Oscar Peterson Trio, Roy Eldridge & Ella Fitzgerald – Jazz At The Philharmonic – 1957 

Jazz at the Philharmonic, o JATP è stato per anni il titolo di una serie di concerti, tour e registrazioni jazz prodotta dal celebre produttore Norman Granz, una delle figure storiche tra i produttori discogrfici, definito come “l’impresario di maggior successo nella storia del jazz”. Granz è stato anche un sostenitore dell’uguaglianza razziale, insistendo, ad esempio, sull’integrazione del pubblico ai concerti che promuoveva, dando anche la possibilità a tanti grandi jazzisti di realizzarsi professionalmente e artisticamente. Come discografico registrò sin dalla metà degli anni ’40 i concerti JATP vendendo inizialmente (dal 1945 al 1947) le registrazioni alla Asch/Disc/Stinson Records (etichette del produttore discografico Moses Asch). Successivamente, dal 1948 al 1953, Granz affittò le registrazioni alla Mercury Records, poi le pubblicò/ristampò su proprie etichette come la Norgran, dal 1953 su Clef e dal 1956 su Verve. Negli anni ’70 fondò per ultima la Pablo.

Il concerto che andiamo a proporre oggi ha in un certo senso valore storico, in quanto documenta proprio uno d quei concerti in tour siglati JATP, precisamente quello completo dell’Oscar Peterson Trio con Ella Fitzgerald e la presenza di altre guest star come Roy Eldridge e Jo Jones. Il filmato, registrato il 5 maggio 1957 al Concertgebouw di Amsterdam nei Paesi Bassi, è opera della allora tv olandese AVRO.
L’introduzione dei musicisti spetta a Norman Granz in persona. Si inizia con l’Oscar Peterson Trio dell’epoca, completato da Herb Ellis alla chitarra e Ray Brown al contrabbasso, che esplode in un fiume di swing esordendo con una delicata e brillantee versione di Joy Spring. Vengono poi presentati Jo Jones e Roy Eldridge che si uniscono al trio su Willow Weep for Me, quindi fa il suo ingresso il violinista Stuff Smith che si esibisce come solista per un paio di brani. Solo a quel punto viene introdotta la stella di Ella Fitzgerald che attacca alla sua maniera Just One of Those Things, con Don Abney al pianoforte al posto di Peterson. La conclusione in una sorta di jam session sul classico ellingtoniano It Don’t Mean A Thing If It Ain’t Got That Swing. Una chicca che merita senz’altro l’apprezzamentodei nostri lettori, non ve ne pentirete.Buon ascolto e buon fine settimana.

Facile da amare, meno da cantare

Cole Porter è stato, come noto agli appassionati, tra i più grandi autori americani di canzoni. Il suo book di temi è tra i più frequentati dai jazzisti di tutto il mondo ancora oggi per la ricchezza di spunti melodici e armonici delle sue composizioni.

Tra le tante sue canzoni di successo oggi proponiamo (You’d Be So) Easy to Love, scritta da Cole Porter per William Gaxton da cantare nello spettacolo di Broadway del 1934 Anything Goes. Tuttavia Gaxton era scontento della sua ampia estensione vocale ed è stato tagliato dal musical. Porter la riscrisse per il film Born to Dance del 1936, dove fu presentata da Eleanor Powell, James Stewart e Frances Langford con il suo titolo alternativo semplificato, Easy to Love. Le prime versioni di successo furono di Shep FieldsFrances Langford e Ray Noble.

L’attore James Stewart ha introdotto Easy to Love nel film del 1936 Born to Dance, cantandola a Frances Langford mentre camminavano a Central Park. Fu la sua unica esibizione vocale sullo schermo, e con buone ragioni. Porter in realtà ha raccomandato Stewart per il ruolo, ma era preoccupato per l’abilità di canto dell’attore. In Cole: A Biographical Essay dello storico del teatro musicale Robert Kimball, Porter ha detto: “…Stewart è venuto a casa e l’ho sentito cantare. Canta tutt’altro che bene, anche se ha delle belle note nella voce, ma potrebbe interpretare perfettamente la parte“. 

In lode della canzone Alec Wilder, nel suo American Popular Song: The Great Innovators, 1900-1950, ha scritto: “Se mai c’è stata una canzone che non dovrebbe avere una nota cambiata, è ‘Easy to Love.’ Né, per quanto mi riguarda, la sua armonia

La canzone, al di là della introduzione solitamente non utilizzata dai jazzisti, segue una classica struttura a 32 bars ABAC. Indichiamo le principali versioni vocali della canzone:

le versioni strumentali dei jazzisti sono parecchie, molte delle quali di grande interesse:

Di seguito evidenziamo una delle prime versioni del 1936 citate all’inizio dell’articolo, quella strumentale di Steve Lacy del 1957 e un paio di trascrizioni: una per big band arrangiata dal grande Sam Nestico e la seconda contenente una improvvisazione di Chris Potter. Buon approfondimenmto di ascolto.

Thelonious Monk: il genio fatta persona

Esaltare le qualità artistiche di uno dei più grandi jazzisti della storia è pressoché superfluo per questo blog da tanto sono note al pubblico degli appassionati. Una mente visionaria, autentico pilastro del jazz moderno e del pianoforte improvvisato, la cui influenza continua ancora oggi a essere presente in modo pervasivo.

Ci limitiamo perciò a lasciar parlare qualche filmato/documentario a lui dedicato, come questo prodotto nel 1991 e rintracciato in rete. Giusto per migliorare e approfondire la sua conoscenza, in particolare in quelle vesti da compositore che lo hanno certificato come uno degli autori più frequentati dagli altri jazzisti. In questo video si possono apprezzare i commenti di altri pianisti che gli devono molto, in particolar modo spiccano quelli di un grande pianista come Randy Weston di cui è sempre stata ben percepibile l’influenza monkiana che gli ha fatto in qualche misura da guida. Anche il parere di altri grandi dello strumento sono presenti nel video: da Barry Harris a Billy Taylor, alternati a momenti musicali che vedono direttamente coinvolto Monk. Tra gli altri commentatori compare anche il celebre produttore Orrin Keepnews, protagonista della realizzazione di molti dei suoi capolavori discografici. Il video merita l’intera visione dei nostri lettori. Buon ascolto e buon fine settimana in compagnia di Theloniuos Monk.

Archie Shepp : On This Night (Impulse! – 1965)

Considero Archie Shepp uno dei pochi giganti autentici del jazz rimasti in vita e ancora attivo, nonostante diversi problemi fisici, direi inevitabili data l’età, che da tempo lo condizionano a imboccare e soffiare il sassofono. Credo che la sua lunga carriera e la sua imponente discografia debbano meritare prima o poi una approfondita analisi, anche perché da noi sul personaggio sono circolate parecchie distorsioni critiche (peraltro le solite) di stampo politico-ideologico che certo non hanno aiutato a comprendere meglio la sua opera. Prima lodato alfiere del Free Jazz e delle battaglie per i diritti civili degli afro-americani contro il sistema dominante dei bianchi americani, poi improvvisamente (e immotivatamente aggiungerei) ritenuto un jazzista stancamente ripiegato sulla tradizione mainstream, quindi di nuovo riabilitato, e via discorrendo. Senza contare il suo presunto atteggiamento (travisato) di “amore-odio” verso Duke Ellington (che invece a detta di chi lo ha conosciuto direttamente rispettava e amava profondamente) e un suo improbabile atteggiamento ironico verso la bossa nova di Jobim (da lui smentito), giusto per citare un paio di esempi di cose messe in bocca al musicista per fini poco chiari e certamente a lui estranei, cose peraltro mai pensate.

Oggi ci occupiamo perciò brevemente di uno dei suoi dischi incisi negli anni ’60, il periodo di sua affermazione sulla scena jazz, tra i meno citati e forse un po’ trascurati rispetto ad altri coevi, ma comunque di pari importanza. Si tratta di On This Night, terzo album della serie pubblicato da Impulse! nel 1965 e inciso in pieno suo coinvogimento nella cosiddetta New Thing. La formazione scelta dal sassofonista, coinvolgeva musicisti di alto livello e in grado di assecondarlo perfettamente, come il bassista David Izenzon e il batterista J.C. Moses nella sessione di registrazione del marzo 1965 e con una band allargata in quella di agosto dello stesso anno. In questa data la formazione includeva il vibrafonista Bobby Hutcherson, il bassista Henry Grimes e i batteristi Ed BlackwellJoe Chambers e Rashied Ali.

Shepp è qui davvero in gran forma, molto creativo e motivato nel saper produrre una musica nuova, certamente libera, ma concepita in maniera forse più controllata rispetto ad altre opere acclamate del periodo e comunque ben agganciata alla tradizione jazz antecedente. Va tuttavia sottolineato come gran parte della riuscita musicale vada attribuita anche alla perfetta intesa con Bobby Hutcherson, che dialoga e sostiene il sassofonista come meglio non si potrebbe, creando una timbrica e un mood espressivo estremamente originali. Ne sono a testimonianza brani come The Original Mr. Sonny Boy Williamson, The Mac Man e la splendida e sentita versione dell’ellingtoniano In a Sentimental Mood che per quel che ci riguarda sprizza da tutti i pori del sassofonista infinito amore per la musica del Duca e proprio nessun odio. La sua prossimità aggiornata ai grandi tenorsassofonisti della sua orchestra, Ben Webster e Paul Gonsalves, appare qui del tutto evidente.

La sua esperienza legata invece alla poesia e al teatro emerge subliminalmente nel brano eponimo, che lo vede esibirsi al pianoforte accompagnando la cantante di impostazione classica Christine Spencer, un commovente tributo a W.E.B. Du Bois (sociologo americano, socialista, storico e attivista panafricano per i diritti civili) in cui viene esaltata inizialmente la tensione espressiva che peraltro inonda un po’ tutto l’album, per poi scioglersi sulle note di un canonico blues.

La versione ristampata in CD di On This Night nel tentativo di documentare la completezza dei brani registrati in sala d’incisione combina a nostro avviso un bel disastro, compromettendo il senso e l’efficacia musicale dellì’opera pensata dal produttore Bob Thiele. Vengono incluse una take alternativa di The Mac Man, tre di The Chased, brano non presente nell’album originale, e una lettura della sua poesia Malcolm, Malcolm, Sempre Malcolm, precedentemente pubblicata nell’album Fire Music. Non solo l’ordine delle tracce è assolutamente diverso, ma la maggior parte dei bonus aggiunti (posizionati qua e là tra le canzoni originali) apportano solo un’ulteriore sensazione di caos, rendendo l’album estremamente dispersivo. Non contenti, il brano Gingerbread, Gingerbread Boy presente nel vinile è stato eliminato. La ragione formale di tale esclusione è che questa traccia proveniva originariamente da una registrazione concertistica a Newport. Il risultato è davvero triste: l’album originale in studio viene distrutto a favore di qualcosa che potrebbe essere meglio intitolato “Complete 1965 Studio Session, etc”. Aggiungo per completezza di informazione e confronto una sorta di recensione parlata in video rintracciata in rete.

Riccardo Facchi

Ray Bryant solo – Montreux 1972

Abbiamo rintracciato in rete il filmato dello splendido piano solo di Ray Bryant al Festival Jazz di Montreux, del 23 giugno, 1972, concerto che poi è stato riportato su disco Atalantic, uno dei suoi dischi migliori di tutta la sua ampia discografia.

Lo proponiamo con piacere ai nostri lettori, specie se già non si possiede il disco, perché merita la loro attenzione e l’apprezzamento di un pianista troppo trascurato ma bravissimo. Il suo pianismo è letteralmente intriso di blues e di gospel, elementi che sa inserire magnificamente nella sua vigorosa proposta, molto espressiva, come nella piena tradizione musicale africana-americana. Non rimarrete delusi nell’ascoltarlo. Buon fine settimana.

Jackie McLean, un post-parkeriano orientato al nuovo

Con l’avvento del Free Jazz e del jazz modale ad inizio anni’60, diversi hard-bopper già affermatisi negli anni ’50 si sono posti il problema di come implementare il canone del jazz moderno sino ad allora consolidato con le innovazioni emerse dalle suddette tendenze stilistiche. Tra questi John Lenwood “Jackie” McLean (17 maggio 1931 – 31 marzo 2006) ha giocato un ruolo non trascurabile, la cui influenza si è persino propagata a diversi strumentisti emersi in prossimità della nostra contemporaneità musicale.

McLean era di New York City. Suo padre, John Sr., suonava la chitarra nell’orchestra di Tiny Bradshaw. Dopo la sua morte avvenuta nel 1939, la sua educazione musicale fu ripresa dal patrigno proprietario di un negozio di dischi e da diversi noti insegnanti. Essendo di New York, ha potuto poi ricevere anche lezioni informali dai grandi innovatrori del periodo: Thelonious Monk, Bud Powell e Charlie Parker. Durante il liceo ha suonato in una band con Kenny Drew, Sonny Rollins e Andy Kirk, Jr. (il sassofonista figlio del noto big band leader Andy Kirk ).

McLean aveva avuto modo di ascoltare Charlie Parker all’età di 14 anni: “la prima volta che quel nome è uscito dalla mia bocca ho capito che in quel momento sarei diventato un musicista“. Solo cinque anni dopo sarebbe entrato a far parte della band di Miles Davis. Insieme a Rollins, McLean ha infatti suonato nell’album Dig di Miles Davis, quando aveva 20 anni. 

Intorno alla metà degli anni’50 ha potuto registrare con altri jazzisti di prim’ordine, come Gene Ammons, Charles Mingus (in Pithecanthropus Erectus), il pianista George Wallington, poi attivo come membro dei Jazz Messengers di Art Blakey. McLean si è unito al gruppo del batterista di Pittsburgh dopo essere stato preso a pugni da Mingus. Temendo per la sua vita, McLean ha tirato fuori un coltello e ha pensato di usarlo contro Mingus per legittima difesa, ma in seguito ha dichiarato di essere grato per non aver pugnalato il bassista.

Purtroppo McLean era un eroinomane già all’inizio di carriera, arrivando di conseguenza a perdere la sua cabaret card di New York City: “La polizia di New York aveva strappato la mia tessera di cabaret e non potevo più lavorare nei club tranne che con Mingus che mi assumeva sotto falso nome“. L’impossibilità di lavorare nei club e nelle sale da concerto lo ha costretto perciò a intraprendere un gran numero di date di registrazione per guadagnarsi da vivere. Ecco perché lo si ritrova in molte incisioni sia da sideman che da leader, producendo un vasto corpus di lavori registrati tra gli anni ’50 e ’60 documentato dall’ampiezza, persino un po’ dispersiva, della sua discografia del periodo.

Le prime registrazioni di McLean come leader sono di pura scuola hard-bop, peraltro non particolarmente distintive. In seguito divenne però un esponente del jazz modale senza abbandonare le sue fondamenta nell’hard-bop, avvicinandosi, come accennato all’inizio, anche alle tendenze più avanzate del jazz del periodo. Il contraltista newyorkese cercava una sorta di tono comune, per potersi muovere tra tutti i 12 centri tonali con totale libertà in completo controllo.

McLean era noto per possedere un timbro strumentale assolutamente distintivo, spesso descritto con aggettivi come “agrodolce”, penetrante, leggermente fuori tono, ma immerso con solide basi nel blues e nella lezione parkeriana. Il suo suono duro dal fraseggio spigoloso lui stesso lo chiamava efficacemente “sugar free”, lasciando intendere come il suo approccio all’improvvisazione fosse scevro da sentimentalismi e svenevolezze, in modo analogo a quanto proponeva l’amico Sonny Rollins al tenore.

Dopo aver registrato per Prestige la sua produzione da leader tipicamente hard-bop, McLean cominciò a mostrare le sue migliori caratteristiche e la sua maturazione artistica andando sotto contratto con la Blue Note Records, che dal 1959 al 1967 gli fece produrre una lunga serie di dischi importanti oltre che notevoli che rimangono tra le opere di maggior rilievo di quei fertili e creativi anni ’60 per il jazz. Blue Note offriva una paga migliore e un controllo artistico maggiore rispetto ad altre etichette. Oltre ai suoi dischi da leader ha potuto registrare anche con una vasta gamma di grandi jazzisti del periodo, tra cui Donald Byrd, Sonny Clark, Lee Morgan, Ornette Coleman, Dexter Gordon, Freddie Redd, Billy Higgins, Freddie Hubbard, Grachan Moncur III, Bobby Hutcherson, Mal Waldron, Tina Brooks.

Tale maturazione è avvenuta a cavallo tra fine anni ’50 e inizio ’60 e ha probabilmente avuto a che fare con la sua partecipazione da attore-musicista nell’opera d’avanguardia The Connection di Jack Gelber, un’opera teatrale off-Broadway che ha gettato una nuova prospettiva sulla natura della fiction. L’opera, pur incentrata sui drogati, affrontava tuttavia delle implicazioni che non si fermavano solo a quel tema. Gelber ha voluto la presenza di veri musicisti come attori, aggiungendo un elemento di realtà scenica, dove McLean interpretava il ruolo del sassofonista. Mi sono innamorato del teatro lì per lì”, ha detto McLean. “In seguito anche il mio modo di suonare il sassofono è diventato molto più teatrale.

Quando The Connection uscì al Living Theatre il 15 luglio 1959, fu immediatamente assalito dalle fionde e dalle frecce dei recensori. Una settimana dopo, la prima recensione favorevole apparve su The Village Voice. È stata una delle tante che sono seguite e che hanno contribuito a salvare l’opera. Jerry Tallmer non si limitava ad esempio a elogiare il jazz, ma lodando Gelber come il primo drammaturgo a usare il jazz moderno, sottolineava il ruolo decisivo della musica alla riuscita dell’opera.

L’idea di incorporare sezioni di jazz in The Connection non è stato un ripensamento di Jack Gelber. Era parte integrante della sua intera concezione prima ancora che iniziasse la scrittura vera e propria dell’opera. Per quanto Gelber non sapesse quali musicisti specifici volere sul palco, la sua sceneggiatura originale (del settembre 1957) mostrava che sapeva quale tipo di musica volere. In una nota in fondo alla prima pagina si afferma: “Il jazz suonato è nella tradizione di Charlie Parker“. Inizialmente Gelber aveva pensato che i musicisti potessero improvvisare su standard, blues, ecc., proprio come avrebbero fatto in qualsiasi sessione informale. Tuttavia, durante il casting dello spettacolo, ha incontrato Freddie Redd tramite un amico comune. Il trentunenne Redd era un pianista di scuola powelliana tra i più promettenti degli anni ’50. Aveva suonato con una varietà di gruppi tra cui quelli di Oscar Pettiford, Art Blakey, Joe Roland e Art Farmer-Gigi Gryce.

Dopo aver messo insieme un quartetto su richiesta di Gelber, aver fatto un’audizione per lui e aver ricevuto il ruolo di attore in The Connection, il pianista rivelò all’autore del suo lungo desiderio frustrato di poter scrivere la musica per una rappresentazione teatrale. In collaborazione con Gelber, ha deciso esattamente dove doveva avvenire la musica. Familiarizzando con l’azione dell’opera, è stato in grado di modellare con precisione il carattere e il tempo di ogni numero. La scelta cadde su Jackie McLean, un contraltista certamente sulla scia della tradizione parkeriana, ma che già in quel 1959 era maturato in un musicista originale. Il suo suono pieno, sicuro e il controllo completo del suo strumento gli consentivano di trasmettere il suo sé musicale più intimo con una facilità espansiva che è gioiosa da ascoltare. La sua crescita era già evidente nel suo più recente album Blue Note Swing, Swang, Swingin’, così come dimostrò di esserlo sul palco di The Connection. Come attore, McLean è stato così impressionante che la sua parte è cresciuta in dimensioni e importanza dall’inizio dello spettacolo.

A McLean, in quel momento dipendente dall’eroina e non autorizzato a esibirsi nei jazz club di New York, è stato permesso di apparire sul palco di un teatro di New York, suonando il sassofono recitando e interpretando un musicista jazz dipendente da eroina. McLean e Redd erano vecchi amici e avevano suonato spesso insieme nei club e ai concerti. Sebbene la sezione ritmica sia cambiata spesso nei primi mesi di spettacolo, si è stabilizzata quando il bassista Michael Mattos e il batterista Larry Ritchie sono stati reclutati e sono rimasti, insieme a McLean e Redd fino alla fine dello spettacolo.

Insomma The Connection si dimostrò un autentico crocevia nella carriera di McLean, poiché alcune delle sue migliori registrazioni Blue Note sarebbero state create poco prima e dopo la sua apparizione nello spettacolo e, naturalmente, sulla registrazione della colonna sonora di Redd. La musica scritta per lo spettacolo, che includeva Music Forever, Wiggin e Theme for Sister Salvation, si può apprezzare su due dischi pubblicati per la prima volta nei primi anni ’60: The Music from the Connection del Freddie Redd Quartet con Jackie McLean su Blue Note, e un album con Redd, il tenorsassofonista Tina Brooks (sostituto di McLean a New York) e il trombettista Howard McGhee. Lo spettacolo durò più di tre anni e McLean fece parte della compagnia in viaggio nel Regno Unito nel 1961.

Come già accennato, I cambiamenti nello stile maturo di McLean iniziarono nel 1959 e forse gran parte di esso fu elaborato proprio mentre suonava, notte dopo notte, in The Connection, lavorando sulle stesse composizioni di Freddie Redd ma senza dubbio applicando nuove variazioni in un periodo di quasi tre anni. È sempre stato un solista irrequieto ed esplorativo e, a differenza della maggior parte dei jazzisti, non disposto a stabilire uno stile e suonarlo praticamente invariato per il resto della sua vita. Il nuovo suono di McLean sarebbe stato ascoltato molto di più dal 1960 in poi. Alcuni dei suoi lavori più avanzati e approfonditi furono però già catturati nel gennaio 1959 quando registrò Blues Inn, Fidel e Quadrangle per Blue Note. Nel 1960, tre tracce di una sessione del 1 settembre furono aggiunte per comporre Jackie’s Bag, che uscì nello stesso anno per Blue Note .

I primi tre pezzi mostrano quanto la scrittura di Jackie si fosse sviluppata e maturata. Quadrangle è una composizione affascinante che McLean ammise poi non si adattasse facilmente ai rhythm changes. Quando queste tracce sono state registrate, tuttavia, stava elaborando nuovi metodi di scrittura e riproduzione. Quadrangle beneficia di eccellenti assoli di McLean e Sonny Clark. Il contraltista ha dichiarato nelle note di copertina di Jackie’s Bag che aveva scritto il pezzo quattro anni prima ed era uno stile di scrittura su cui aveva lavorato per un po’ di tempo. “All’inizio ho avuto qualche problema a metterci degli accordi per soffiarci sopra“, ha continuato, “ma volevo avere una base solida su cui suonare, così come quelle figure che mi venivano in mente“.

In questo periodo McLean aveva iniziato a suonare musica modale più frequentemente. Suonare su scale piuttosto che sulle progressioni di accordi più convenzionali era qualcosa che aveva imparato già nelle band Workshop di Charles Mingus nel 1957, ma non era diventata una pratica comune nel 1960. Gran parte della pratica di Mingus all’epoca era lungimirante e originale ma, come con tutte le cose, il pubblico in generale e la maggior parte degli altri musicisti hanno impiegato molto tempo per mettersi al passo. È molto probabile che la principale spinta d’ispirazione per Jackie sia stato come per molti altri Kind of Blue di Miles Davis. Davis, che ha spinto McLean a suonare gli standard e a studiare a fondo la musica, gli ha anche insegnato a usare lo spazio in modo intelligente ed efficace. Quindi non dovrebbe sorprendere che nella seconda sessione che componeva le sei tracce di Jackie’s Bag, il contraltista ha iniziato a utilizzare una struttura modale nella frase principale di Appointment in Ghana. Come ha notato Bob Blumenthal nel suo inserto per l’uscita in CD aggiornato di Jackie’s Bag nel 2002, la pratica di suonare le scale non era entrata nella scrittura di McLean fino a questa sessione.’ Fornì un’alternativa alle sequenze armoniche standard che McLean avrebbe applicato alle successive esecuzioni di Quadrangle, e questo gli servì bene nell’approccio più aperto che avrebbe presto documentato in album come Let Freedom Ring e One Step Beyond.

Jackie’s Bag risulta essere uno degli album Blue Note di maggior successo di Jackie McLean. Quando sono state aggiunte le sei tracce successive, ha ottenuto un notevole contributo da alcuni dei migliori musicisti di prima linea e della sezione ritmica attivi all’epoca e, debitamente ispirati da tutti loro, alcuni dei migliori assoli di McLean disponibili fino a quella data.

Il 17 aprile 1960, McLean si recò nel New Jersey allo studio di Englewood Cliffs dell’ingegnere Rudy Van Gelder per registrare Capuchin Swing, con Blue Mitchell, Walter Bishop Jr., Paul Chambers e Art Taylor. È un’altra pubblicazione di prim’ordine con brani come Francisco e Condition Blue di alto livello. Altre registrazioni Blue Note seguirono nel 1961, un anno importante se non altro per l’uscita di due album davvero eccellenti: Bluesnik, registrato nel gennaio di quell’anno, e A Fickle Sonance registrato il 26 ottobre.

Da lì in avanti inizia una serie di pubblicazioni che a maggior ragione mostrano l’attenzione di McLean verso le nuove tendenze stilistiche elaborate in un proprio progetto dicografico personale. Nel 1962, registra Let Freedom Ring. Questo album è stato l’apice dei tentativi che aveva fatto nel corso degli anni per affrontare i problemi armonici nel jazz, incorporando idee dagli sviluppi del free jazz di Ornette Coleman (con lui registrerà più avanti il notevole Old and New Gospel) che ha ispirato la sua fusione dell’ hard-bop con la “New Thing”: “la ricerca è iniziata, lascia che la libertà risuoni“. Let Freedom Ring ha iniziato un periodo in cui si è esibito con musicisti jazz d’avanguardia piuttosto che con i veterani artisti hard-bop con cui aveva suonato in precedenza. La serie di album Blue Note da Vertigo a Jacknife e Consequences (usciti postumi solo nel decennio successivo) sono quanto di meglio McLean abbia prodotto nella sua carriera, anche spalleggiato da grandi musicisti come il trombettista Charles Tolliver e talenti da lui scoperti come il batterista Tony Williams, presto approdato alla corte di Miles Davis.

Proprio nella veste di talent scout McLean si è rivelato in carriera dal fiuto infallibile. Tra i grandi musicisti da lui scoperti si possono citare, oltre ai nomi già fatti:  il tenorsassofonista Tina Brooks, il pianista Larry Willis, il trombettista Bill Hardman, il tubista Ray Draper, oltre ai batteristi Jack DeJohnetteLenny WhiteMichael Carvin e Carl Allen che hanno acquisito un’importante esperienza iniziale con McLean.

Nel 1967, il suo contratto discografico, come quelli di molti altri musicisti avanzati, fu risolto dalla nuova gestione di Blue Note. Le sue opportunità di registrare promettevano una paga così bassa che abbandonò la registrazione come un modo per guadagnarsi da vivere, concentrandosi invece sui tour. Nel 1968 iniziò a insegnare alla Hartt School dell’Università di Hartford nel Connecticut. In seguito ha istituito il dipartimento di musica afroamericana dell’università (ora Jackie McLean Institute of Jazz), diventandone il presidente, con il suo programma di laurea in musica in studi sul jazz. La sua registrazione per Steeplechase New York Calling, realizzata con suo figlio René McLean, ha dimostrato che nel 1980 l’assimilazione di tutte le influenze si era completata..

Nel 1970, lui e sua moglie, Dollie McLean, insieme al bassista jazz Paul (PB) Brown, fondarono l’Artists Collective, Inc. di Hartford, un’organizzazione dedicata a preservare l’arte e la cultura della diaspora africana. Fornisce programmi educativi e istruzione in danza, teatro, musica e arti visive. I membri delle band successive di McLean provenivano dai suoi studenti ad Hartford, tra cui Steve Davis e suo figlio René, sassofonista e flautista jazz, nonché un educatore jazz. 

McLean ha avuto dai colleghi un notevole riconoscimento anche come compositore. Brani come Dr. Jackle, Little Melonae sono divenuti degli autentici standard ripresi da tanti grandi maestri del jazz. McLean ha ricevuto una borsa di studio American Jazz Masters dal National Endowment for the Arts nel 2001 e numerosi altri premi nazionali e internazionali. 

Il contraltista ci ha lasciato il 31 marzo 2006 ad Hartford, nel Connecticut, dopo una lunga malattia. Nel 2006, è stato eletto nella DownBeat Hall of Fame tramite l’International Critics Poll. Per ulteriori approfondimenti sul tema si può consultare lo studio di AB Spellman del 1966, Black Music, Four Lives: Cecil Taylor, Ornette Coleman, Herbie Nichols, Jackie McLean, che include ampie riflessioni di McLean sulla sua giovinezza e carriera fino ad oggi. La biografia integrale di Derek Ansell di McLean, Sugar Free Saxophone descrive invece in dettaglio la storia della sua carriera e fornisce un’analisi completa della sua musica registrata.

Erroll Garner Trio Live – 1964

Abbiamo parlato in diverse occasioni di Erroll Garner e del suo immenso genio musicale e continuiamo volentieri a farlo oggi a distanza di decenni dalla sua morte (se non ricordo male datata 1977) proponendo questo concerto ricavato dall’immenso archivio musicale messo a disposizione della rete.

L’appellativo di genio oggi viene attribuito un po’ troppo facilmente, e spesso poco a proposito, per musicisti poi non così geniali come si vorrebbe sostenere, ma Garner lo è stato davvero un genio e basta ascoltarlo pochi minuti per rendersene conto. Con il suo stile pianistico inconfondibile sapeva rendere originale qualsiasi interpretazione di celebri e abusate canzoni, con una creatività e fantasia in improvvisazione, una scioltezza ritmica e una naturalezza che, tutte insieme, hanno pochi raffronti in tutta la storia del jazz.

Come tutti i veri grandi di questa musica, Garner non è categorizzabile precisamente in qualche area stilistica, pur avendole attraversate tutte o quasi e risulta davvero incomprensibile come in quegli stessi anni ’70 nei quali si è deformato ideologicamente il panorama musicale del jazz fosse considerato da una buona fetta della nostra critica (Arrigo Polillo in testa), poco più che un mero pianista di intrattenimento. Bisogna avere le orecchie foderate di fette di salame per non apprezzare la musicalità innata di questo meraviglioso artista, la cui personalità musicale emerge tutta anche riascoltandolo oggi.

Il concerto è diviso in due filmati separati. Nella prima parte il programma prevede l’esecuzione dei seguenti brani: 1. Just One of Those Things 2. Dreamy, What Is This Thing Called Love 3. Spring Is Here / It Might as Well Be Spring 4. Lover 5. Laura 6. Sonny Boy 7. Erroll’s Theme.

Nella seconda parte vengono eseguiti: 1. Honeysuckle Rose 2. No More Shadows 3. Mambo Erroll 4. Penthouse Serenade 5. Jeannine (I Dream of Lilac Time) 6. On the Street Where You Live / I Could Have Danced All Night 7. All Yours 8. The Lady Is a Tramp 9. Erroll’s Theme

Il trio è composto da: Erroll Garner – piano Eddie Calhoun – bass Kelly Martin – drums. Buon ascolto e buon fine settimana.

Uno standard del jazz venuto dalla Scandinavia

Come è noto, una gran parte degli standard più frequentati dai jazzisti proviene dal Great American Songbook. Più di rado si incontrano canzoni divenute degli standard che provengano da aree culturali e geografiche al di fuori dei confini americani (intendendo estensivamente delle due Americhe). Una di queste è Dear Old Stockholm, un traditional proveniente dall’area scandinava il cui titolo originario in svedese è Ack Värmeland, du sköna che si può tradurre approssimativamente in inglese come “Oh Värmland, you beautiful“. Il titolo fa riferimento con elogio alla storica provincia del Värmland. I testi furono scritti dal Anders Fryxell, proprio originario di quella zona, nel suo musical del 1822 Vermlands-Flickan (The Värmlandian Girl), e poi ampliati da Fredrik August Dahlgren per la sua opera del 1846 Värmlänningarna. La canzone è cantata dal giovane tenore Nicolai Gedda nel film Eldfågeln (The Firebird) del 1952.

La nota capacità assimilatrice di materiali musicali del jazz ha portato diversi grandi jazzisti ad utilizzare il tema per le loro improvvisazioni. Tra i primi a proporlo occorre indicare Stan Getz in una versione del 1951, ossia precedente all’uscita del film e ben prima del suo periodo di residenza danese, che data 1958. Successivamente il tenorsassofonista ha proposto altre versioni del tema, sia a livello discografico che concertistico.

Probabilmente le versioni più note del brano sono quelle di Miles Davis che, come sua abitudine, ha in realtà modificato la struttura del brano rendendolo per certi versi ancora migliore. La prima del 1952, registrata per Blue Note, la seconda col suo primo quintetto per Columbia, nel 1956. Se infatti la versione di Getz del 1951 mostra una struttura quasi classica per una canzone del tipo intro+AABA con A di 8 battute e B di 4, Davis, in quella del 1952, ne ha esteso la struttura, utilizzando più volte l’intro nello sviluppo successivo del tema stesso, con una forma complessiva più articolata e asimmetrica che potrebbe essere indicata come:

intro (4 battute) – A – (intro) – A – (intro) – B – A (ridotta a 6) + coda (7 battute) e uno stop time di 2 battute prima dell’inizio improvvisazione, per un totale di 45 bars (se non ho contato male il tempo, dovrebbe essere così). Prego ascoltare per verifica qui sotto.

La versione del 1956 mostra ancora qualche modifica tenendo come base quella del 1952 ma allungando la sezione B a 10 battute con l”ingresso del basso di Paul Chambers in solo anzichè di Davis. Come ho scritto anche recentemente Davis ri-componeva i brani e la loro forma continuamente, spesso in itinere. Detto per inciso e in un certo senso, Davis nel suo agire (accusato spesso di rubare idee musicali altrui) pare richiamare in qualche modo il pensiero attribuito a Picasso relativamente all’ambito creativo, il quale sosteneva che “i buoni artisti copiano, i grandi artisti rubano“.

Vi sono comunque molte altre versioni da citare oltre a diverse altre di Getz e Davis, tra cui quella dello stesso Paul Chambers, Phil Woods & Gene Quill, Bud Powell, John Lewis, Jutta Hipp, Tommy Flanagan, Donald Byrd, Chet Baker, John Coltrane, Philly Joe Jones, Quincy Jones, Curtis Fuller, Benny Golson, Chet Baker & Stan Getz, Scott Hamilton, Eddie Higgins, Jack Wilkins, Steve Kuhn, Manhattan Jazz Quintet, Terence Blanchard, Harry Allen e Hal Galper. Buon approfondimento di ascolto.

JLCO Septet with Wynton Marsalis: Tiny Desk (Home) Concert

Wynton Marsalis è un musicista e jazzista molto controverso e contestato dalle nostre parti, con qualche ragione, ma spesso a torto e per lo più in modo pretestuoso. Personalmente non l’ho mai amato particolarmente, ma disconoscere la sua importanza e il suo ruolo nel panorama musicale americano degli ultimi quattro decenni significherebbe fare un torto più che a lui a una corretta divulgazione della materia in sé. Wynton ha giocato e gioca ancora oggi più ruoli oltre a quello del puro e semplice musicista, considerando la sua opera non trascurabile anche di organizzazione, divulgazione, insegnamento e talent scout in ambito musicale. Un vero e proprio operatore professionista del settore.

Oggi propongo uno dei tanti concerti effettuati e videoregistrati al Tiny Desk che, in questo caso, lo vedono coinvolto in prima persona col Jazz At Lincoln Center Orchestra Septet. La registrazione è stata effettuata al Dizzy’s Club e propone non il solito richiamo alla tradizione ma della musica composta dallo stesso trombettista. Il concerto inizia con Sloganize, Patronize, Realize, Revolutionize (Black Lives Matters), un’audace dichiarazione sull’umanità e le conseguenze del razzismo. Marsalis afferma che questo pezzo – così come il resto della musica del suo nuovo album, The Democracy! Suite: affronta i problemi umani senza tempo che vediamo esacerbati durante i tempi della pandemia, come le sfide sociali e le questioni di cuore.

Segue Deeper than Dreams“, un pezzo che Marsalis ha scritto per coloro che hanno perso i propri cari durante la pandemia. Marsalis conosce fin troppo bene questo tipo di dolore, poiché ha perso suo padre Ellis a causa delle complicazioni del COVID-19. In chiusura viene eseguito That Dance We Do (That You Love Too), un brano giocoso e funky che ispira un messaggio di speranza. Marsalis scrive da decenni musica sulla democrazia e la richiesta di giustizia. “Spero che la corruzione e il tumulto sociale e politico di questi tempi gettino luce sull’investimento individuale necessario per mantenere una democrazia libertaria“, ha scritto sul suo blog. “Possano gli eventi di questi tempi ispirare tutti noi a impegnarci ancora più profondamente nei diritti e nelle responsabilità che abbiamo come cittadini“.

I musicisti coinvolti nell’esibizione sono i seguenti:

  • Wynton Marsalis: trumpet
  • Ted Nash: saxophone
  • Walter Blanding: saxophone
  • Elliot Mason: trombone
  • Dan Nimmer: piano
  • Carlos Henriquez: bass
  • Obed Calvaire: drums

Buon ascolto e buon fine settimana col settetto di Wynton Marsalis.