Ted Rosenthal: The King and I (Venus, 2006)

The King and I è un musical di gran successo che debuttò a Broadway nella primavera del 1951 contenente musiche di Richard Rodgers e libretto di Oscar Hammerstein II. Canzoni come I Have Dreamed, Hello, Young Lovers e We Kiss in a Shadow sono divenute degli standard jazz discretamente battuti da diversi jazzisti, ma la registrazione che ci ha proposto Ted Rosenthal del 2006 è una delle poche – inteso dall’ovvio periodo di massimo interesse negli anni ’50 – a concentrarsi esclusivamente su questa meravigliosa musica. Il risultato è questo progetto discografico sul piano musicale davvero elegante e pienamente godibile, capace di mettere nel giusto risalto la bellezza intrinseca delle canzoni contenute nella colonna sonora.

Per chi non lo conoscesse bene, Ted Rosenthal è uno dei principali pianisti jazz della sua generazione. Leader di un proprio trio e solista di tutto rispetto, si è fatto notare agli esordi nel gruppo di Gerry Mulligan dei primi anni ’90 esibendosi con molti altri grandi del jazz, tra cui Art Farmer, Phil Woods, Bob Brookmeyer, James Moody e Jon Faddis. Il pianista è qui ben accompagnato dal contrabbassista George Mraz e dal batterista Lewis Nash, musicisti collaudati e di gran livello in grado di affrontare questi classici senza età in modo fresco e creativo, donando loro nuova vita.

Sin dall’apertura si capisce di essere di fronte a della musica coinvolgente con la versione solenne di My Lord and Master, poi l’atmosfera cambia rapidamente con il swingante Shall We Dance?. I Whistle a Happy Tune ha un’aria stravagante e bluesizzata, mentre la versione di We Kiss in a Shadow si fa apprezzare per il suo raffinato e sognante arrangiamento (ben diversa da quella scarna e depurata dal romanticismo che ricordavamo di Sonny Rollins), così come si può dire di Something Wonderful. Rosenthal riesce a tirar fuori il massimo anche da una marcetta da banda come March of the Siamese Children, chiudendo il set con il brano in più puro stile Richard Rodgers, ovvero Hello, Young Lovers. Disco da avere per chi ama la formula del trio jazz di pianoforte.

Riccardo Facchi

Jimmy Giuffre Trio live in Rome (1959)

Jimmy Giuffre, oltre ad essere uno dei miei jazzisti preferiti, è stato uno dei più importanti innovatori del jazz moderno in grado di percorrerne diverse fasi da protagonista. Noto inizialmente come arrangiatore per la big band di Woody Herman, per la quale scrisse il celeberrimo Four Brothers nel 1947, divenne nei primi anni ’50 una figura centrale nel jazz della West Coast insieme a Shorty Rogers e Shelly Manne, sviluppando già allora il suo concetto di “ritmo implicito”, poi esaltato nei suoi dischi in trio privi di batteria e incisi per Atlantic e Verve nella seconda metà degli anni ’50, dimostrando come si potesse creare lo swing senza la presenza obbligata del piano e, a maggior ragione, della batteria. Questo trio ha esplorato quello che lo stesso Giuffre ha definito come “folk jazz basato sul blues”. D’altronde, Giuffre era del Texas, luogo nel quale il folk western americano era immerso nella tradizione blues afro-americana, mescolandosi in modo del tutto naturale.

Dagli anni ’60, avrebbe poi condotto un trio con Paul Bley e Steve Swallow dedito alla libera improvvisazione e a una concezione di “jazz da camera” che avrebbe fatto da riferimento e ispirazione a tante formazioni successive del genere, sia americane che europee. Dal punto di vista strumentale, Giuffre era un originalissimo clarinettista (simile nella sonorità a Pee Wee Russell) e un eccellente tenorsassofonista, rimanendo di base sempre un grande arrangiatore per formazioni più ampie.

La proposta musicale per questo fine settimana è proprio dedicata a lui, avendo scovato in rete un altro filmato storico tratto dalla vecchia trasmissione Rai Schegge, che lo vedeva esibirsi al Teatro Adriano in Roma, il 19 giugno del 1959 col suo trio dell’epoca e presentato niente meno che dal celebre impresario e produttore discografico americano Norman Granz.

Il trio nell’occasione era composto da: Jimmy Giuffre (cl, ts) Jim Hall (g) Buddy Clark (b), mentre i brani suonati e ripresi in filmato erano due: Two Degrees East, Three Degrees West, il blues di John Lewis e il suo immancabile Four Brothers. Buon ascolto e buon fine settimana col trio di Jimmy Giuffre.

Darcy James Argue’s Secret Society: Dynamic Maximum Tension (Nonesuch, 2023)

Il quarantottenne canadese Darcy James Argue è considerato uno dei compositori per big band più interessanti e innovativi della scena jazz odierna, capace di proiettare nel ventunesimo secolo l’arte, ormai divenuta rara, per non dire quasi anacronistica, della composizione jazz per orchestra.

Argue ha studiato alla McGill University di Montreal dal 1993 al 1998 e nel 2000 si è trasferito negli Stati Uniti per studiare composizione al New England Conservatory of Music col grande compositore, trombonista e big band leader Bob Brookmeyer, purtroppo mancato nel 2011. Dal 2003 si è poi trasferito a Brooklyn, area attualmente tra le più vive musicalmente parlando di New York. Nel 2005 ha fondato la Darcy James Argue’s Secret Society, una big band di 18 elementi con la quale nel 2009 ha pubblicato il suo primo album in studio, intitolato Infernal Machines. Questo Dynamic Maximum Tension, pubblicato da poco quest’anno, è il suo quarto progetto discografico con la Secret Society e ci riserva di apprezzare un compositore che dimostra di aver raggiunto un ulteriore, consistente, passo avanti verso la propria completa maturazione artistica.

L’album (in doppio CD) prende il nome dalle tre parole che l’architetto inventore futurista R. Buckminster Fuller ha unito per formare il suo marchio personale: Dymaxion – un termine che riflette il desiderio dell’inventore di ottenere il massimo vantaggio dalla maggior parte dei suoi materiali, la visione utopica dei suoi progetti e la sua ricerca per migliorare il modello della vita quotidiana. Nel comporre la musica per questa registrazione Argue ha trovato ispirazione nella suddetta visione di Fuller come uno dei primi fautori dell’energia rinnovabile del vento e delle onde, e nei suoi design futuristici ispirati alla geometria del mondo naturale. Perciò, la musica prodotta espone oltre agli ovvi scopi musicali anche motivazioni sociopolitiche proiettate nel nostro futuro.

Dal punto di vista strettamente musicale, Argue traduce – come giustamente recensito da Pitchfork – parte di questa ispirazione nella “capacità di combinare il suo amore per il jazz del passato con sonorità più contemporanee. Perciò molte delle tracce contenute in questo progetto discografico rivisitano con tale intento le idee del jazz orchestrale del passato, in una sorta di viaggio a ritroso nella storia delle big band jazz, prendendo ispirazione da diverse grandi figure che hanno contribuito a dar corpo a quello specifico settore della musica composta e improvvisata.

Nell’impostazione generale nella scrittura dell’autore si rileva l’impronta del già citato Bob Brookmeyer e nella timbrica dell’arrangiamento anche di Gil Evans, via Maria Schneider (entrambi suoi docenti nel periodo di studi). Un brano profondo come Your Enemies Are Asleep in questo senso è esplicito, per quanto Argue ci pare riuscire a sviluppare e variare più compiutamente i temi senza certe dispersioni ed evanescenze proprie delle composizioni della Schneider. Ispirazioni specifiche relative a Duke Ellington sono individuabili nel lungo ed elaborato Tensile Curves, risposta contemporanea agli avanzatissimi (per l’epoca si intende, ossia nel 1937) concetti musicali esposti dal Duca in Diminuendo and Crescendo in Blue (brano non a caso analizzato a fondo da Argue), come percepibili sono le armonie a la Billy Strayhorn nel conclusivo Mae West: Advice, con la presenza della voce di Cécile McLorin Salvant. L’arioso 3/4 Last Waltz for Levon potrebbe essere stato concepito per la Vanguard Orchestra di Mel Lewis o in quella di un Gerald Wilson, o di Bob Florence, così come lo stesso discorso può valere per il dinamico e ritmato Single-Cell Jitterbug, dove l’ispirazione prende spunto a ritroso persino da Cab Calloway e la sua orchestra.

Gli omaggi extramusicali a figure visionarie del presente o del passato sono poi completati con Alan Turing – il genio pionieristico dell’informatica celebrato anche nel film Imitation Game – a cui è dedicato Codebreaker, dove pare far capolino anche l’approccio più teorico e cerebrale alla composizione di un George Russell. In ogni caso, tutto il progetto ci pare indistintamente di gran livello e valore in grado di ravvivare l’interesse per il jazz orchestrale anche in questo ventunesimo secolo. Lavoro dunque prezioso e da non perdere.

Riccardo Facchi

Carla Bley Band – Umbria Jazz ’78

Vista la recentissima scomparsa di Carla Bley, ho pensato di proporre oggi uno storico filmato registrato nell’ambito di Umbria Jazz, edizione 1978 quando ancora la tv generalista della Rai proponeva programmi musicali dedicati al Jazz, oggi, di rado e quando va bene, relegati nel canale di Rai 5. Ho avuto l’occasione di ascoltarla dal vivo solo un paio di volte e relativamente di recente negli anni Duemila, con la sua big band a un festival lombardo, di cui oggi non ho precisa memoria del luogo, e in una formazione ridotta al Teatro Manzoni di Milano nell’ambito di Aperitivo in Concerto di circa vent’anni fa. Mi rimase molto impresso il concerto in big band, davvero eccellente. Purtroppo non ho avuto la fortuna di mio fratello Edoardo che più o meno all’epoca di questo concerto vide la Bley in uno straordinario concerto al mitico Teatro Ciak di Milano in zona Lambrate (dove propose la musica di Nino Rota) quando Milano era una sorta di capitale europea del jazz che vedeva passare in rassegna quasi tutto il meglio dei jazzisti in attività, un po’ come era all’epoca Umbria Jazz. Oggi purtroppo per entrambi i luoghi è un’altra musica, verrebbe da dire.

Carla Bley Band – Castiglione del Lago 29 luglio 1978. Set dei brani suonati: Song Sung Long, Ida Lupino Wrong Key Donkey.

Formazione: Carla Bley dir, piano, keyboards, Michael Mantler – trumpet, George Lewis – trombone, Bob Stewart – tuba, Gary Windo – tenor sax, Alan Braufman – alto sax, John Clark – French horn, Patty Priess. bass, Robert Sheff “Blue Gene Tyranny” – piano, keyboards, D Sharpe – drums. Buon ascolto e buon fine settimana.

La storia di A Night in Tunisia

Durante la seconda guerra mondiale, l’esercito americano combatté l’esercito tedesco in Nord Africa, in particolare sul suolo tunisino. Diverse migliaia di soldati americani morirono lì, i loro resti ora riposano nel cimitero americano di Cartagine. La Seconda Guerra Mondiale rappresentò un momento cruciale per il popolo afro-americano. I neri hanno combattuto al fianco dei bianchi e sono stati accolti come eroi dalle popolazioni liberate, ma negli Stati Uniti erano ancora soggetti alla segregazione e non ricevettero gli stessi onori alla fine della guerra. Quindi, gli anni che seguirono furono anni di proteste e insurrezioni che portarono tra anni ’50 e ’60 al movimento per i diritti civili.

Prendendo ispirazione dai ritmi afro-cubani, di chiara radice africana, Dizzy Gillespie scrisse nel 1942 un tema – noto oggi come A Night in Tunisia – che evoca in qualche modo quel periodo storico e quei luoghi; un tema che poi divenne uno degli standard più battuti dai musicisti e improvvisatori del jazz moderno. In quel periodo Gillespie era membro della orchestra di Earl Hines insieme a Charlie Parker e il linguaggio be-bop era ancora in gestazione. Anche se Frank Paparelli appare ufficialmente nei crediti per la composizione, Gillespie sostenne che il suo contributo fu unicamente quello della trascrizione del pezzo.

Secondo l’autobiografia To Be or Not to Bop: Memoirs of Dizzy Gillespie, il trombettista era seduto al pianoforte e suonava progressioni di accordi quando notò che le note degli accordi formavano una melodia con un umore particolare: “Mi sono seduto al pianoforte, ho suonato alcuni accordi e, a poco a poco, individuando le note, mi sono reso conto che formavano una melodia a cui mancavano solo un ponte e un supporto ritmico“. Aggiunto il ponte (il brano è di classica struttura AABA con coda finale) e un ritmo afro-cubano, la sua griglia armonica e la sua melodia evocavano qualcosa di orientale o appunto di tunisino. Quando suonato, questo mix introduceva un tipo speciale di sincope nella linea di basso, un pionieristico passo in avanti nel jazz rispetto al tradizionale basso regolare in quattro. 

Poco dopo, Gillespie e Parker insieme ai cantanti Sarah Vaughan e Billy Eckstine lasciarono Hines per formare quella che divenne nota come la prima big band be-bop sotto la leadership di Eckstine. Una prima versione live del brano da parte di Gillespie registrata all’Onyx Club risale al gennaio 1944, nell’ambito di un quintetto intitolato anche a Oscar Pettiford completato da Budd Johnson al sax tenore, George Wallington al piano e Max Roach alla batteria. La prima versione incisa in studio fu registrata da Sarah Vaughan, con Charlie Parker e Dizzy Gillespie come sideman, il 31 dicembre 1944 per l’etichetta Continental. Fu introdotta col titolo Interlude prima di essere ribattezzata come Night in Tunisia. Gillespie stesso chiamava così la canzone, anche se poi venne quasi sempre indicata come A Night in Tunisia.

Boyd Reaburn, con la sua orchestra e la presenza di Gillespie, ne diede una versione con lo stesso titolo nel gennaio del 1945. La formazione comprendeva: Tommy Allison, Dizzy Gillespie, Stan Fishelson, Benny Harris (tp) Walter Robertson (tp,tb) Jack Carmen, Ollie Wilson, Trummy Young (tb) Johnny Bothwell, Hal McKusik (as) Al Cohn, Joe Megro (ts) Serge Chaloff (bs) Ike Carpenter (p) Steve Jordan (g) Oscar Pettiford (b) Shelly Manne(ds).

Gillespie incise la propria versione in studio nel febbraio 1946 con un sestetto composto da Al Haig, pianoforte; Milt Jackson, vibrafono; Don Byas, sax tenore; Bill de Arango, chitarra; Ray Brown, contrabbasso; JC Heard, batteria. Nel gennaio 2004, Il brano in questa versione è stato introdotto nella Grammy Hall of Fame.

A fine marzo di quello stesso anno Charlie Parker produsse in California per la Dial quella che è per gli appassionati la versione più famosa del brano, contenente quel folgorante alto break che è entrato indelebilmente nella storia del jazz. La formazione della sua band comprendeva: Miles Davis – tromba, Lucky Thompson – sax tenore, Dodo Marmarosa – piano, Arvin Garrison – chitarra, Vic McMillan – contrabbasso e Roy Porter – batteria.

Nell’ottobre del 1946 Lennie Tristano ne incise diverse versioni (ben sei takes) in trio ma ancora col titolo Interlude, assiema a Billy Bauer alla chitarra e Clyde Lombardi al contrabbasso.

Le versioni successive sono innumerevoli alcune degli autentici capolavori personali. Vanno almeno citate quella pianistica di Bud Powell del 1951 e quelle live al Village Vanguard di Sonny Rollins del 1957.

Riguardo al testo, sebbene Jon Hendricks avesse originariamente scritto il testo per la melodia nel 1942, circa quarant’anni dopo avrebbe rivisitato la canzone. Utilizzando sia i testi che la voce è stato in grado di riprodurre il suono e l’atmosfera della strumentazione originale nella versione parkeriana dando vita a una versione in vocalese della canzone, reintitolata “Another Night in Tunisia” interpretata dai Manhattan Transfer con la partecipazione di Bobby McFerrin e dello stesso John Hendricks. La versione ha vinto un Grammy Award per i “Migliori arrangiamenti vocali per voci”. 

Gary Burton- Julian Lage duo: NPR Music Tiny Desk Concert (2013)

Il ritiro dalle scene di Gary Burton oggi ottantenne, data ormai 2017, ma ciò non toglie a noi la possibilità di usufruire di tanta bella musica prodotta precedentemente da uno dei protagonisti assoluti dell’evoluzione del vibrafono nel jazz moderno sino alla nostra contemporaneità.

Nel 1963, il pianista George Shearing, di cui abbiamo scritto recentemente su queste colonne, realizzò un album insolito per lui. Chiese al suo nuovo vibrafonista ventenne di scrivere un album di composizioni contrappuntistiche ispirate alla musica classica e le registrò con un quintetto di fiati supportati da una sezione ritmica. L’album è ormai fuori catalogo, ma Out of the Woods ricevette buone recensioni e rimane un punto di forza della carriera del suo giovane architetto, Gary Burton.

Il concerto al Tiny Desk che stiamo per proporvi data 2013, cioè giusto 10 anni fa, quando Gary Burton aveva 70 anni. Burton è un musicista sopraffino che ha suonato con Stan Getz e a lungo con Chick Corea, è stato uno dei primi a contaminare il jazz con il rock, il country e altre musiche folk americane ed è diventato preside del Berklee College of Music. Qui lo ammiriamo in duo in compagnia del chitarrista Julian Lage, una delle tante sue scoperte in carriera, che ha partecipato ai progetti discografici del vibrfonista nell’ultimo decennio di attività: da Generation del 2003 a Guided Tour del 2013. Burton ha una lunga storia di ingaggi di grandi chitarristi: Jerry Hahn, David Pritchard, Mick Goodrick, Pat Metheny, John Scofield, Kurt Rosenwinkel e buon ultimo Julian Lage. Il modo di suonare di Lage, la cui immaginazione melodica era già notevole sin dagli inizi, poggia molto sulla frase ritmica con un tocco netto, quasi tagliente.

Julian Lage all’epoca di questa esibizione del 2013 aveva 25 anni (il che significa automaticamente che nel 2003 all’esordio ne aveva solo 15!) ma aveva maturato un affiatamento unico col vibrafonista illuminando nel dialogo a due questa sessione che invito ad ascoltare. Il set dei brani eseguiti è il seguente: Out Of The Woods, Remembering Tano (un omaggio a Piazzolla), The Tiny Desk Blues. Buon fine settimana.

Le versioni di People

People è una canzone composta da Jule Styne con testi di Bob Merrill per il musical di Broadway del 1964 Funny Girl con protagonista Barbra Streisand che ha introdotto la canzone considerata una delle più famose nel suo repertorio, tanto che nel 1998 la sua versione è stata inserita nella Grammy Hall of Fame. L’opera è durata a Broadway dal 26 marzo 1964 al 1 luglio 1967, e valse a Styne e Merrill una nomination per un Tony Award del 1964 come miglior compositore e paroliere. 

People è basata sulla vita e la carriera di Broadway e della star del cinema e comica Fanny Brice e sulla sua tempestosa relazione con l’imprenditore e giocatore d’azzardo Nicky Arnstein. Il compositore Jule Styne e il paroliere Bob Merrill furono assunti per scrivere la colonna sonora e si incontrarono per la prima volta nel 1962 a Palm Beach, in Florida. Mentre lavoravano per sviluppare il personaggio di Fanny Brice, avevano bisogno di scrivere una canzone d’amore speciale che descrivesse i suoi sentimenti verso Nicky. Secondo il libro Jule: The Story of Composer Jule Styne di Theodore Taylor, la canzone fu scritta in trenta minuti.

Il singolo della Streisand fu registrato il 20 dicembre 1963 e fu pubblicato nel gennaio 1964 raggiungendo la quinta posizione nella classifica pop di Billboard. Trascorse anche tre settimane al numero uno della classifica Pop-Standards nel giugno/luglio 1964. 

La Streisand registrò questa canzone diventata per lei un cavallo di battaglia diverse altre volte, sia in studio che dal vivo, tra cui anche una versione con Stevie Wonder (che l’aveva eseguita all’evento di gala MusiCares Person of the Year 2011 in onore della Streisand) nel suo album di duetti intitolato Partners.

Andy Williams registrò una versione della canzone per il suo album del 1964, The Great Songs from “My Fair Lady” & Other Broadway Hits. Nello stesso anno sono uscite anche le versioni di Nat King Cole, Ella Fitzgerald, Dionne Warwick, Nancy WilsonBilly Eckstine, Steve Lawrence, Marvin Gaye, Jack Jones ed altri ancora. 

Innumerevoli sono le versioni cantate successive. Sebbene la canzone fosse fortemente legata al nome della Streisand, durante la metà degli anni ’60 fu anche associata a Florence Ballard delle Supremes.  Quella versione ha più un sapore jazz rispetto alla versione della Streisand, ed era essenzialmente uno sforzo di gruppo, eseguito in tre parti armoniche con Ballard alla voce solista. In particolare, è anche una delle poche canzoni in cui Ballard ha cantato come voce solista dopo che le Supremes ebbero ottenuto il successo commerciale. Un’altra versione con Diane Ross protagonista è stata registrata nel 1968. È stata interpretata anche da Ester Phillips, Ray Charles, Aretha Franklin, Tony BennettJennifer Lopez.

Diverse sono anche le versioni strumentali da parte di grandi jazzisti. Tra queste indichiamo:

Laurindo Almeida, Ramsey Lewis, Maynard Ferguson, Oscar Peterson, Duke Ellington- Johnny Hodges, Art Farmer, Grant Green, Roy Haynes, Jimmy McGriff, Pete Jolly, Cal Tjader, Eddie Harris, R. Roland Kirk, Howard Roberts, Kenny Burrell, George Shearing, Wes Montgomery, Bobby Timmons, Lucky Thompson, Chico Hamilton, Vince Guaraldi, Count Basie, André Previn, Johnny Lyte, Stan Kenton, Gabor Szabo, Bill Evans, Ahmad Jamal, Wallace Rooney, David Hazeltine, Jan Lundgren, Rolf Kuhn, Houston Person, Ellis Marsalis, David Krakauer, Bill Frisell, Alvin Queen.

Buon approfondimento di ascolto.

Kenny Garrett & Sounds From The Ancestors: Tiny Desk Concert – 2023

Il sassofonista Kenny Garrett è una figura importante della scena jazz da oltre 30 anni. Ha suonato con i più importanti jazzisti: Miles Davis, Art Blakey and The Jazz Messengers, Donald Byrd, Freddie Hubbard, Woody Shaw, e nei primi anni di carriera è stato membro della Duke Ellington Orchestra e della Vanguard Orchestra di Mel Lewis. Con un passato così importante, ha costruito poi una carriera da leader continuando a spingersi oltre i confini del jazz moderno. Il suo album, Sounds from the Ancestors, di cui avevavamo già prodotto la recensione all’inizio di quest’anno, è stato uno dei migliori album prodotti nel 2021. “Credo che la musica guarisca le persone“, ha detto Garrett in una recente intervista. “È questa la ragione per cui suono questa musica, perché so che mi guarisce“. Questa convinzione spirituale, insieme agli elementi gospel della chiesa nera americana, si può percepire nitidamente nella esibizione al Tiny Desk che stiamo per proporvi e, in particolare, nella gioiosa canzone d’esordio When the Days Were Different, titolo ripreso come per gli altri brani dal suddetto disco recensito. In Hargrove Garrett rende omaggio sia al John Coltrane di A Love Supreme che al trombettista Roy Hargrove, mentre il groove R&B infuso nell’hard-bop del brano si fa sentire fino alla fine. Il set si conclude col batterista Ronald Bruner Jr. che si esibisce in una performance di virtuosismo poliritmico su For Art’s Sake, un tributo ai batteristi Art Blakey e Tony Allen che abbraccia sia il jazz moderno che le influenze afrobeat.

La formazione completa della band è la seguente: Kenny Garrett, sax contralto e tastiere; Keith Brown, piano e tastiere; Corcoran Holt: contrabbasso; Ronald Bruner Jr., batteria; Rudy Bird, percussioni; Melvis Santa, voce. Buon ascolto e buon fine settimana.

George Shearing, un englishman in New York

Credo che George Shearing sia stato per decenni uno dei pianisti jazz più ingiustamente criticati e sottostimati, perlomeno dalla nostra critica. Per anni ho letto recensioni negative dei suoi dischi, quasi a prescindere, e devo ammettere che ho inconsapevolmente sempre dato retta a certe stroncature evitando di procurarmi i suoi dischi. Solo più di recente ho potuto approfondire la sua discografia e devo dire che, come in tante altre occasioni e per altri artisti criticati, ho dovuto rivedere certi miei pregiudizi trasformandoli perlomeno in giudizi più informati.

Spulciando la sua vasta discografia si può notare come non tutto quello che ha prodotto sia stato memorabile, ma ho spesso trovato un pianista eccellente e un leader di proprie formazioni davvero originale, ben più che interessante, senza contare che alcune sue composizioni come Lullaby of Birdland e Conception sono divenute (meritatamente) dei battuti standard internazionali.

il suo tocco raffinato, ricco di sottigliezze armoniche, esercitò una notevole influenza su vari pianisti emersi negli anni ’50 e ’60, con particolare riferimento a Bill Evans circa la tecnica dei block-chords (non a caso nella sua prima incisione Riverside A New Conceptions si rintraccia nei titoli proprio Conception di Shearing), ma già anni prima il giovane Lennie Tristano aveva acquisito quella tecnica proprio ascoltando Shearing. Col tempo il pianista londinese (poi naturalizzato statunitense dal 1956) si è specializzato come sublime accompagnatore di cantanti, stringendo dagli anni ’70 e ’80 un sodalizio di successo con Mel Tormé che ha prodotto album e concerti indimenticabili, oltre a ricevere numerosi premi.

Nato a Battersea, Londra, nel 1919, Shearing era il più giovane di nove figli. È nato cieco da genitori della classe operaia: suo padre consegnava il carbone e sua madre la sera puliva i treni. Ha iniziato a studiare pianoforte all’età di tre anni manifestando una predisposizione non comune e ha iniziato l’educazione formale sullo strumento presso la Linden Lodge School for the Blind, dove ha trascorso quattro anni. Prima della maggiore età era già un professionista indaffarato, sia sul pianoforte che sulla fisarmonica. Influenzato da Fats Waller e Teddy Wilson, Shearing è poi diventato uno dei primi musicisti europei dediti al bebop, dimostrando un’originale concezione armonica e ritmica.

Fece la sua prima trasmissione radiofonica alla BBC dopo aver stretto amicizia con Leonard Feather, con il quale iniziò a registrare nel 1937. Nel 1940, si unì alla popolare band di Harry Parry. Intorno al 1942 fu reclutato da Stéphane Grappelli (domiciliato a Londra durante la seconda guerra mondiale) per unirsi alla sua band, che apparve all’Hatchets Restaurant di Piccadilly nei primi anni della guerra, e successivamente andò in tournée come “the Grappelly Swingtette” dal 1943 in poi. Musicista professionista sin dalla fine degli anni ’30, Shearing è diventato il miglior pianista jazz inglese alla fine della seconda guerra mondiale. 

Fu incoraggiato a venire negli Stati Uniti nel novembre 1946 dallo stesso Leonard Feather, editore di Metronome. La tecnica di Shearing era così potente che inizialmente è stato scritturato nei club di New York sulla 52nd Street come l’inglese Art Tatum, anche se più delicato. Il suo stile armonicamente complesso che mescolava swing, bop e influenze classiche moderne guadagnò presto popolarità. Negli States si è esibito con l’ Oscar Pettiford Trio e ha guidato nel 1948 un quartetto jazz con il clarinettista Buddy DeFranco, il contrabbassista John Levy (poi divenuto suo manager dagli anni ’50) e il batterista Denzil Best, esibendosi al Clique Club di New York, che sarebbe diventato Birdland l’anno successivo. La collaborazione con De Franco ha portato a problemi contrattuali, poiché Shearing era sotto contratto con la MGM e DeFranco con la Capitol Records. In merito John Levy ha dichiarato in una intervista: “In origine il nostro gruppo era stato creato per suonare con il clarinettista Buddy De Franco, io al contrabbasso e Denzil Best alla batteria. Suonavamo principalmente al Clique Club di New York. Poi Buddy ottenne un grosso contratto con la Capitol e George fu ingaggiato dalla MGM. I due non potevano più registrare insieme. Con Buddy andato, Leonard Feather gli suggerì di sostituire il vibrafono e la chitarra al suono del clarinetto”. 

Così, a fine 1948, il pianista formò il primo George Shearing Quintet, poi divenuto celebre, una band con Margie Hyams (vibrafono), Chuck Wayne (chitarra), successivamente sostituito da Toots Thielemans (indicato come John Tillman), John Levy (contrabbasso) e Denzil Best (batteria). Con questa formazione Shearing raggiunse presto la fama originando un sound particolare che ha segnato un’epoca: vibrafono, pianoforte, chitarra, contrabbasso e batteria insieme in una condotta armonica unica, dove il pianoforte suona a block chords mentre chitarra e vibrafono raddoppiano la melodia. Shearing divenne noto per questa tecnica pianistica nota come “The Shearing Sound”, ma che era originariamente stata inventata dall’organista Milt Buckner. Questo suono morbido e soffuso anche sui tempi rapidi, divenne, soprattutto sulle ballad, il timbro dominante nei locali, il cocktail-sound per eccellenza, che dominò la musica popolare degli anni ’50.

Sempre Levy in proposito ha detto: “Quando George formò il quintetto alla fine del 1948 con Margie al vibrafono, Chuck alla chitarra, io e Denzil, il suono era incredibile. Suonare all’interno di quel gruppo è stato davvero qualcosa. Mi sono sentito così commosso come ascoltatore e come musicista che contribuiva a quel suono. George era come un’orchestra di buon gusto su quella tastiera. La maggior parte delle persone non si rende conto che quei pezzi per quintetto non sono stati scritti. Sono stati provati più e più volte fino a quando tutti conoscevano le loro parti. Scrivevo la mia parte perché non riuscivo a ricordare tutto come facevano quei ragazzi“[…] “Quando ripenso a George, penso a un pianista con un tale bel tocco. La sua sensazione sulla tastiera era così speciale. Mi sono sempre preoccupato di cercare di ascoltare ciò che il gruppo stava facendo in modo da poter tenere il tempo e inserirmi nell’azione. Non volevo nessun assolo. Non era la mia cosa. Avere quattro battute qua o là mi bastava. E a George andava bene“. Abbiamo suonato principalmente a New York, ma siamo stati un po’ in tour. Dovevamo stare attenti in posti come Salt Lake City, Kansas City e St. Louis, dove il pubblico era segregato per legge. Suonavamo in alcuni club dove i neri non potevano nemmeno entrare. Ma il pubblico bianco adorava la musica che suonavamo. Buffo, penso che il fatto che fosse cieco ha reso ciechi anche loro. Inconsciamente si sono messi nella sua posizione, preoccupandosi solo della musica, non di chi stesse suonando“.

La formazione registrò per Discovery, Savoy e MGM, incluso il popolarissimo singolo September in the Rain, che vendette oltre 900.000 copie. Shearing disse di questo successo che era stato “il più accidentale possibile“. In quel periodo Jack Kerouac lo sentì suonare al Birdland, descrivendo la performance nella seconda parte del suo On the Road.

L’interesse di Shearing per la musica classica si tradusse in alcune esibizioni con orchestre da concerto negli anni ’50 e ’60, e i suoi assoli spesso traevano ispirazione dalla musica di Satie, Delius e Debussy. 

Come già accennato, nel 1956 Shearing divenne cittadino naturalizzato degli Stati Uniti. Continuò a suonare con il suo quintetto lanciandosi anche in versioni latin aggiungendo le percussioni e registrò con la Capitol fino al 1969. Creò la sua etichetta, Sheba, che tuttavia durò solo alcuni anni.  Nel 1970, cominciò a smantellare il suo ormai prevedibile quintetto sciogliendo definitivamente il gruppo nel 1978. In quegli anni Shearing suonò in trio, come solista e sempre più spesso in duo, producendo ottimi dischi per la tedesca MPS. Tra le sue collaborazioni c’erano set con i fratelli Montgomery, Marian McPartland, Jim Hall, Hank Jones, Niels-Henning Ørsted Pedersen Kenny Davern. Nel 1979, Shearing firmò con la Concord Records registrando album per tutti gli anni ’80 tra cui quelli con Mel Tormé, due dei quali gli valsero due Grammy, uno nel 1983 e un altro nel 1984. Dagli anni ’90 Shearing registrò per Telarc.

Il pianista rimase in forma e attivo anche nei suoi ultimi anni di vita e continuò ad esibirsi, anche dopo essere stato onorato con un Ivor Novello Lifetime Achievement Award nel 1993. Non dimenticò mai il suo paese natale e, nei suoi ultimi anni, trascorse l’anno vivendo a New York e Chipping Campden, Gloucestershire, dove acquistò una casa con la sua seconda moglie, la cantante Ellie Geffert. Questo gli ha dato l’opportunità di fare tournée nel Regno Unito, dando concerti, spesso con Tormé, accompagnato dalla BBC Big Band. 

Nel 2004 ha pubblicato le sue memorie, Lullaby of Birdland, accompagnate da un doppio album “musical autobiography”. Poco dopo, però, cadde a casa sua e si ritirò dalle esibizioni regolari. Nel 2007 è stato nominato cavaliere, divenendo Sir George Shearing. Il 14 febbraio del 2011 è morto per insufficienza cardiaca all’età di 91 anni. Di seguito evidenzio alcune tracce tratte dai suoi migliori dischi, oltre a quelle inserite nei link lungo l’articolo.