteristica che chi predilige un certo tipo di pianismo improvvisato di dervazione billevansiana (e da noi è la maggioranza), in qualche modo più vicino alla cultura e all’estetica pianistica europea, apprezza pochissimo.

Il filmato è un documentario del 1975 ed è stato girato al Blues Alley night club di Washington DC per il canale televisivo britannico ITV. L’International Herald Tribune lo ha definito “Il più grande film sul jazz mai realizzato”. Nel film, Hines ha dichiarato: “Il modo in cui mi piace suonare è che sono un esploratore, se posso usare questa espressione, sono sempre alla ricerca di qualcosa, quasi come se stessi cercando di parlare“. Buona visione e buon fine settimana.

Che c’entra il Settecento europeo con le origini del jazz?

Si sa, siamo in un periodo in cui le “favole” dette e scritte intorno al tema origini del jazz purtroppo abbondano. Si nota da tempo una intenzione recondita, non so quanto consapevole o meno, di dimostrare che tale musica abbia preponderanti origini europee più che americane e afro-americane davvero senza fondamento.

A tal proposito, ci è capitato di recente di ascoltare una sorta di storia del jazz raccontata in video nella quale per spiegare le origini del jazz si partiva dall’origine dell’improvvisazione datata nel Settecento europeo, in quanto il jazz avrebbe ripreso (?) l’improvvisazione di quel periodo. Non mettiamo ovviamente in discussione la giustezza delle cose dette su Bach, sul Barocco e sul Settecento europeo, le diamo per note e corrette, ma il messaggio che si veicola (e purtroppo si lascia intendere a chi è sprovveduto in materia), è che l’improvvisazione sia l’elemento fondativo del jazz e quindi, per la proprietà transitiva, che le origini del jazz si possano far risalire a tale periodo. Il che sarebbe un evidente falso storico.

Di fatto l’elemento decisivo che caratterizza il jazz è il ritmo e il relativo peculiare approccio ritmico nell’improvvisare, elementi che hanno profonda origine nell’Africa, a seguito delle deportazioni degli schiavi verso le Americhe, approccio poi mediato dagli afro-americani delle generazioni successive inseriti nel contesto sociale e culturale bianco americano. Quindi il ritmo e nella sostanza il jazz stesso provengono fondamentalmente da una cultura musicale ben diversa e priva di possibili agganci col Settecento europeo. Almeno questo sino a che l’afro-americano non è potuto venire a contatto con la cultura musicale bianca americana (e di conseguenza europea).

Tralasciando per un momento poi il fatto che l’improvvisazione jazzistica deriva dalla tradizione orale della cultura africana e che gli schiavi neri non potevano certo conoscere nulla del Settecento europeo per sin troppo ovvie ragioni, occorre non confondere l’approccio ritmico degli improvvisatori del Settecento con quello del jazz. Il Barocco aveva ritmo, vero, ma con una pronuncia del tutto diversa da quella presente nel jazz e che ha poi generato lo swing, senza contare che le deportazioni dei neri hanno generato anche altri ritmi in altre parti della Americhe come il balanço brasiliano, l’habanera, o il ritmo di clave della musica afro-cubana, tutti elementi ritmici che si sono poi fusi con lo swing nel normale scambio tra diverse culture musicali, diventando bagaglio ritmico comune nei jazzisti moderni. Il tutto senza considerare altri elementi non trascurabili e che certo chi improvvisava nel Settecento non poteva conoscere, come i field hollers precursori del blues, i work songs, i negro spirituals etc. Quindi partire dal Settecento europeo è a essere molto generosi una forzatura, per non dire che è una evidente distorsione dei fatti.

Peraltro, si può essere dei grandi jazzisti anche senza utilizzare obbligatoriamente lo strumento dell’improvvisazione. Si può dimostrare di esserlo anche solo in fase di composizione e scrittura. Ci sono opere totalmente scritte che sono jazz, basterebbe esplorare certe composizioni di Duke Ellington ad esempio. Viceversa, c’è molta musica improvvisata (specie europea) che non ha minimamente a che fare col jazz se è per questo. Quindi di che si parla?

Riccardo Facchi

Gerry Mulligan & his Big Band live at the North Sea Jazz Festival -1982

Gerry Mulligan è stato uno dei jazzisti bianchi più importanti della storia del jazz, Forse il più grande baritonista del jazz, l’unico ad essere riuscito ad addolcire e a rendere “cool” il suono basilarmente robusto e scoppiettante di quello strumento, fornendogli un timbro proprio e perfettamente riconoscibile al primo ascolto, ma soprattutto egli è stato un big band leader e arrangiatore di primissimo livello, tra i migliori del genere. Ispirato sicuramente dalla concezione orchestrale ellingtoniana, soprattutto sul piano timbrico, ha saputo mettere a frutto la sua esperienza diretta da giovanissimo come arrangiatore nelle big band della tarda Era Swing (Gene Krupa, Elliot Lawrence e Claude Thornill) per formarsi un proprio stile, dove un sofisticato intreccio delle linee melodiche tra le varie sezioni dell’orchestra, talvolta in contrappunto, la faceva da padroni e sempre con uno spiccatissimo senso dello swing.

Ne ho avuto prova diretta quando ebbi la fortuna di assistere ad un grandioso concerto della sua Concert Jazz Band, edizione anni ’80, a fine di quel decennio alla Grand Parade du Jazz di Nizza, nei giardini di Cimiez posti in collina: uno dei più eccitanti cui abbia potuto assistere in tanti anni, dove l’orchestra girava come un orologio con grandi solisti ispiratissimi e suoi arrangiamenti meravigliosi.

Propongo perciò oggi un concerto rintracciato in rete del baritonsassofonista con la sua big band al North Sea Jazz Festival, registrato nella Prins Willem Alexanderzaal del Congresgebouw, all’Aia, il 16 luglio 1982. I dischi di riferimento di quel periodo sono Walk On the Water del 1980 e il successivo Little Big Horn pubblicato nel 1984.

Tra gli orchestrali si individuano Dave Glenn al trombone – Harold Danko al pianoforte – Ed Neumeister al trombone – Chris Rogers al flicorno. Il set dei brani eseguiti dovrebbe essere il seguente: – Bweebida Bobbida, For an Unfinished Woman Walk On The WaterOut Back Of The BarnI’m Getting Sentimental Over YouSong for StrayhornMaytagLine for LionsLittle Big Horn . Buon ascolto e buon fine settimana con l’orchestra di Gerry Mulligan.

Henry Threadgill: Old Locks and Irregular Verbs (PI , 2016)

L’identificazione esclusiva del jazz con l’improvvisazione è una idea talmente radicata nella mente degli appassionati del genere dal farla considerare quasi un indiscutibile assioma. Eppure, a ben vedere, le cose non stanno esattamente così, poiché se è vero che l’improvvisazione è un tool quasi sempre presente in una esecuzione jazz, essa non identifica completamente le caratteritiche di una musica che va considerata un linguaggio dalle precise e originali caratteristiche che si possono esplicare anche solo in fase di scrittura e composizione, ossia a monte dell’improvvisazione stessa. In altri termini, si può dimostrare di essere dei grandi jazzisti anche solo svolgendo l’attività di scrittura e composizione.

Il contraltista e flautista Henry Threadgill, nel corso della sua carriera ha dimostrato di essere in questo senso uno dei più fertili compositori del jazz moderno e ci pare la personificazione del concetto appena esposto. Ce lo conferma, a maggior ragione, questo suo lavoro del 2016 che lo vede protagonista proprio solo nell’attività di composizione e direzione di un gruppo di musicisti impegnati ad eseguire la sua musica. Ovviamente, il concetto di composizione scritta per Threadgill, come per altro per tutto il jazz, è ben diverso da ciò che si intende in ambito accademico e non prescinde dalla presenza dell’improvvisazione e dalla libertà espressiva del singolo strumentista coinvolto nell’esecuzione della partitura. In altri termini, la musica di Threadgill, pur essendo abbondantemente frutto di scrittura, mantiene intatte le caratteristiche della composizione istantanea.

Il disco è il suo sentito omaggio a un vecchio amico, il compositore-direttore Lawrence D. “Butch” Morris, trombettista, compositore-direttore scomparso nel 2013 ed è stato commissionato e presentato in anteprima al Winter Jazz Fest di New York nel gennaio 2014, dove è stato eseguito per ben due volte. La musica di Threadgill si è sempre caratterizzata per l’utilizzo di una strumentazione particolare e poco ortodossa per i gruppi jazz, ma in questo caso pare persino essersi superato. Innanzitutto, balza all’orecchio la presenza davvero inusuale di due pianoforti, quelli di Jason Moran e del cubano David Virelles che giocano un ruolo decisivo, ai quali si aggiungono, Curtis Macdonald e Roman Filiu ai sassofoni contralto, Jose Davila alla tuba, Christopher Hoffman al violoncello e Craig Weinrib alla batteria.

Threadgill è un perfetto conoscitore della tradizione jazz (cosa rilevabile sin dalle prime esperienze discografiche con il trio Air), ma rispetto ad altri musicisti coevi non la vive come un feticcio, cerca cioè di svilupparne in chiave moderna alcuni di quegli aspetti peculiari che fin dalle origini le hanno dato impulso e carattere: il dialogo e l’intreccio di linee compresenti e stratificate, che sono costantemente presenti sin dalle origini dello stile New Orleans come voci libere nell’intonazione, nella timbrica e nel disegno melodico. Questo Old Locks and Irregular Verbs, ne è un esempio. Qui i musicisti si muovono con grande libertà e la struttura compositiva risulta nel contempo controllata e aperta. La composizione è divisa in quattro parti e come sempre la musica di Threadgill non si presta ad un facile ascolto, ma se si ha voglia davvero di impegnarsi riserva spunti di non comune interesse musicale e a tratti persino un discreto coinvolgimento emotivo, specie nella Part Four, dominata dai due pianoforti e nel finale d’insieme. Non è poco.

Riccardo Facchi

Michel Portal live – 2021

In alcuni degli articoli pubblicati di recente su questo blog abbiamo affrontato il tema del jazz europeo sotto diversi aspetti critici, sottolineando in particolare come a nostro avviso il jazz europeo abbia già dato il suo meglio in passato, quando le frequentazioni e gli scambi degli improvvisatori europei con i jazzisti americani erano più intensi e frequenti di quanto lo siano oggi.

Una conferma l’ho avuta proprio in questi giorni riascoltando alcuni lavori discografici di Michel Portal, oggi ottantasettenne e una delle figure storiche più rappresentative della musica improvvisata e del jazz europeo, la cui statura artistica è riconosciuta a livello internazionale. Portal è rimasto attivo sino a questa veneranda età, se si pensa che uno dei suoi ultimi lavori discografici, intitolato non a caso MP85 (Label Bleu), è del 2021 e fa chiaro riferimento alla sua età raggiunta in quell’anno. Il disco evidenzia ancora una straordinaria creatività del musicista francese avendo anche ricevuto grande riscontro critico e giornalistico.

Pioniere e figura di spicco del free jazz europeo, compositore di musiche per film, virtuoso interprete del repertorio classico (Mozart, Brahms) e di compositori del Novecento come Stockhausen, Boulez, la carriera di Michel Portal mostra un musicista – polistrumentista davvero completo, un manifesto vivente di audacia, rischio, condivisione e apertura mentale. Di conseguenza, abbiamo deciso di proporre per questo fine settimana un suo recente concerto registrato al Grand Théâtre che contiene al suo interno anche una sua interessante intervista. Merita senz’altro l’ascolto dei nostri lettori.

Felice di essere infelice…

Glad to Be Unhappy è una delle tante perle scritte da Richard Rodgers, con testi di Lorenz Hart. La canzone fu introdotta nel loro musical del 1936 On Your Toes, cantato da Doris Carson e David Morris, sebbene all’epoca non fosse popolare, poiché c’era solo una registrazione della canzone. Nella produzione londinese del 1937, fu cantata da Gina Malo e Eddie Pola. La canzone è stata poi eseguita nel revival di Broadway del 1954 da Kay Coulter e Joshua Shelley.

Il testo racconta di un amore non corrisposto e la musica asseconda il testo esprimendo una velata malinconia nella melodia, ma che nel prosieguo comunica una sottile vena di sereno benessere interiore se non proprio di felicità. La canzone gode comunque di diverse versioni vocali, tra cui quella come sempre notevole di Frank Sinatra e quella emotivamente coinvolgente di Billie Holiday:

Le versioni jazz strumentali non sono molte ma quasi tutte di alto livello, con particolare riferimento a quella flautistica memorabile di Eric Dolphy, quella raffinata di Paul Desmond e quella più recente, davvero interessante del chitarrista Nels Cline, protagonista di un bel disco di qualche anno fa molto sottostimato e intitolato Lovers, che tra l’altro abbiamo recensito a suo tempo.

  • Eric Dolphy, in Outward Bound (1960)
  • Clare Fischer, in Easy Livin’ (recorded August 8, 1963; released in limited edition 1966; reissued 1968)
  • Paul Desmond, in Glad to Be Unhappy (1965)
  • The Great Jazz Trio, in Love For Sale (1976)
  • Wynton Marsalis, in Standard Time, Vol. 5: the Midnight Blues (1998)
  • Chris Botti (featuring John Mayer on lead vocals), in Chris Botti in Boston (2008)
  • Nels Cline, in Lovers (2016)

Evidenzio qui sotto le due citate di Sinatra e Dolphy con aggiunta la versione popolare portata al successo da The Mamas & The Papaa. Buon approfondimento di ascolto.

Battaglia tra big band, Live at the Newport Jazz Festival 1968

Dopo il clamoroso successo per le formazioni orchestrali legato al cosiddetto periodo della Swing Era, con l’avvento del jazz moderno la musica improvvisata si è maggioritariamente evoluta in ambito di piccole formazioni. Tuttavia, il jazz per formazioni allargate ha continuato ad esistere e in qualche modo anche a progredire, nonostante una progressiva difficoltà a tenerle in vita anche sul piano economico-organizzativo, sia per merito di big band leader storici, come Duke Ellington, Count Basie, Woody Herman, Lionel Hampton e Stan Kenton che hanno proseguito la loro attività sino pressoché alla loro scomparsa, sia per l’emergere di nuovi protagonisti con concezioni innovative come Dizzy Gillespie, Gil Evans, Gerry Mulligan, Quincy Jones, Thad Jones &Mel Lewis, Don Ellis, George Russell, Charles Mingus etc.. In realtà, molte altre importanti ma meno stabili rispetto alle prime citate si sono attivate, sino ad arrivare alla scena odierna, dove si stanno distinguendo diverse orchestre europee che mantengono viva la musica jazz per orchestra.

Tra le orchestre europee che hanno fatto in un certo senso scuola in Europa, vi è stata tra anni ’60 e ’70 la notevole  Kenny Clarke/Francy Boland Big Band, avente come co-leaders il batterista Kenny Clarke, da anni residente nel Vecchio Continente, e il pianista e compositore belga Francy Boland. Parlo di scuola, in quanto negli elementi formanti l’orchestra vi era la partecipazione comune tra grandi jazzisti americani ed europei, seguendo una brillante idea di interscambio musicale che ha dato successivamente notevole spinta al jazz europeo prodotto da tanti bravi jazzisti europei.

Come anche sottolineato nello scritto precedentemente pubblicato, per alcuni decenni l’interscambio musicale tra jazzisti americani ed europei è stato foriero di interessanti risultati proprio per la qualità del jazz europeo, qualità che invece è poi progressivamente decaduta (ovviamente a nostro parere) quando si è assistito a un progressivo distacco delle nuove generazioni di improvvisatori europei dal jazz americano e, soprattutto, dai frequenti interscambi diretti con i colleghi d’oltre oceano.

Il video che oggi proponiamo ai nostri lettori è dedicato in buona parte alla suddetta orchestra, con l’aggiunta dell’esibizione di altre due big band, in sequenza: l’olandese Boy Edgar Big Band e la già citata, notevole, Thad Jones & Mel Lewis Big Band, orchestra americana che più o meno ha operato negli stessi decenni della Clarke & Boland.

Per chi non lo conoscesse, François Boland (6 novembre 1929 – 12 agosto 2005) era di origine belga. Si fece notare per la prima volta nel 1949 e collaborò con grandi del jazz belga come Bobby Jaspar e nel 1955 entrò a far parte del quintetto di Chet Baker. Trasferitosi negli Stati Uniti, iniziò ad arrangiare per Count Basie, Benny Goodman, Woody Herman e Dizzy Gillespie, e creò un ottetto con il batterista Kenny Clarke prima di tornare in Europa e diventare il principale arrangiatore del big band leader Kurt Edelhagen. Nel 1961, partendo da una sezione ritmica composta da Clarke, Jimmy Woode e lui stesso, fondò appunto la Kenny Clarke-Francy Boland Big Band, che diventò rapidamente una delle più note big band riunite fuori dagli Stati Uniti. La big band rimase in vita sino al 1972, orchestra di cui è disponbile una valente discografia che merita l’approfondimento degli appassionati.

L’orchestra aveva tra le sue fila fior di solisti, sia americani – per lo più residenti in Europa – che europei, come il tenorsassofonista Johnny Griffin, il trombettista Benny Bailey, il baritonista Sahib Shihab tra gli americani e i tenorsassofonisti Tony Coe e Ronnie Scott tra gli europei.

IL set dei brani proposti dalla Clarke & Boland dovrebbe essere questo: 0:00 Griff’s Groove 10:00 Rue Chaptal 14:14 November Girl 21:51 unknown 26:20 Kenny & Kenny; a seguire due brani dellla Boy Edgar’s Band 32:45 Unknown – 38:43 Star Crossed Lovers, infine quelli della Thad Jones &Mel Lewis: 43:52 Three in One 57:13 Don’t Ever Leave Me 1:02:59 A-That’s Freedom 1: 13:04 The Groove Merchant– Buon ascolto e buon fine settimana.

Innovazione vs tradizione, o piuttosto jazz europeo vs jazz americano?

Come ho più volte sottolineato su queste colonne, uno dei disastri commessi per decenni a livello di critica nel nostro paese verso il jazz è stato il costante tentativo di interpretarlo seguendo un approccio politico-ideologico, per lo più forzosamente applicato a una materia per la quale tale approccio dimostra di essere del tutto fuori contesto sociale prima ancora che culturale e artistico. Esso tende a condizionare pesantemente il livello di giudizio e di valutazione della musica, generando talvolta contrapposizioni troppo amplificate. Un classico esempio è la contrapposizione tra innovazione e tradizione, in cui l’una pare debba sempre negare o escludere l’altra. Di fatto i riscontri musicali nel jazz paiono confutare l’esistenza effettiva di tale contrapposizione.

Detto però onestamente, tutta la storia della critica jazz (più che il jazz in se stesso) ha vissuto di sterili discussioni tra fazioni contrapposte, il tutto ben prima della comparsa di tale approccio ideologico: jazz moderno contro jazz tradizionale, jazz nero contro jazz bianco, avanguardie free contro boppers, hard boppers, e via discorrendo con i possibili esempi. Diciamo che il suddetto approccio ideologico, dilagato nella nostra critica dagli anni ’70, non ha fatto altro che aumentare le contrapposizioni, i pregiudizi critici, ma soprattutto le distorsioni nelle valutazioni su musica e musicisti che la producevano.

Con la formazione e l’evoluzione di una via europea al jazz sempre più ampia e indipendente dal jazz americano, negli ultimi decenni un nuovo genere di contrapposizione, anch’essa a nostro avviso abbastanza artefatta, si è sviluppata da noi, generando dibattiti su chi, tra jazz europeo e jazz americano (definito spesso in modo generico e un po’ sprezzante come mainstream americano), ne possegga oggi il primato artistico e creativo, lasciando sottilmente intendere che l’innovazione stia tutta nell’attuale jazz europeo, mentre il jazz americano sia sinonimo di tradizione e conservatorismo. Argomentazioni del tutto artificiose per quanto sono prive di reale fondamento.

Lasciando perdere per un attimo la constatazione che il jazz si è diffuso in tutto il globo e che limitare il confronto solo tra jazz nordamericano e jazz europeo ha in sé l’evidente vizio di trascurare i non meno importanti contributi del continente latino americano, delle aree caraibiche e, in minor misura, di quello asiatico e africano, la domanda che innanzitutto sorge spontanea è di genere metodologico, ossia: con quali criteri culturali ed estetici si valuta il jazz? Con quelli della cultura musicale europea o quella americana?

La questione, peraltro già qui più volte trattata, parrebbe poco rilevante in prima istanza (l’importante è che la musica sia buona, verrebbe semplicisticamente da dire, e se tale è il criterio con cui la si valuta non dovrebbe mutarne più di tanto il giudizio critico), invece, a livello anche solo di gusto personale, si rivela spesso decisiva. Solo per fare un esempio, nella cultura musicale europea prevale la valutazione del parametro armonico e strutturale, in quella americana prevale il criterio ritmico-melodico: culture diverse che hanno generato musiche diverse, per quanto vi siano storicamente stati interscambi sempre più frequenti con il progredire dei mezzi di trasporto, informatici e di telecomunicazione, oggi ormai disponibili a livello universale.

Per certi versi la faccenda pare alle nostre orecchie persino un po’ anacronistica, nel senso che per quel che ci riguarda il jazz europeo (o per meglio dire quella che io preferisco chiamare musica improvvisata europea) ha già goduto del suo apice nei decenni addietro, quando nessuno si poneva il problema di doversi forzatamente affrancare dai riferimenti americani, mentre in tempi più recenti si è osservato un certo declino creativo nelle proposte e, quel che più conta, una carenza di nuove figure di rilievo. Non ci pare, infatti, che musicisti del livello di Django Reinhardt, Stéphane Grappelli, Barney Wilen, Bobby Jaspar, Martial Solal, Tubby Hayes, Tony Coe, il grande Niels-Henning Ørsted Pedersen, i fratelli Joachim e Rolf Kühn, Jean Luc Ponty, George Gruntz, Franco Ambrosetti, il recentemente scomparso Duško Gojković – limitandoci solo ad alcuni dei musicisti che sapevano maneggiare bene l’idioma del jazz tanto quanto i musicisti americani che regolarmente frequentavano – siano stati complessivamente sostituiti. Per non parlare di quelli che pure hanno saputo dare una linea propria al jazz europeo senza negarne il suddetto idioma, come Michel Portal, John Surman, John Taylor, Kenny Wheeler (peraltro di origine canadese), e un po’ tutta la fiorente scuola inglese, Jan Garbarek, Michael Gibbs (di origine sudafricana), Albert Mangelsdorff e la scuola tedesca, Misha Mengelberg, Han Bennink, Jasper van’t Hof e la scuola olandese, Wojciech Karolak, Zbigniew Seifert, Tomasz Stanko e la scuola polacca, il nostro Enrico Rava e che dire della scuola russa, della finlandese etc. etc., chissà quanti altri del periodo meritano di essere citati. Insomma, tra anni ’60 e ’70 il panorama del jazz europeo era ricchissimo di proposte e di personaggi creativi, senza oltretutto tanti proclami di affrancamento dai riferimenti americani come si fa oggi.

Joachim Ernst Berendt

Del resto queste non sono solo personali opinioni. Basterebbe sfogliare il Libro del Jazz del musicologo e lungimirante produttore tedesco Joachim Ernst Berendt, scritto proprio in quegli anni ’70, in cui sosteneva: “Il musicista jazz europeo di oggi dispone di una tavolozza musicale i cui colori provengono dalla grande cultura musicale e dal folklore di tutto il mondo e conosce il suo Stockhausen e il suo Ligeti meglio di qualunque suo collega americano. Di questi elementi egli dispone con maggior disinvoltura e maestria dei jazzisti americani e dei concertisti europei, in quanto nei primi predomina la tradizione jazz e nei secondi la tradizione della musica europea da concerto. In questo modo il jazzista europeo ha trovato un contrappeso per l’indubbia superiorità del musicista americano nello swing e nell’intensità estatica, provenienti dalla tradizione nera“. Tuttavia, Berendt aggiungeva in modo quasi visionario il concetto seguente: “Evitiamo malintesi: niente può danneggiare di più noi europei – specie nel jazz – che uno sciovinismo nazionalistico. Nel periodo di alcuni anni, dopo la morte di Coltrane, il jazz europeo ha fatto di più di quello americano. Subito qualche critico europeo e giapponese ha parlato della «fine del jazz americano» e della «superiorità del jazz europeo». Tutte sciocchezze. Non abbiamo in Europa né un Charlie Parker né un Coltrane. E nemmeno un Freddie Hubbard o un Keith Jarrett“. Sembra una descrizione esatta di quello che poi è successo e sta ancora succedendo.

Perciò, il tanto vantato affrancamento odierno dal jazz americano e dalla relativa cultura musicale di base cercando di farla passare per tradizione ormai vecchia e superata, non ci pare stia portando frutti musicali poi così significativi, o perlomeno paragonabili a quelli prodotti in precedenza, piuttosto pare persino il contrario. Tra l’altro, sempre Berendt nel suo testo sottolineava come il jazz europeo abbia caratteristiche più collettive che individualistiche e non è un caso che oggi esso si stia distinguendo per le varie eccellenti e preparatissime formazioni orchestrali, utilizzate dagli stessi jazzisti americani quando sono in tour europeo.

Riguardo poi alla libera improvvisazione europea post free, il musicologo Giann M. Gualberto giustamente osservava di recente su Facebook: Uno dei segnali dell’arretramento culturale delle ex-avanguardie europee è stato, fra i tanti, la perdita di contatto con il jazz quale arte di preponderanti origini africano-americane e inconfondibilmente americana. Nella volontà alquanto ipocrita di voler sfuggire a un temuto “colonialismo all’incontrario” (un effetto inevitabile del contrappasso), dettato dall’astio verso i vincitori della Seconda Guerra Mondiale che non dimostravano di voler tornare pacificamente e rispettosamente a cuccia, molti legami proficui e meditati venivano tagliati brutalmente (lasciando, allora sì, praterie alla conquista brada dei mercati europei senza più alcun filtro culturale). La ricerca di una “via europea” al jazz, che negli anni Sessanta e Settanta aveva iniziato a dare notevoli e originali frutti attraverso un fitto dialogo e scambio fra le sponde dell’Atlantico, è stata stracciata per aderire, senza un adeguato processo di maturazione culturale e politica, ad una “libera improvvisazione” che, seppur costruita diversamente, risultava fonicamente simile -ma strutturalmente assai più debole – alle elaborazioni delle ormai vetuste e consunte avanguardie storiche (un passaggio che agli americani invece doveva servire a liberarsi una volta per tutte dallo sterile servaggio europeo per dare vita ad una propria, autoctona ricerca). Il che, d’altronde, evidenziò pure quanto presuntuosamente poco gli europei, critici e musicisti, avessero capito dei nuovi movimenti artistici americani, che erano veramente avanguardia, senza i lacci e i lacciuoli della verbosa autoreferenzialità europea, senza referenti che non fossero africano-americani e che non fossero legati alla situazione politica, sociale e storica americana. La reazione tutta paternalistica dell’intellighenzia europea doveva creare una serie di situazioni temporanee, dai risultati alterni e del tutto incapaci di affrontare l’avvicinarsi della globalizzazione: l’improvvisazione francese, quella olandese, quella tedesca, quella nordica si sono rivelate effimere per quanto occasionalmente più che brillanti grazie a individualità più che a un movimento estetico omogeneo, lasciando soprattutto tracce di un desiderio di neo-colonialismo razzista che ha fatto breccia, ad esempio in Italia, in una generazione di critici e musicologi del tutto velleitarî, mentre lo sforzo più complesso ed economicamente motivato della conservazione si concentrava nei consolatorî prodotti alto-borghesi, kitsch, plastificati del mondo neo-Biedermeier della ECM e affini. Nel frattempo, il “jazz” ritornava a “casa”, negli Stati Uniti, dove riprendeva una vita di stenti e ciononostante fiorente anche in numerose aree eccentriche rispetto a New York. Si riappropriava perciò di una veste “nazionale” che è quanto oggi gli conferisce l’aura internazionale, riflesso del cosmopolitismo e policulturalismo polietnico americano. Il mainstream è ritornato ad essere, pur senza grandi benefici economici, il ritratto musicale par excellence delle metropoli americane, uno dei tanti volti proficui del turismo culturale negli Stati Uniti. Il che, ovviamente, non esclude una vasta ricchezza di fenomeni e di interazioni di cui oggi beneficia soprattutto la nuova musica accademica. Il distacco dalle collaborazioni costanti e quotidiane, pianificate, con i musicisti europei che si davano negli anni Sessanta e Settanta, ha probabilmente causato danni da ambedue le parti, ma l’entità del danno subito dagli improvvisatori europei è incalcolabile. Quanto al mainstream statunitense, esso mantiene una coscienza acutissima della propria tradizione e dei modi per arricchirla quotidianamente, grazie anche e non solo ad una diffusa maestria strumentale ed idiomatica che non conosce rivali, perché in grado di accogliere pure l’enorme, preziosa ricchezza culturale rappresentata dai costanti flussi migratorî in entrata”.

Proprio per evitare quel “danno reciproco”, cui accenna Gualberto, bisognerebbe forse cominciare a cambiare qualcosa nella narrazione della scena contemporanea della musica improvvisata, o almeno farsi venire qualche dubbio.

Riccardo Facchi

Una splendida battaglia tra band e batteristi – Newport Jazz Festival, 1968 

Secondo una certa prosa (tendenziosa?) portata avanti da alcuni musicisti nazionali e da una critica jazzistica nostrana, sedicente “progressista,” il cosiddetto “mainstream americano” sarebbe ormai cosa morta e sepolta, a favore di uno sfavillante (?) attuale “jazz europeo” (per lo più di marca ECM, guarda caso) che finalmente si sarebbe liberato da “il perpetuarsi delle radici R&B, la fedeltà a un’idea imperante di musica afro-americana o le più celebri melodie degli standard” – come si è potuto testualmente (e tristemente) leggere da una recente recensione riportata su Facebook estrapolata da un testo scritto su una nota rivista nazionale di settore – lasciando probabilmente intendere che ormai il livello di certa musica improvvisata europea (così personalmente preferisco da tempo etichettarla) definitivamente sganciata dagli storici riferimenti di base del jazz americano avrebbe raggiunto vette artistiche e creative ben superiori.

Non mi sono sorpreso per nulla nel leggere certe cose, dal mio punto di vista pressoché prive di reale ricoscontro, poiché è una narrazione abbastanza fantasiosa che in realtà va avanti da decenni nel nostro paese. Ricordo infatti che già molto tempo fa capitò di ascoltare su radio RAI sostenere che la musica dei Jazz Messengers di Art Blakey fosse ormai, letteralmente, “musica per le nonne”.

Lasciando perdere per un attimo l’inspiegabile tentativo un po’ brutale di voler liquidare senza ragione anche solo l’importanza storica e artistica di quasi un secolo di musica improvvisata (a nessuno verrebbe in mente in ambito accademico di liquidare oggi Palestrina, Monteverdi, Vivaldi o Mozart perché “musica vecchia” o “superata” non si sa bene da cosa) e rispettando comunque la libera opinione di chiunque, sarebbe sempre opportuno supportare opinioni così decise e definitive con dei dati di fatto, poiché il jazz americano – anche quello basato sugli elementi sopra citati – mi pare goda ancora oggi di ottima salute, certamente più interessante e musicalmente creativo di certa “sbobba” aritmica e inespressiva di marca europea così noiosa, stantia e al tempo stesso così inspiegabilmente enfatizzata, almeno così ci pare essere, opinione per opinione. Paradossalmente ci pare che il jazz europeo abbia piuttosto raggiunto certi livelli comparabili con quello americano già intorno agli anni ’70, quando nessuno si sognava di mandarlo all’oblio, basterebbe indagare meglio e fare gli opportuni raffronti con la produzione europea attuale per rendersene conto, peraltro spesso tenuta in alto da “grandi vecchi” già affermatisi all’epoca.

Sta di fatto che, anche alla luce di questa lunga premessa, oggi abbiamo deciso di proporre un po’ di vecchio “mainstream americano” prodotto da alcune rilevantissime band che nella seconda metà degli anni ’60 hanno saputo proporre musica di alto livello artistico e creativo, certamente non così facilmente derubricabile.

Il filmato riporta alcuni stralci di un tour europeo sotto l’etichetta del Newport Jazz Festival che vede in azione i Jazz Messengers di Art Blakey, il trio di Elvin Jones e il quintetto di Horace Silver datati 1968, con una aggiunta di una “drums battle” tra i tre batteristi presenti nelle tre formazioni.

La band dei Jazz Messengers del batterista di Pittsburgh era composta all’epoca da: Bill Hardman tr, Billy Harper t.sax, Julian Priester trb, Ronnie Mathews p. Larry Evans b: con un giovane Billy Harper in grande spolvero su You Don’t Know What Love Is. A seguire si esibisce il trio di Elvin Jones con un gigantesco Joe Farrell al sax tenore impegnato su For Heaven’s Sake e il grande Jimmy Garrison al contrabbasso. Per ultimo si esibisce il quintetto di Horace Silver composto da Randy Brecker tr, Benny Maupin t.sax Johnny Williams b. Billy Cobham dr, impegnati su Psychedelly Sally brano d’esordio di Serenade to a Soul Sister (Blue Note). Lascio ai nostri lettori stabilire se questa musica e questi musicisti meritino di essere liquidati e posti definitivamente nell’oblio. Buon ascolto e buon fine settimana.

Gerald Wiggins, un pianista eclissatosi a lungo nel mondo di Hollywood

Molti jazzisti della storia che per nascita o semplice residenza hanno scelto di stazionare nell’area californiana hanno subito una inevitabile minor esposizione dei colleghi presenti sulla East Coast americana, con particolare riferimento ai musicisti impegnati a New York, centro musicale indiscusso, non solo americano. Gerald Foster Wiggins (12 maggio 1922 – 13 luglio 2008), pianista e organista jazz, era nativo di New York City, ma ha agito professionalmente in carriera per lungo tempo a Los Angeles e dintorni. Wiggins ha iniziato con le lezioni di piano quando aveva solo quattro anni, passando dalla musica classica al jazz da adolescente. Ha suonato il contrabbasso mentre frequentava la High School & Art e ha lavorato per un certo periodo nei primi anni ’40 come accompagnatore al pianoforte per il comico Stepin Fetchit. Ha proseguito suonando con Les Hite partecipando nel 1943 a un tour con le big band di Louis Armstrong e Benny Carter. Mentre era impegnato nell’esercito (1944-1946), ha suonato spesso nei jazz club locali di Seattle, ma dopo il congedo si stabilì definitivamente nell’area di Los Angeles dove ha inaugurato la sua proficua attività musicale per la televisione e il cinema. 

Divenuto un popolare accompagnatore per cantanti, Wiggins ha lavorato con Lena Horne (in tournée con lei dal 1950 al 1951), Helen Humes, Ella Mae Morse, Eartha Kitt, Nat King Cole, Kay Starr, Lou Rawls, Jimmy Witherspoon, Ernie Andrews, Linda Hopkins e Joe Williams, tra gli altri. Negli studi cinematografici di Hollywood è diventato in parallelo il doppiatore per molti attori cinematografici che hanno assunto ruoli di canto. In particolare, è stato il tutor di Marilyn Monroe per le sue canzoni in film come in “A qualcuno piace caldo“. Al posto d’onore nella sua sala da musica c’era un enorme ritratto autografato di lei, su cui erano scritti i suoi ringraziamenti: “Non posso emettere un suono senza di te“, diceva. 

Nell’area di Los Angeles, Wiggins ha guidato dei suoi trii sin dagli anni ’50, diventando un appuntamento fisso nei club locali. Wiggins ha prodotto diverse sessioni di registrazione nel corso degli anni per le etichette Swing e Vogue (entrambi nel 1950), Ember, Crown, Tampa, Specialty, Motif, Mode, Challenge, Hi-Fi, Contemporary (1961), Black & Blue e, negli anni ’90, per Concord, specie con il sasofonista Scott Hamilton. Con l’impegno cinematografico, i suoi lavori in trio e il suo supporto per i cantanti, Wiggins è in gran parte scomparso dal radar del jazz negli anni ’50 e ’60, anche se il suo profilo è cresciuto quando Jerry Fielding lo ha assunto con il sassofonista Buddy Collette e il bassista Red Callender per apparire dal vivo sulla sua TV spettacolo, una sorta di svolta per i musicisti neri.

Gerald Wiggins è stato a lungo un pianista molto flessibile e abbastanza a suo agio in ambienti swing o bop, ma dava il meglio di sé quando si esibiva con il suo trio più duraturo, una formazioneo che includeva il contrabbassista Andy Simpkins e il batterista Paul Humphrey. Il suo stile swingante e costantemente spiritoso condito da molti riff accattivanti, a tratti ricordava Erroll Garner e Art Tatum, ma generalmente sapeva farsi riconoscere.

Nel 1960 uscì il suo miglior disco come organista, Wiggin’ Out (con Harlod Land al sax tenore), noto per la qualità della sua musica e per il suono fresco e chiaro. Sempre nel ruolo di organista ha registrato poi Heart & Soul (Contemporary, 1962) per conto del sassofonista Teddy Edwards

Negli anni ’70 ha collaborato spesso con la cantante Helen Humes che lo convinse a fare di nuovo un tour internazionale nel 1974. Wiggins apparve con la cantante nel 1978 al festival di Nizza. Quando il tempo dei musicisti da studio giunse al termine negli anni ’80, Wiggins tornò ancora una volta nel circuito dei club di Los Angeles, oltre a suonare con la big band guidata dal trombettista Gerald Wilson. È apparso regolarmente nei festival jazz americani e occasionalmente a festival giapponesi ed europei. Gli anni ’80 e ’90 hanno riportato Wiggins al suo apice come musicista, ben documentato ad esempio dall’album solista che ha realizzato alla Maybeck Hall nel 1990, disco che racchiude tutte le sue migliori qualità. In particolare il suo collega pianista Jimmy Rowles ha avuto modo di elogiare il suo “relax naturale”, e questo è rimasta la grande dote individuale di Wiggins. Nel New Grove Dictionary of Jazz è stato scritto che Wiggins:”dimostra il suo tocco deciso, la musicalità a tutto tondo e il senso dello swing“. 

La sua discografia da leader nonostante tutto presenta una quindicina di titoli, mentre le sue collaborazioni discografiche per altri leader presentano nomi del livello di Harry Edison, Tal Farlow, Paul Horn, Illinois Jacquet, Cal Tjader, oltre ai nomi già riportati nello scritto.

Di seguito riporto alcuni esempi musicali ricavati dalla rete che lo vedono protagonista nei diversi ruoli citati, in aggiunta un filmato che lo vede in azione dal vivo. Buon ascolto.