Il decennio discografico del jazz 2010-2019

Considerato come nella mente dei jazzofili vi siano dei riferimenti ben precisi circa i capolavori discografici del secolo scorso, mi sono domandato qualche tempo fa, e analogamente, quali fossero stati i dischi più significativi di jazz pubblicati dal 2000 in poi. In particolare, ho preparato nella circostanza una lista di personali preferenze riguardante esclusivamente (e per ora) il decennio 2010-2019, selezionando almeno una ventina di titoli su una prima passata che me ne ha fatti considerare circa una cinquantina.

Ovviamente non vuole essere una banale classifica e mi rendo conto che il gusto personale mi ha orientato verso lavori più “leggibili”, scartando così lavori più arditi e/o sperimentali, ma che come tali richiedono, a mio avviso, più tempo di sedimentazione storica per essere davvero considerati degni di menzione. Perciò, per quanto possano essere discutibili le scelte credo possano servire almeno a stimolare un confronto con altre opinioni per capire meglio cosa sta succedendo nel variegato mondo del jazz in questi due ultimi decenni e quali possono essere le prospettive per il futuro della musica improvvisata.

Ho selezionato una ventina di incisioni separando dieci che considero più significative (per la portata e l’impegno compositivo profuso) da altre dieci semplicemente considerate più belle. La scelta è stata difficile e zeppa di dolorose esclusioni, con leggera preferenza, a parità, per le figure emerse più di recente. Alcune opere ultime di musicisti che ci hanno poi lasciato avrebbero meritato una citazione: mi riferisco a nomi come Ahmad Jamal, Chick Corea, Stanley Cowell e Wayne Shorter.

Come ho detto e scritto anche in occasione della lettura di liste fatte da altri, leggendole si ha più un’idea dei gusti della persona che le compila, più che descrivere realmente un panorama musicale, e questo vale anche per il sottoscritto. Comunque ci si prova e la lista è questa:

Dischi più significativi

Arturo O’Farrill: The Offence of the Drum (2013)

Magnifico lavoro orchestrale realizzato da uno dei maggiori compositori per orchestra emersi negli ultimi decenni negli USA ma da noi inspiegabilmente trascurato, capace di rinnovare e innovare in chiave ammodernata l’eredità afrocubana del celebre padre Chico e che vede la collaborazione del pianista Vijay Iyer come compositore ed esecutore in un paio di brani. La scelta è anche un omaggio a quella influenza caraibica e più in generale “latin” che pervade tutto il jazz da decenni e che col nuovo secolo ha visto una ulteriore spinta in considerazione del fatto che la comunità latina negli USA sta assumendo anche a livello musicale oltre che sociale un ruolo importante, non inferiore a quello che continua ad essere quello degli afro-americani. Al disco dovrebbe essere associato anche il lavoro dell’anno successivo del big band leader, intitolato Cuba the Conversation Continues che, per quanto più dispersivo, è forse ancor più significativo di questo per varietà e portata sociale oltre che musicale.

Christian McBride: The Movement Revisited, A Musical Portrait of Four Icons (2020)

Registrato nel settembre 2013 ma pubblicato solo il 7 febbraio 2020 tramite l’etichetta Mack Avenue, il disco è un’opera di grande impegno sociale oltre che musicale condotta dal contrabbassista Christian McBride, uno dei maggiori e più prolifici protagonisti del jazz di questi ultimi due decenni. McBride ci ricorda ancora una volta il contributo culturale e musicale, oltre che di impegno civile della intera comunità afro-americana all’interno della complessa, dura e complicata società americana.

Wynton Marsalis: The Abyssinian Mass (2016)

Che Marsalis sia un eccellente strumentista e improvvisatore è cosa nota, bisognerebbe però cominciare anche a dire che si tratta di un non trascurabile compositore di opere a largo respiro. Una di queste opere che andrebbero ascoltate con minori filtri pregiudiziali sul suo conto è la sua Abyssinian Mass. Si tratta di una maestosa e ambiziosa opera costruita sulla spiritualità gioiosa propria del rito religioso delle chiese africano-americane, ma che allarga la prospettiva musicale anche ad altre fonti musicali decisamente più profane e proprie del jazz. Registrata dal vivo nel 2013 al Lincoln Center, la Abyssinian Mass è stata pensata da Marsalis per commemorare il 200° anniversario della chiesa battista abissina di Harlem, su un incarico ricevuto nel 2008. E un lavoro ad ampio respiro contenuto in due CD, che lo presenta impegnato nel tentativo di disegnare le connessioni tra musica sacra e profana, cioè tra cori gospel, blues e ritmi jazz.

Brian Blade &The Fellowship Band: Landmarks (2014)

Landmarks è il quarto album di Brian Blade & The Fellowship Band, una brillante formazione attiva già all’epoca da ben sedici anni e che arriva qui a una prova di maturità raggiunta nel percorso evolutivo del quintetto capitanato da uno dei batteristi più bravi e importanti emersi dagli anni ’90 in poi. Un disco davvero riuscito e di alto livello musicale.

Joshua Redman : Still Dreaming (2018)

Joshua Redman è una delle maggiori figure sassofonistiche dei nostri tempi e in questo sentito lavoro prodotto in compagnia di altri tre grandi musicisti come Ron Miles, Scott Colley e Brian Blade sfrutta da par suo l’eredità musicale del padre Dewey Redman, per rifarsi allo storico quartetto Old And New Dreams e alla lezione di Ornette Coleman riportata all’oggi. Non si tratta, però, di una mera celebrazione e men che meno di una imitazione ma di una riuscitissima sintesi in chiave contemporanea del jazz moderno, partendo dal be-bop filtrato dall’esperienza epocale del quartetto di Ornette Coleman e dai successivi sviluppi portati avanti dai suoi discepoli Don Cherry, Charlie Haden e appunto il padre Dewey. Una citazione l’avrebbe meritata anche Trios Live dello stesso sassofonista, prodotto nel 2014 e registrato in precedenza al Jazz Standards di N.Y.C e al Blues Alley di Washington D.C. ma forse non significativo quanto questo.

Orrin Evans’Captain Black Big Band: Mother’s Touch (2014)

Questo è il secondo capitolo della Captain Black Big Band di Orrin Evans dopo l’eccellente disco d’esordio registrato dal vivo a New York nel 2010. Evans è un musicista che come pochi ormai si muove nel panorama mainstream contemporaneo, con una credibilità e un’esperienza a prova di bomba in veste di leader, compositore, arrangiatore e, ovviamente, di pianista. La sua musica si muove nel solco della tradizione african-americana in un lucido percorso di rinnovamento della stessa. Ed infatti il suono della Captain Black Big Band discende in maniera lineare dalle orchestre di Oliver Nelson, Charles Tolliver e Thad Jones/Mel Lewis. Atmosfere, temi e composizioni riecheggiano il jazz orgogliosamente nero, rivedendolo in chiave orchestrale. Un album che si colloca tra il meglio del jazz contemporaneo di tradizione africano-americana.

Avishai Cohen: Introducing Triveni (2010)

Questo notevole e brioso disco in trio senza pianoforte ci fece scoprire ad inizio decennio 2010 un grande talento trombettistico in netta crescita proveniente da quell’ambito jazzistico israeliano che ha giocato un ruolo importante sia per quantità di talenti emersi che per loro qualità proprio in quel decennio. Per questo gli rendiamo omaggio con tale scelta. Basterebbe citare solo ad esempio proprio la sorella di Avishai, la clarinettista Anat, anche lei musicista di grande talento ma i nomi da citare sarebbero parecchi. Nel suo modo di suonare si evidenziano in modo netto le influenze di Don Cherry a livello strumentale (ma c’è molto di altro) e di Charles Mingus e Duke Ellington nell’uso delle sordine sullo strumento e nella scelta del repertorio. Il suo successivo passaggio a ECM a metà decennio ha un po’ peggiorato, a nostro parere, le prestazioni discografiche rispetto alle grandi aspettative che dischi come questo avevano creato, ma Avishai Cohen rimane comunque uno dei trombettisti più validi in circolazione.

Miguel Zenón & The Rhythm Collective: Oye!!! Live in Puertorico (2013)

Miguel Zenón è senz’altro uno dei compositori e improvvisatori più importanti emersi proprio dal nuovo millennio in ambito jazzistico. Portoricano di origine, anche lui contribuisce a documentare il maggiore contributo dato dalle popolazioni di lingua ispanica emigrate negli USA alla cultura musicale nord americana. Il sassofonista è da tempo infatti impegnato nella ricerca dei fili musicali comuni nella tradizione jazz nordamericana e nella musica della diaspora africana nei Caraibi e in America Latina. Questo progetto che ho scelto è una sorta di trionfo in questa ricerca. Anche se avrei potuto scegliere altri suoi lavori discografici del medesimo livello, ho preferito indicare questo disco registrato dal vivo a Portorico nel 2011 proprio per tale ragione. Queste tracce sono il frutto delle esibizioni svolte durante due serate colte in uno spazio per spettacoli ormai defunto a Rio Piedras, Porto Rico e sono quanto mai rappresentative di quanto accennato.

James Brandon Lewis: Radiant Imprints (2018)

In questo disco il sassofonista James Brandon Lewis si propone in duo con il batterista Chad Taylor richiamando alla mente l’idea coltraniana di Interstellar Space, ma concepita in modo molto diverso, cioè priva degli spiritualismi di Coltrane, ma soprattutto rivolto più verso il Coltrane pre-svolta free, mantenendo al contempo un suono decisamente più abrasivo e un approccio sufficientemente affrancato dal modello di riferimento. Lewis riprende la lezione coltraniana in chiave personale e ricollocandola in un contesto musicale più leggibile e  più ampio al tempo stesso. Si coglie soprattutto come il Coltrane prediletto sia quello pre A Love Supreme, risalendo sino ai dischi Atlantic. Non a caso le improvvisazioni in diverse tracce prendono spunto dai lacerti tematici di quelle incisioni. L’iniziale Twenty Four miscela sapientemente frammenti di Giant Steps con  il meno frequentato 26-2Imprints prende spunto dal classico Impressions, mentre With Sorrow Lonnie riprende il Lonnie’s Lament di Crescent. Una bella prestazione di un musicista in progressiva ascesa e che annuncia la sua maturità successiva.

Joel Ross : Kingmaker (2019)

Questo disco d’esordio del giovane vibrafonista illustra già con forza quello che sarà negli anni a venire uno dei maggiori talenti emergenti del jazz. Rappresenta bene una nuova generazione di talentuosi musicisti da considerarsi alfieri di una innovazione in grado di traghettare il jazz verso la modernità. Quello che colpisce in questa prima uscita discografica è l’alto livello di espressività con cui Ross si muove all’interno di strutture non proprio facili da reggere strumentalmente. Oltre alla piacevolezza dell’interplay tra i musicisti – dove spicca la voce di Immanuel Wilkins al sax contralto, un altro dei giovani virgulti di cui si è accennato – troviamo musica di alto livello, che si dimostrerà solo un assaggio di ciò che questi talenti riusciranno a fare negli anni successivi.

Dischi più belli

Dischi validi in questa lista ce ne sarebbero diversi altri da indicare, alla faccia di chi pensa erroneamente che il jazz sia ormai una musica morta. Alcuni lavori di George Cables, Aaron Diehl, Eric Reed, Mike Wofford, Denny Zeitlin, Kenny Werner, Ed Simon, Gwylim Simcock, Chris Potter, Branford Marsalis, Jason Moran, Fred Hersch, Jason Moran, Ambrose Akinmusire – ai quali si potrebbero aggiungere gli europei Joachim Kuhn e Philip Catherine, o Michel Portal – sono di livello analogo a quelli che sto per illustrare. La differenza è minima e legata inevitabilmente al gusto personale:

SF Jazz Collective:  Wonder (The Songs Of Stevie Wonder) (2012)

Il SF Jazz Collective è stata in questi ultimi due decenni una delle formazioni più importanti emerse in ambito jazzistico. Come ho scritto tante volte su questo blog, loro hanno avuto in un certo senso l’analogo ruolo che ebbero le formazioni dei Jazz Messengers di Art Blakey in ambito hard-bop e post-bop dagli anni ’50 sino agli anni ’80 del secolo scorso. La loro idea di riscrivere in chiave contemporanea il repertorio dei migliori compositori emersi nel Novecento, e non solo nel jazz, producendo dei progetti discografici ad personam è da considerarsi vincente. Tra i tanti bei dischi prodotti ero un po’ incerto nella scelta tra questo e quello fatto sulle musiche di Jobim. Alla fine mi sono orientato su questo che onora una delle figure più importanti della cosiddetta Popular Black Music emerse nel secolo scorso, ossia quello Stevie Wonder che personalmente considero una sorta di George Gershwin dei nostri tempi.

Vijay Iyer: solo (2010)

Vijay Iyer è indubbiamente una delle personalità pianistiche più interessanti, colte e variegate della nostra contemporaneità in ambito di musica improvvisata. Tra i tanti suoi lavori pianistici prodotti ho una certa preferenza per i suoi dischi incisi per la ACT piuttosto che per ECM. Questo in piano solo in particolare mi ha colpito per la grande capacità di rielaborare e rivitalizzare certo repertorio legato alla profonda tradizione pianistica “nera” del jazz, con particolare riferimento a Ellington, Monk e Earl Hines, ma anche a figure popolari più recenti come quella di Michael Jackson.

Geri Allen: Grand River Corossing (Motown & Motor City Inspirations) (2013)

La grande Geri Allen ci ha lasciato purtroppo troppo presto nel 2017 a causa di una grave malattia, ma ha fatto in tempo a lasciarci ancora qualche gioiello discografico tra i tanti da lei prodotti in carriera. Questo disco legato alla musica della Motown che immortala il meglio della cultura musicale della sua Detroit lo amo particolarmente e non potevo non citarlo per la sua intrinseca bellezza. Scelta forse poco obiettiva ma per me necessaria.

J.D. Allen: Love Stone (2018)

Partito da posizioni nettamente post coltraniane, come del resto tanti altri sassofonisti della sua generazione, J.D. Allen con questo disco (tra gli altri che avrei potuto scegliere) dimostra in particolare di aver raggiunto una sintesi capace di inglobare anche diverse altre esperienze sassofonistiche legate a figure storicamente non meno importanti di Coltrane, quali Dexter Gordon e Sonny Rollins, proponendo cosi un sassofonismo moderno e più a trecentosessanta gradi. Una figura attiva ormai da tempo ma che qui dimostra di aver raggiunto una notevole maturità musicale.

Michael Blake: Tiddy Boom (2014)

Questo è un sassofonista che ho scoperto abbastanza tardi, ma già attivo da diverso tempo e che a mio parere meriterebbe maggiore attenzione di appassionati e critica. Il canadese Michael Blake sta maturando da tempo uno stile e una proposta musicale di altissimo livello assolutamente da non trascurare. Blake fa parte di quei jazzisti contemporanei che, provenendo da esperienze d’avanguardia, non solo sanno spaziare tra diversi generi musicali (cosa peraltro oggi abbastanza comune), ma sono in grado di rileggere in modo del tutto originale gli stili del passato generando progetti discografici davvero interessanti e riusciti come questo da non lasciarsi sfuggire.

Scott Robinson: Tenormore (2019)

Scott Robinson è un autentico esperto di sassofono in tutte le sue versioni, capace anche di esibirsi in concerto con maestria sul mastodontico sax basso. Si tratta di un musicista attivo da tempo con un lungo e vario curriculum di collaborazioni ad ampio spettro stilistico, dalla tradizione all’avanguardia. Si tratta dunque di un conoscitore profondo del linguaggio jazzistico che pratica con maestria assoluta. Qui lo dimostra esibendosi su un repertorio vario e suonato in modo fresco e brillante. Gran bel disco.

Larry Willis: This Time The Dream’s on me (2012)

Il pianista Larry Willis è scomparso giusto cinque anni fa lasciandoci in eredità una serie di incisioni prodotte nella sua ultima parte di vita e carriera molto ispirate e di grandissimo livello musicale. Questa che ho scelto del 2012 incisa in piano solo è una di quelle e merita l’ascolto tutto di un fiato. Non ve ne pentirete.

John Scofield: Country for Old Man (2016)

John Scofield sembra un po’ come il vino buono: più invecchia e più migliora. Lo spessore artistico di questo grande chitarrista e improvvisatore si è manifestato anche in questi due decenni degli anni Duemila nel suo massimo splendore, sfornando una serie di dischi di altissimo livello. Ho scelto questo più che altro perché dimostra la sua capacità di saper utilizzare al meglio il materiale compositivo più variegato per improvvisare in modalità jazz, in questo caso in ambito Country, ma anche altri lavori meriterebbero una menzione.

Nels Cline: Lovers (2016)

Il chitarrista Nels Cline con questo disco ha davvero realizzato un’opera pregevole sotto vari punti di vista. Un lavoro importante e molto curato nei dettagli, ponderato a lungo dal musicista, tra i migliori che mi sia capitato di ascoltare nello corso del decennio preso in esame. Cline, qui già sessantenne, arriva a produrre un progetto musicale di grande maturità e mirabile sintesi linguistica, perfettamente inseribile nell’alveo di un jazz “avanzato” ma allo stesso tempo fortemente legato anche alla sua tradizione, dopo aver maturato esperienze pluridecennali negli ambiti più disparati della musica improvvisata e trasversalmente ai generi. Emerge chiaramente un’accurata conoscenza sia del song americano, sia di un repertorio jazzistico ricercato e non comunemente affrontato.

Brad Mehldau: Blues & Ballads (2016)

Brad Mehldau negli ultimi anni ha allargato di molto lo spettro dei suoi interessi musicali, perlomeno quelli evidenziati a livello discografico, dimostrando curiosità anche per mondi musicali al di fuori del ristretto ambito jazzistico, come dimostrano dischi come After Bach o quello in duo col suonatore di mandolino Chris Thiele con risultati molto più che interessanti. Rimanendo all’ambito più jazzistico dove comunque il pianista della Florida eccelle, dalla sua discografia avrei forse potuto e dovuto scegliere lavori più incentrati sulla sua idea originale di trio di pianoforte anche a livello compositivo, indicando per capirci dischi notevoli come Ode o Seymour Reads The Constitution!. Alla fine la scelta è caduta su un lavoro solo apparentemente più scontato ma che affronta per improvvisare con perfetto idioma jazzistico un materiale classico di blues e di ballads suonato da grande jazzista. Il risultato estetico e di sostanza musicale dal mio punto di vista è di altissimo livello, in grado di dimostrare l’abilità di questo eccelso improvvisatore proprio su un materiale compositivo così poco innovativo. Mehldau nella piena sua maturità artistica dimostra qui di essere il degno continuatore della tradizione pianistica “bianca” portata avanti dai Bill Evans e dai Keith Jarrett nei decenni precedenti.

Riccardo Facchi

Lascia un commento