Un ricordo di Eddie Costa

Probabilmente il nome di Eddie Costa dirà qualcosa solo ai jazzofili di vecchia data. Eppure è stato uno dei tanti jazzisti scomparsi prematuramente in giovane età – nel suo caso a causa di un incidente stradale – cosa che non ha permesso a molti di raggiungere quella piena maturità artistica relativa al talento fatto intravedere.

Edwin James Costa (14 agosto 1930 – 28 luglio 1962) è stato in effetti un eccellente pianista oltre che vibrafonista, compositore e arrangiatore emerso prepotentemente all’attenzione degli appassionati negli anni ’50. Nel 1957 fu infatti scelto come New Star dalla critica jazz di Down Beat in entrambe le categorie relative al pianoforte e al vibrafono. Fu la prima volta che un jazzista risultò vincitore in due categorie nello stesso anno, facendosi notare per il suo stile pianistico fluido ma anche percussivo, molto concentrato sulle ottave inferiori della tastiera.

Costa ha avuto perciò una breve carriera discografica di otto anni, durante la quale è tuttavia apparso in oltre 100 album, di cui però solo cinque nella veste da leader. Come sideman è apparso in orchestre guidate da Manny Albam, Gil EvansWoody Herman tra gli altri e ha potuto suonare in piccoli gruppi guidati da musicisti affermati come Tal Farlow, Coleman Hawkins e Phil Woods, accompagnando anche cantanti come Tony Bennett e Chris Connor.

Costa era nato ad Atlas, in Pennsylvania. Ha appreso gli studi di pianoforte dal fratello maggiore e da un insegnante di pianoforte locale, arrivando ad assumere un lavoro retribuito come pianista già all’età di 15 anni. Viceversa, l’apprendimento del vibrafono è stato da autodidatta. Nel 1951, si arruolò nell’esercito e solo dopo due anni di servizio ha potuto nuovamente lavorare nell’area di New York, tra cui per le band guidate da Kai Winding, Don Elliott e il  chitarrista Johnny Smith. Solo nel 1954 ebbe modo di fare le sue prime registrazioni, con il chitarrista Sal Salvador, al quale era stato raccomandato dal trombonista Kai Winding. La sua prima registrazione da leader risale al 1956, con un trio completato dal bassista Vinnie Burke e dal batterista Nick Stabulas. Costa era spesso convocato negli studi di registrazione come sideman in questo periodo: apparve in una ventina di album solo tra il 1956 e il 1957. Proprio nel 1957 ricomparve in veste da leader, sia come pianista che come vibrafonista, registrando Eddie Costa Quintet in compagnia di Phil Woods, Art Farmer, Teddy Kotick e Paul Motian

La successiva registrazione da leader, questa volta esclusivamente al vibrafono, fu Guys and Dolls Like Vibes del 1958, registrata con Bill EvansWendell Marshall e Motian. L’album conteneva sei canzoni dello spettacolo Guys and Dolls che era familiare ai più nelle versioni musicali e cinematografiche esibite alcuni anni prima. L’ultima registrazione di Costa come leader fu il notevole The House of Blue Lights, un album in trio per pianoforte con Marshall e Motian, pubblicato nel 1959 e che mostra tutto il suo talento e precisamente il suo stile.

La sua adattabilità  gli ha permesso di suonare in una grande varietà di contesti. Al piano, il suo suono distintivo poneva l’enfasi sulla mano sinistra (con particolare riferimento all’uso di accordi di ottava) in un periodo in cui l’approccio tipico allo strumento nel jazz si concentrava negli assoli per la mano destra, utilizzando la sinistra per lo più come supporto ritmico-armonico. Costa usava entrambe le mani per creare il proprio suono vigoroso.

Al vibrafono il suo stile era invece diverso. In proposito, il critico John S. Wilson ebbe ad affermare: “A differenza delle frequenti incursioni nel registro inferiore al piano, lo stile al vibrafono di Costa è leggero e swingante, più vicino alla maniera di Red Norvo che alla maggior parte dei vibrafonisti della sua generazione.”

Porto qui alcuni esempi ricavati dalla rete relativi all’utilizzo dei due strumenti, segnalando l’ascolto del brano tratto da The House of Blue Lights, particolarmente esplicativo del suo stile pianistico sopra descritto. Per chi non lo conoscesse si rivelerà un ascolto sorprendente anche per arditezza e modernità, considerata ovviamente l’epoca di registrazione.

Paul Bley e l’arte di personalizzare uno standard

Che Paul Bley sia stato uno dei pianisti più influenti dagli anni ’60 sino ai nostri giorni credo non vi siano molti dubbi, oltre che una delle menti più geniali del jazz moderno. Da Keith Jarrett in poi, il pianismo jazz “bianco” (ma non solo quello) gli deve molto, soprattutto riguardo al modo di interpretare il song americano e lo standard, così originale e peculiarmente in bilico tra tonale e atonale, comunque sempre caratterizzato da una spiccata vena melodica in grado di esaltare anche emotivamente le sue geniali improvvisazioni.

Nella sua ricchissima discografia ce ne ha lasciati diversi esempi. Ne evidenzio qui alcuni rintracciati in rete. Buon ascolto.

Kurt Elling e il sogno di Rodgers/Hammerstein II

Il tema onirico è spesso presente e rappresentato in musica, come nel cinema piuttosto che nel teatro. Parrà strano parlare di sogno in musica quando stiamo da molti giorni vivendo un vero e proprio incubo da film di fantascienza, tuttavia potrebbe essere quello di cui abbiamo proprio bisogno.

Kurt Elling è uno dei cantanti più bravi e affermati da tempo presenti sulla scena internazionale del jazz. Lo propongo qui in una bella versione di I Have Dreamed, uno standard non molto battuto ma che gode di notevoli versioni. Consiglio in particolare quella del chitarrista Nels Cline tratta dal suo bellissimo progetto di qualche anno fa intitolato Lovers e di cui propongo qui in aggiunta la versione filmata registrata in studio durante le prove di registrazione.

Buon ascolto.

Lee Morgan, sinonimo di hard bop

Nella ormai lunga storia del jazz ci sono stati musicisti talmente fedeli ad un certo linguaggio e un certo stile da diventarne l’emblema. L’aderenza allo hard bop di Lee Morgan, uno dei più grandi talenti trombettistici di ogni epoca, ne è un chiaro esempio. È pur vero che la sua prematura scomparsa alla giovane età di 34 anni (era del 1938, cioè coetaneo del recentemente scomparso McCoy Tyner) nel 1972 per mano della moglie omicida, lo ha privato di possibili evoluzioni linguistiche negli anni di una maturità mai vissuta, tuttavia egli aveva già potuto attraversare i dinamici anni ’60 caratterizzati dall’ esplosione del movimento Free senza raccoglierne le più comuni istanze. Il che fa supporre che perseguisse una propria precisa estetica non molto incline ad assorbire tali istanze pedissequamente.

Se si passa in rassegna la sua ricca discografia, ci si rende comunque conto che il suo fedele approccio hardboppistico ha manifestato nel tempo una percettibile progressiva maturazione, portandolo a realizzare le sue migliori registrazioni da leader (praticamente tutte o quasi per Blue Note) dagli anni ’60 in poi. D’ altronde la cosa è anche spiegabile tenendo conto di come avesse avuto modo di incidere il suo primo disco da leader nel 1956 (Indeed!, Blue Note), quando era ancora diciottenne, evolvendo poi con l’età e l’esperienza progressivamente maturata nei successivi anni. Tra i molti titoli che si potrebbero citare propongo qui una traccia presa dallo splendido The Gigolo, registrato nel giugno 1965 in compagnia di una band eccelsa composta da uno Wayne Shorter in spolvero e una grande ritmica fatta da Harold Mabern, Bob Cranshaw e Billy Higgins. In aggiunta ho piazzato un filmato che vede il nostro in piena azione in diverse situazioni. Buon ascolto.

John Eaton e la grande divulgazione della musica popolare americana

John Eaton (nato il 29 maggio 1934 a Washington, DC ) è da noi poco noto, ma si tratta di un musicista, storico, educatore tra i più prestigiosi conoscitori e interpreti della musica popolare americana, jazz compreso. Eaton si è laureato alla Yale University nel 1956, dove è stato membro della società letteraria St. Anthony Hall. Nominato nel ruolo di Steinway Concert Artist nel 1988, Eaton si è esibito spesso nella East Room della Casa Bianca (si vocifera fosse persino coinvolto nei servizi segreti americani), come solista e con artisti come Zoot Sims, Benny Carter, Clark Terry e Wild Bill Davison. È stato spesso in evidenza al Kool Jazz Festival e allo Smithsonian Institution Performing Arts Jazz series, trasmesso a livello nazionale su National Public Radio e Radio Smithsonian.

Definito da Nat Hentoff come “il pianista completo … il maestro di quasi l’intero spettro della musica jazz”, Eaton è noto per un progetto pubblicato nella serie CD “John Eaton Presents the American Popular Song” in collaborazione con la Wolf Trap Foundation for the Performing Arts, il partner operativo del Wolf Trap National Park for the Performing Arts, comprendente tredici diversi programmi, registrati in concerto e conversazione con il bassista jazz Jay Leonhart. Ogni programma si concentra su grandi artisti, compositori o collaboratori nella musica americana, tra cui Richard RodgersHarold Arlen, George GershwinJerome Kern , Cole Porter , Julie Styne, Irving Berlin, Kurt Weill e Vernon Duke, Hoagy Carmichael e Fats WallerDuke Ellington, Harry Warren, Jimmy Van HeusenFrank LoesserThe Beatles e Bob Dylan.

Eaton è uno straordinario pianista, considerato uno dei principali interpreti della musica americana, egli offre una combinazione unica e affascinante di jazz raffinato e relativa narrazione. Pianista, cantante, musicologo e umorista, John Eaton è uno dei veri tesori musicali d’America. Per dodici anni ha tenuto più di 200 conferenze / concerti per la Smithsonian Institution sulla canzone popolare americana, sia a Washington, DC che in tutto il paese. La serie è stata trasmessa a livello nazionale su National Public Radio e Radio Smithsonian. L’intuizione acuta di Eaton, l’immacolata musicalità e lo straordinario talento pianistico continuano a guadagnargli i più alti riconoscimenti da critici musicali, ascoltatori e colleghi musicisti. Qui propongo un paio di filmati esplicativi rintracciati in rete. 

L’etnomusicologia di Russell Gunn

Russell Gunn, classe. 1971, è un trombettista afro-americano cresciuto a East St. Louis, nell’Illinois e attivo sulla scena contemporanea della musica improvvisata sin dagli anni ’90, quando fu scoperto nel 1993 da Oliver Lake. Gunn è un approfondito conoscitore della grande tradizione trombettistica del jazz moderno (tra le sue influenze si riscontrano quelle della linea che congiunge Miles Davis, Clifford Brown, Donald Byrd, Lee Morgan, Blue Mitchell, Freddie Hubbard e Booker Little, sino ad arrivare a Wynton Marsalis), cercando di aggiornarla proponendo una mescolanza di musiche e ritmi provenienti da diverse aree culturali, introducendo nel suo jazz elementi africani, cubani e brasiliani, oltre a quelli propri africani-americani legati a generi musicali di sua frequentazione sin dall’adolescenza quali hip hop e funk. In questo senso, nella sua discografia spiccano quattro interessanti volumi intitolati Ethnomusicology che tendono, non a caso, a sviluppare questo tema.

Siamo in un ambito mediamente poco apprezzato tra i cosiddetti “puristi” del jazz nostrani, ma, d’altro canto, anche dai propugnatori di un jazz europeo sempre più “de-afroamericanizzato”, per così dire. Tuttavia, la tendenza proposta da Gunn è molto diffusa (per non dire maggioritaria) nelle proposte dei jazzisti afro-americani odierni, che quindi non può essere in alcun modo derubricata, o peggio esclusa, dalla analisi critica della scena musicale contemporanea.

Propongo qui qualche esempio della musica del trombettista rintracciato in rete. Buon ascolto.

Joshua Redman & WDR Big Band live at Moers Jazz Festival, 2019

Joshua Redman è senza dubbio uno dei sassofonisti leader attivi sulla scena jazzistica contemporanea, una riuscita sintesi odierna in forma aggiornata e personale della grande tradizione sassofonistica africana-americana. Lo propongo per il fine settimana in questo filmato che lo vede impegnato in un notevole e avanzato progetto orchestrale realizzato con la WDR big band su composizioni e arrangiamenti di Vince Mendoza. Ascoltate, ne vale la pena.

La batteria senza limiti di Max Roach

Scrivere di musica stando sereni diventa ogni giorno sempre più difficile. La situazione qui nella bergamasca è pesantissima e il rischio di ammalarsi ormai bussa alla porta di casa. Il paese in cui abito sta esattamente in mezzo tra Bergamo città e i paesi focolaio di Alzano Lombardo e Nembro, cioè all’imbocco della Val Seriana. Solo qui da inizio mese abbiamo avuto quasi quintuplicato il numero di decessi che si hanno normalmente in un mese. Numeri terribili.

Comunque, cerchiamo di fare il possibile per mantenere attivo il blog, anche solo per distrarsi.

Oggi proponiamo un brano capolavoro tratto da un disco straordinario inciso dal quintetto di Max Roach a metà anni ’60 e intitolato Drums Unlimited. Si tratta di Nommo, composto da Jymie Merrit, il contrabbassista del gruppo. La traccia, un po’ come tutto il disco, focalizza la propria costruzione e il proprio sviluppo sui tempi complessi e la relativa alternanza con quelli più semplici e usuali nel jazz come il 4/4 e il 3/4. Nel caso specifico il tema è incentrato sul 7/4 e i solisti operano una sorta di in&out ritmico intorno a quel tempo, proponendo un approccio molto libero e spregiudicato dal punto di vista ritmico, mantenendo il resto delle strutture musicali entro i canoni classici dello hard bop dell’epoca. Un modo estremamente intelligente di interpretare l’idea di libertà in musica così presente e frequentata al tempo in maniera più radicale ma talvolta anche più velleitaria. Senza dubbio un capolavoro. Buon ascolto.

Approfondiamo That Old Feeling

That Old Feeling è una canzone popolare scritta da Sammy Fain, con testi di Lew Brown pubblicata nel 1937 e avente per tema la nostalgia. La canzone fa parte di una commedia musicale dell’agosto di quell’anno, ma apparsa per la prima volta nel film Walter Wanger’s Vogues del 1938 e cantata lì da Virginia Verrill, ricevendo la nomination per l’ Oscar.

La canzone fu immediatamente un successo in una versione registrata da Shep Fields e His Rippling Rhythm Orchestra. Una versione fu anche registrata dal violinista e popolarissimo band leader Jan Garber. Nel 1952, la canzone fu inclusa nel film di Susan Hayward, With a Song in My Heart, dove Jane Froman lo cantò in un doppiaggio. Patti Page, così come Frankie Laine &Buck Clayton, hanno avuto versioni di successo della canzone nel 1955. Frank Sinatra ne fece a sua volta un successo nel 1960 dall’album Nice ‘n’ Easy. Il titolo della canzone è stato utilizzato in un film nel 1997, interpretato da Bette Midler e Dennis Farina, contenente in colonna sonora la versione di Louis Armstrong & Oscar Peterson.

Nonostante le critiche di Alec Wilder, riportate nel suo libro American Popular Song: The Great Innovators, 1900-1950 la canzone è rimasta piuttosto popolare nel corso degli anni e ha goduto anche di moltissime eccellenti versioni jazzistiche dei più svariati interpreti. I sassofonisti Zoot Sims, Al Cohn e Bud Shank l’hanno proposta in loro album. Dave Brubeck ne ha data una splendida versione in piano solo in One Alone (Telarc – 2000). Diana Krall la registrò nel 1997. Dal 2000 la canzone è apparsa su CD in lavori del batterista Roy Haynes, del trombonista Bill Watrous col sassofonista Pete Cristlieb.

Altre versioni di noti jazzisti sono state prodotte da:

George Adams

Teddy Wilson

Jimmy Rowles

Chet Baker

Pee Wee Russell

Count Basie

Woody Herman

Harry James

Artie Shaw

Stan Kenton

Art Tatum

Fats Waller (Adelaide Hall)

Claude Thornhill

Art Blakey and the Jazz Messengers

Chick Corea

Erroll Garner

Stan Getz & Gerry Mulligan

Gerry Mulligan

Buddy DeFranco

Tra quelle cantate:

Billy Eckstine

Ella Fitzgerald

Judy Garland

Dorothy Dandridge

Doris Day

Peggy Lee

Julie London

Anita O’Day

Chris Connor

Les Paul and Mary Ford

The Platters

Della Reese

Maxine Sullivan

Mel Tormé

Dinah Washington

Andy Williams

Rod Stewart

Bob Dylan (da Triplicate, 2017)

La preferita a livello personale è quella sopra citata di Dave Brubeck ma che non sono riuscito a rintracciare in rete. In ogni caso anche quella di Garner che propongo è, come suo solito, personalissima e merita l’ascolto, alla quale ho aggiunto una versione ben cantata da Anita O’Day. Buon approfondimento di ascolto.

Un grande parkeriano ben oltre Parker

Giusto questo mese si celebra il sessantacinquesimo anno dalla morte di Charlie Parker, uno dei più grandi geni che il jazz abbia prodotto nella sua storia. Proprio qualche giorno fa ho potuto apprezzare un post su Facebook di Enrico Rava che, approfittando del periodo di clausura collettiva, aveva messo in luce in un capolavoro come Quintessence di Quincy Jones, la prestazione straordinaria di Phil Woods, dicendone, giustamente, mirabilie. Detto per inciso e sinceramente, ritengo che se Rava negli ultimi anni si fosse dedicato più alla sua estemporanea attività di direttore artistico (a Bergamo Jazz per quel che mi riguarda si è dimostrato il più intelligente e aperto dei recenti direttori artistici proposti) o addirittura si fosse proposto nella veste di critico musicale piuttosto che come trombettista ormai poco proponibile dal punto di vista strumentale (trombettisti più grandi e ferrati di lui e in età meno avanzata, come Davis o Gillespie, mostrarono negli ultimi anni della loro vita un inevitabile declino tecnico) non avrebbe certo sfigurato, tutt’altro.

Sta di fatto che considerare Phil Woods solo come uno dei tanti discepoli di Parker è a nostro avviso fargli un torto, perché in realtà il sassofonista, pur rifacendosi a piene mani alla lezione parkeriana, ha saputo abbastanza rapidamente crearsi una voce personale, direi inconfondibile, oltre a saper aggiornare negli anni il linguaggio improvvisativo di Bird alle nuove istanze che nel jazz sono man mano comparse, dimostrando di essere un musicista sensibile e attento alla sua contemporaneità. In Italia ha purtroppo spesso ricevuto ingiuste (e ingiustificate) critiche, sostanzialmente legate sempre al solito abusato pregiudizio utilizzato verso tutti quei musicisti che non hanno ritenuto di collocarsi più o meno integralmente nell’ambito, spesso da noi politicizzato a sproposito, del Free Jazz e della cosiddetta “musica creativa” post free. Un po’ come pretendere di imporre a un paesaggista o ad un artista figurativo di diventare un astrattista. Riteniamo che ciascun artista debba mantenere la libertà di esprimersi al meglio nel linguaggio in cui crede senza imposizioni esterne, men che meno di genere ideologico come si è spesso fatto in ambito critico, altrimenti rischia di non essere sincero, che poi è condizione essenziale nell’arte, comunicandolo poi inevitabilmente a chi ne fruisce. Quindi il contraltista (e clarinettista) di Springfield può essere considerato un jazzista che è sempre rimasto fedele al cosiddetto mainstream jazzistico. Tuttavia, occorre intendersi bene sul termine, poiché è semplicemente erroneo considerarlo come qualcosa di statico nel tempo, di “classico”, come usualmente viene inteso.

Nel corso dell’evoluzione del linguaggio jazzistico il cosiddetto mainstream ha sempre manifestato la capacità di integrare le innovazioni e di metabolizzare le sperimentazioni che man mano comparivano nel corso dei decenni. Certo non integralmente, sapendo in un certo senso selezionare gli “innesti” utili, per così dire, ampliando progressivamente le proprie possibilità linguistiche ed espressive. All’opposto, mantenere un atteggiamento di accettazione esclusiva ad un solo tipo di linguaggio (semplificando al massimo con un esempio: chi suona free è eternamente avanzato, chi non lo fa è obsoleto) in realtà crea inconsapevolmente le condizioni dell’invecchiamento dello stesso linguaggio che ritiene essere avanzato, in quanto rivela un approccio statico ad una materia che per sua stessa natura manifesta una evoluzione dinamica e inarrestabile nel tempo. In questo senso, tanto per tradurre e semplificare il ragionamento nella pratica, oggi chi suona Free fa del revival esattamente come chi suonava o suona Dixieland o be-bop puro. Non si colgono particolari differenze sul piano metodologico.

Ecco allora che sotto questa luce, anche la sostanziale appartenenza al suddetto mainstream di Phil Woods per tutto l’arco della sua carriera artistica, non può essere considerato statico e “classico” (al massimo possiamo considerarlo oggi ascoltando i suoi dischi, in quanto Il contraltista non essendo più in vita non può aggiornare, ovviamente, il suo linguaggio alle istanze più recenti). Il suo progetto di fine anni ’60 con la European Rhythm Machine è ad esempio lì a dimostrarlo. Quel gruppo, oltre ad essere stato tra le migliori espressioni del jazz di fine anni ’60, ha avuto il merito di saper “miscelare” sapientemente le sensibilità artistiche americane e europee, contribuendo ad espandere l’utilizzo del linguaggio jazzistico anche a livello europeo, in una modalità di interscambio assai più interessante di quella che tendenzialmente si è manifestata in Europa negli ultimi decenni, nella quale si è generata una progressiva e impropria contrapposizione tra un cosiddetto “jazz europeo” rispetto a quello americano. Una sorta di sovranismo jazzistico che ci pare sul piano della prassi esattamente l’opposto della natura stessa che il jazz ha sempre manifestato nel corso della sua evoluzione storica.

Concludendo, per quel che ci riguarda Phil Woods è stato tra i più grandi improvvisatori bianchi della storia del jazz, collocabile a livello contraltistico assieme a Paul Desmond, Art Pepper e Lee Konitz. Propongo a corredo una strepitosa versione di Stolen Moments di Oliver Nelson (altro grandissimo oggi vergognosamente dimenticato) registrata proprio con la European Rhythm Machine. Buon ascolto.

Il mattino ha l’oro in bocca

David Murray, classe 1955, non è certo un jazzista di primo pelo e nemmeno è mai stato tra i miei sassofonisti preferiti, ma ha ben rappresentato nei decenni precedenti un certo tipo di approccio afro-americano allo strumento legato alla tradizione pre-coltraniana nel tramite di figure di riferimento della sua generazione di sassofonisti quali Albert Ayler Archie Shepp. La sua discografia opulenta forse non lo ha aiutato a produrre sintesi musicali di livello assoluto anche se in molti suoi lavori sono rintracciabili cose notevoli seppur in modalità discontinua. I suoi dischi registrati per esempio per la Black Saint con l’ottetto (Home) sono pregevoli e diverse sono le composizioni di rilievo. Tra queste oggi propongo Morning Song, una canzone dallo spirito comunicativo estroverso e vitale molto prossimo all’umore che si può manifestare al mattino appena svegli. Mai come ora ne abbiamo bisogno.

Per non dimenticar…


Nel clima cupo e angosciato che viviamo in questi giorni, occorre forse utilizzare la musica per rasserenare gli animi. Chi meglio di Louis Armstrong e della sua gioiosa e vitale musica può servire allo scopo. Peraltro il brano che sto per proporvi è uno dei suoi massimi capolavori registrato con i leggendari Hot Five. Si tratta di  Once in a While, qui proposto anche in versioni revivalistiche in un paio di filmati rintracciati in rete. Buon ascolto

Silence…

Per quanto mi sforzi, non mi viene niente di buono da scrivere e allora meglio rimanere sulla musica e nella musica, specie quando essa sa riprodurre al meglio i sentimenti che in questo momento proviamo.

Charlie Haden era noto per essere una persona molto particolare, piuttosto cupa e introversa, ma con la sua musica e il suo contrabbasso sapeva spesso comunicare benissimo certi laceranti stati d’animo come la desolazione, la tristezza e l’angoscia, che molto si confanno al periodo che stiamo vivendo. Silence è in questo senso forse una delle sue composizioni più significative e che è stata incisa in diverse occasioni discografiche. La propongo qui nella versione incisa con Chet Baker alla tromba e Enrico Pieranunzi al pianoforte. Buon ascolto

La ciclicità nelle composizioni di Wayne Shorter

Il sito in questi giorni molto difficili funzionerà a scarto ridotto, non perché non vi sia il tempo per scrivere, tutt’altro, ma perché non c’è la testa e soprattutto la voglia per farlo. Lascerò quindi più spazio alla musica che alle parole, ridotte allo stretto necessario.

Oggi accenniamo a una peculiarità di certe composizioni di Wayne Shorter, ossia la tendenza del sassofonista per una concezione ciclica, per così dire, osservabile in alcuni temi del grande sassofonista divenuti celebri come Nefertiti e Pinocchio, incisi col Miles Davis Quintet, piuttosto che Palladium con i Weather Report, o a The Three Marias. In questo genere di temi, Shorter pare focalizzarsi più che sulla improvvisazione, prassi tipica nel jazz ma qui limitata al massimo, sulla struttura del tema e l’articolazione della linea melodica, modificata progressivamente con piccoli abbellimenti, traslazioni di tonalità, spostamento degli accenti ritmici e “stiramento”, per così’ dire, delle note, tipicamente in allungamento progressivo all’interno della ciclicità pensata e voluta. Il concetto di improvvisazione si concentra allora non tanto sulla classica struttura accordale e scalare dei temi, ma sulla mutazione minima e progressiva del tema ad ogni ripetizione del ciclo. Peraltro, occorrerebbe osservare che questa attenzione verso la ciclicità e la ripetizione è riscontrabile storicamente nella cultura musicale degli afro-americani (derivata probabilmente dalla peculiarità della danza africana) sin dalle sue radici e manifestata in molteplici forme: si pensi anche solo alla ritualità del gospel, alla forma blues e alla forma chorus derivata dal song, alle variazioni microtonali di un Roscoe Mitchell (in brani come Nonaah), sino alle evoluzioni più recenti rintracciabili nel funk e nell’ hip-hop. Insomma, certe cose notabili nelle mille sfaccettature della musica improvvisata e del jazz (ma non solo) di provenienza o derivazione afro-americana rivelano una loro logica e coerenza culturale e storica che spesso sembrano sfuggire.