Shelly Manne, Ray Brown, Hampton Hawes & Bob Cooper Live at Shelly’s Manne Hole L.A. 1970

Proseguiamo in quest’ultimo fine settimana del 2023 con la proposta di concerti d’epoca tratti dai più celebri locali presenti sulla West Coast americana frequentati dai maggiori jazzisti presenti o residenti in California. Dopo il concerto di Zoot Sims al Donte di Los Angeles, oggi è il turno di una sorta di All Stars capitanata dal grande batterista Shelly Manne, uno dei più importanti batteristi bianchi della storia del jazz a cui, da fondatore, è intitolato anche il locale, lo Shelly’s Manne Hole. Il quartetto in esibizione è formato, oltre che dal batterista di origine newyorkese ma residente in California dai primi anni ’50, da Ray Brown al contrabbasso, il grande Hampton Hawes al pianoforte e da Bob Cooper al sassofono tenore. I brani suonati sono i seguenti: 1. Blues in the Basement 0:01 2. Stella By Starlight 13:26 3. Milestones 20:37. Buon ascolto e Buon Anno a tutti!

Buon Natale con Ray Charles & Aretha Franklin

In questo periodo natalizio girano sempre nelle nostre chiese improbabili concerti gospel prodotti da cori locali assolutamente non in grado di interpretare correttamente il feeling unico di quel repertorio proprio e caratteristico della comunità afro-americana. Sono dell’idea che è sempre meglio ascoltare gli originali da chi la tradizione musicale la possiede per storia e cultura, più che da chi l’ha assorbita in modo approssimativo e/o del tutto improvvisato, producendo poi dei surrogati che spesso, inconsciamente, nemmeno mostrano il necessario rispetto per la cultura altrui.

Ecco che allora, nel rinnovare l’augurio a tutti i lettori per l’imminente Natale, ho voluto riportare dei filmati di due delle voci storiche più importanti che la cultura musicale afro-americana abbia espresso, ossia Ray Charles e Aretha Franklin impegnati nel (loro) repertorio gospel. Entrambi interpretano a loro modo forse il più celebre e battuto tema (non necessariamente il migliore) della tradizione gospel. Come sempre mostrano di saper cantare in modo personale e non banale anche la più abusata delle canzoni.

Con le feste natalizie il blog si prende qualche giorno di pausa. Auguri a tutti!

Zoot Sims Quartet – Live at Donte’s, 1970

Zoot Sims è oggi un sassofonista quasi dimenticato ma è stato un grande improvvisatore dotato di swing e di un notevole senso del ritmo come pochi altri nella storia del jazz, perlomeno è considerabile tra i più grandi emersi nell’area californiana. Nato come John Haley Sims il 29 ottobre 1925, settimo ed ultimo figlio da genitori entrambi ballerini di vaudeville, non a caso Sims aveva imparato a ballare e suonare la batteria in età precoce, in un ambiente in cui la musica era di casa. Altri due fratelli erano infatti musicisti: Gene, che suonava la chitarra, e Ray, ottimo trombonista anche nei ranghi della band di Les Brown. Sims passa al sax tenore all’età di tredici anni e a sedici era già pronto a suonare ad alti livelli professionali. Il nomignolo “Zoot” gli fu affibbiato dal bandleader Ken Baker nel 1941, alludendo alla sua stravagante foggia nel vestire simile a quella dei giovani afro-americani e latini di Harlem a New York e di Central Avenue a Los Angeles.

Oggi la parola “swing” nel jazz pare per molti appassionati delle ultime generazioni (piuttosto a corto di storiche conoscenze jazzistiche a dire il vero), un concetto appartenente al passato e poco rappresentativo della musica improvvisata contemporanea. Può anche darsi, e ci sarebbe un lungo discorso da fare su come tale concetto applicato in musica sia comunque mutato (non sparito, per chiarire) nel corso dei decenni sino ad oggi, in quanto è il modo di improvvisare a essersi inevitabilmente evoluto coi tempi. Certo, se il modello attuale di riferimento in ambito di musica improvvisata è l’aritmica, noiosissima e falsamente moderna concezione proposta da gran parte della più recente produzione ECM, allora per quel che ci riguarda è di gran lunga preferibile – artisticamente, e non solo musicalmente – lo swing vecchia maniera proprio del jazz del passato qui ben rappresentato dal sassofonista californiano.

Ne è un bell’esempio questo concerto del 1970 effettuato in un club di Los Angeles e che sto per proporvi in questo ultimo fine settimana che ci porterà a festeggiare il Natale 2023. Il quartetto con il quale si propose nell’occasione era così composto: Zoot Sims -tenor sax; Roger Kellaway – piano; Chuck Berghofer – bass; Larry Bunker – drums, mentre la sequenza dei brani suonati dovrebbe essere la seguente: 1.The Opener 2. My Old Flame 3, On the Trail 4. Motoring Along.

La versione di My Old Flame ci pare meriti una particolare attenzione di ascolto. Colgo l’occasione per porgere a tutti i nostri lettori l’augurio di un Buon Natale.

Riccardo Facchi

Un capolavoro compositivo di Bird: Confirmation

Confirmation è una delle composizioni più originali di Charlie Parker dall’andamento melodico-ritmico più complesso e ingegnoso di tutto il movimento be-bop. Non a caso non esistono in pratica versioni cantate del brano, se si eccettua Sheila Jordan che ne ha inciso una versione vocale con testi di Skeeter Spiight e Leroy Mitchell nel 1975 e la versione in vocalese dei Manhattan Transfer del 1980.

A tal proposito, la Jordan ha dichiarato a jazzstandards.com: “Confirmation è un originale di 32 battute di Bird e non è basato su nessun altro brano. Nessuno che io conosca la canta tranne me, tranne forse gli studenti che hanno studiato con me. Lo insegno ma la maggior parte di loro non si avvicina mai ad esso. I testi sono stati scritti da Skeeter Spiight e Leroy Mitchell, i due cantanti che mi hanno insegnato a fare scat a Detroit a metà degli anni Quaranta. Erano cantanti fantastici“.

Pur avendo una struttura accordale classica delle canzoni del tipo AABA a 32 bars, il tema possiede in realtà un andamento melodico per nulla ripetitivo (se non nelle ultime otto battute di conclusione della linea melodica), fornendo una bella sensazione di piacevole variazione in distensione per tutte le trentadue battute. Contrariamente a quanto usualmente accadeva in altri casi, dove i boppers utilizzavano scheletri armonici di note canzoni del song americano sostituendone il tema con andamenti melodici arditi e ritmicamente frastagliati, nel caso di Confirmation non risulta alcuna canzone di riferimento con la stessa (o simile) struttura armonica. Qualcuno ha indicato come possibile riferimento la progressione armonica (non certo la melodia) della canzone del 1944 Twilight Time di Al Nevins e Buck Ram, ma solo (ed eventualmente) nella sezione A, poiché la B è del tutto diversa, ma ascoltandola il paragone ci pare come minimo una forzatura. Insomma, Parker qui si rivela completamente in qualità di compositore vero e proprio, al di là delle sue note abilità da impareggiabile improvvisatore.

Il musicologo Henry Martin analizza ampiamente il pezzo nel suo libro del 2020 Charlie Parker, Composer, dove ha scritto che il pezzo: “potrebbe essere la migliore dimostrazione della abilità compositiva di Parker”, e lo descrive come “una combinazione di ingegno, complessità e un’originalità di costruzione che Parker non è riuscito a eguagliare di nuovo“. Brian Priestley nella sua biografia su Parker, Chasin’ the Bird: The Life and Legacy of Charlie Parker, scrive che le prime otto, le otto centrali e le ultime otto battute sono strettamente correlate e ritiene che “è istruttivo come una piccola differenza necessita di un’altra piccola differenza che necessita ancora di un’altra piccola differenza” al fine di “mantenere un perfetto equilibrio“.

Bird suonava Confirmation già nel 1945 quando si presentò al club Billy Berg di Los Angeles, ma potrebbe essere stata scritta già cinque anni prima, quando il sassofonista era con la band di Jay McShann a Kansas City. La prima registrazione di Confirmation è stata realizzata tuttavia da Dizzy Gillespie, durante una sessione in small groups per Dial Records nel febbraio 1946 dove Parker non si presentò.

Gillespie è talvolta accreditato come co-compositore, ma l’autore di Charlie Parker: la sua musica e la sua vita Carl Woideck afferma che in un articolo del 1949 Parker accusò i manager di Gillespie di aver appiccicato il suo nome su sue composizioni come Confirmation. In Bird Lives! The High Life and Hard Times of Charlie (Yardbird) Parker l’autore Ross Russell, proprietario della Dial Records, tentò di aiutare Parker creando una casa editrice per proteggere i suoi diritti d’autore, ma nel 1954 un avvocato assunto da Parker [cit.]”trovò che la questione era un groviglio senza speranza di accordi non eseguiti, contratti violati e materiale protetto da copyright.” Alcune delle sue composizioni erano state vendute a titolo definitivo e altre erano di pubblico dominio e non protette da copyright perché Parker non aveva mai eseguito il contratto Dial che autorizzava la casa editrice. Era un disastro, e questo spiega le discrepanze tra le date di esecuzione e le date di copyright del materiale di Parker.

Sta di fatto che Bird non ha registrato una versione in studio del suo brano se non nel luglio del 1953, con Al Haig al piano, Percy Heath al contrabbasso e Max Roach alla batteria. Tuttavia, suonò frequentemente il pezzo durante le esibizioni dal vivo risultando in almeno cinque registrazioni live. La prima di queste è un’esibizione del 1947 con Gillespie alla Carnegie Hall.

Tra le altre tante versioni, alcune davvero eccellenti, indichiamo:

Evidenziamo poi lo strepitoso solo di Parker eseguito alla Carnegie Hall nel 1947 trascritto su spartito, oltre ad una versione vocale di Sheila Jordan e una concertistica del Modern Jazz Quartet. Buon approfondimento di ascolto.

John Scofield Quartet – Jazz in Marciac , 2011

Abbiamo più volte parlato su questo blog di John Scofield (compirà tra pochi giorni ben 72 anni) che consideriamo uno dei nostri chitarristi preferiti, oltre che una delle figure più importanti presenti sulla scena del jazz e della musica improvvista da oltre tre decenni. Tra l’altro, a noi sembra che la sua arte di chitarrista dallo stile inconfondibile e da magnifico improvvisatore si comporti un po’ come il vino buono: più invecchia e più migliora. Le sue improvvisazioni sono caratterizzate sempre da uno spiccato umore blues, memore delle sue esperienze formative in ambito R&B, e da un uso degli spazi e degli accenti ritmici tra e sulle note che lo collocano tra i grandi improvvisatori della intera storia del jazz.

Lo proponiamo oggi in una eccellente esibizione in quartetto tratta dal festival di Marciac del 2011 dove suona in compagnia di tre splendidi musicisti, tra cui il compianto Mulgrew Miller al pianoforte, Scott Colley al contrabbasso e Bill Stewart alla batteria. Consigliamo in particolare l’ascolto della bellissima versione chitarristica di I Want to Talk About You (a 10:52 del filmato), tema associato alle tante strepitose versioni date da John Coltrane, e questa non è da meno per quanto ovviamente diversa. Buon ascolto e buon fine settimana.

Musicisti jazz in cortocircuito professionale

Francesco Barresi è un amico e collaboratore occasionale del blog, molto più esperto di me circa la situazione del jazz italiano e dell’ambiente che lo circonda. Oggi pubblico con piacere un suo scritto relativo al tema. Come ho già avuto occasione di dire e scrivere in passato, ho deciso da tempo di non dedicarmi più personalmente ai musicisti del nostro jazz, non tanto per giudizio negativo dal punto di vista musicale, ma proprio perché la mia esperienza passata mi ha insegnato di starvi alla larga, per non generare fastidiosissimi conflitti personali, in quanto ambiente mediamente incapace di reggere qualsiasi critica o osservazione che non sia una lode incondizionata. Meglio dunque lasciar perdere del tutto. Non così evidentemente per l’amico Francesco che nell’occasione vuol portare a conoscenza uno dei non pochi problemi attuali presenti nel suddetto ambiente. Buona lettura.

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Tempo fa pubblicai, sempre su questo blog, uno scritto intitolato “Considerazioni sul mercato italiano del jazz”. Nello stesso sottolineavo, fra le altre cose, il dilagante conflitto di interessi generato dalla presenza sempre più massiccia di musicisti alla guida di festival e/o stagioni in club e locali, cosa che determinava una situazione degradata in tal senso, nella maggior parte dei casi pure gestita in modo spavaldamente cosciente. Torno ad occuparmi di questo tema, alla luce di una nuova tendenza che si sta diffondendo presso diversi appartenenti della categoria citata che è quella di trasformarsi in critici e musicologi militanti, cosa che permette loro di chiudere un cerchio che può divenire elemento di cortocircuito fra le diverse vesti professionali intorno alla musica.

Desidero chiarire che non ho alcun tipo di preclusione né, tanto meno, di furore iconoclasta nei riguardi di alcun esponente della categoria dei musicisti. Ne conosco personalmente molti e con parte di essi possiedo e continuo a mantenere ottimi rapporti. Il mio pensiero si basa esclusivamente sulla osservazione di una realtà che contiene in misura sempre maggiore elementi di confusione attraverso la sovrapposizione di figure professionali che dovrebbero essere distinte impersonate da soggetti che, spesso, hanno già problemi a crearsi una fisionomia vera e riconoscibile nella loro attività di musicisti.

Non c’è nulla di male ad approfondire la materia della propria professione, ma la critica e la musicologia sono materie che richiedono un approccio ed una preparazione specifica che non si possono improvvisare (giusto per rimanere in tema jazzistico). Esistono e sono sempre esistiti musicisti che sono riusciti a far coesistere queste diverse componenti in modo convincente come, ad esempio, Gunther Schuller e, in Italia, si sta distinguendo in ciò Riccardo Brazzale. Non è, dunque, in discussione la possibilità di esercitare tale eclettico ruolo, ma la proliferazione di personaggi che, non riuscendo evidentemente a trovare una propria collocazione e affermazione attraverso la loro musica, cercano forse di aggiungere opportunità per se stessi al fine di raggiungerle. Ed ecco che si ascoltano, spesso, tesi bizzarre spacciate per verità incontrovertibili espresse in una prospettiva di pensiero unico ed arrogantemente inattaccabile, nonché indubitabile, come, ad esempio il concetto che per capire bene il jazz occorre rifarsi alla musica barocca (affermazione sorprendente quanto recentemente riscontrata). Potrei aggiungere molte altre affermazioni paradossali di tale tenore, ma andrei fuori tema e si sottrarrebbe spazio alla riflessione.

Il messaggio che intendo sottolineare e che, purtroppo siamo costretti a ribadire, è che nel mondo del jazz italiano si continua spesso a riscontrare approssimazione unita a presunzione, lasciando intendere l’essere depositari di verità incontestabili.

E’ evidente, in questo modo, ci sia un’alta probabilità che, invece di svolgere un’utile e importante azione di informazione e approfondimento della materia, si diventi soggetto diffusore di confusione e, spesso, di falsità storiche. Analogamente ma per altri versi, vi sono improbabili “direttori artistici” che propongono come evento speciale nella propria stagione un nome estraneo al jazz come Mario Venuti. Del resto, se una manifestazione di peso (ma in forte calo qualitativo rispetto al passato) come Umbria Jazz invita, dopo Bob Dylan, Lenny Kravitz, perché un club non può presentare un cantautore italiano? Semplice emulazione al ribasso, fenomeno purtroppo da molti apprezzato nell’Italia di oggi.

Avevo già stigmatizzato, come detto, il tema del conflitto di interessi come l’elemento da sottolineare, ma ciò non è più il problema, ma solo uno dei tanti che affliggono il nostro ambiente. Fino a quando ogni operatore del settore non tornerà a svolgere la funzione di propria competenza saremo destinati a convivere con gli svantaggi di questa sovrapposizione di ruoli che incide in modo evidente su certa interpretazione mistificata dei fatti storici e sullo stantio provincialismo clientelare della gran parte delle stagioni jazzistiche.

Non è mia intenzione, naturalmente, fare di tutta l’ erba un fascio, in quanto esistono ancora operatori che riescono a mantenersi indipendenti da tali logiche ed a loro deve andare il plauso e l’invito a continuare caparbiamente nei loro sforzi, ma tendono ad essere sempre più minoritari, a discapito della qualità della proposta complessiva al pubblico dei fruitori. L’unica cosa che alla fine dovrebbe contare.

Francesco Barresi

Dave Holland Quartet – Newport Jazz Festival, 2008

Oggi, 8 dicembre giorno di festa, lasciamo semplicemente parlare la musica con un concerto registrato al Festival di Newport nel 2008 da una formazione in quartetto sotto la leadership di Dave Holland, successiva al più noto quintetto che ci ha lasciato a cavallo della fine anni ’90 e primo decennio del 2000 diverse incisioni di primario interesse. Di quella formazione qui rimane, oltre al leader, il sassofonista Chris Potter, protagonista in questo concerto con le sue improvvisazioni come lo era stato nel quintetto. Completano la band il pianista Gonzalo Rubalcaba e il batterista Eric Harland.

Il programma dei brani eseguiti è il seguente: 0:00:00 – Treachery 0:07:26 – Technical Difficulties 0:08:05 – Minotaur 0:19:33 – Fifty 0:31:50 – Veil of Tears 0:43:27 – Ask Me Why. Buon ascolto e buon fine settimana.

Sonny Rollins, il campione dell’approccio ritmico alla melodia

La scorsa settimana si discuteva su Facebook di tenorsassofonisti e come sempre quando si parla dei protagonisti di questo strumento viene fuori più o meno esplicitamente che, per la stragrande maggioranza degli appassionati, Coltrane è considerato il numero uno dello strumento. Senza voler negare l’importanza e il ruolo indiscussi e indiscutibili del sassofonista di Hamlet nel jazz e nella evoluzione del relativo linguaggio improvvisato, in termini prettamente strumentali personalmente (e da ex sassofonista, nel mio piccolo) non mi sono mai trovato molto d’accordo nel considerarlo il numero uno dello strumento e per varie ragioni.

Innanzitutto, occorre osservare che la fama di Coltrane (come per Miles Davis, per altri versi) ha saputo andare oltre il ristretto ambito dei puri appassionati del jazz, in quanto una buona parte del popolo del rock (numericamente assai più vasto) si è avvicinato e si è interessato al jazz proprio tramite le suddette figure citate, senza in realtà avere adeguata conoscenza e approfondimento della storia antecedente e della evoluzione linguistica sullo strumento in tale ambito. Il che in termini “numerici” spiega quella sorta di plebiscito in suo favore che spesso si riscontra nelle discussioni.

Detto in termini più semplici e diretti, molti di questi appassionati “esportati” al jazz semplicemente conoscono poco e in modo abbastanza approssimato ciò che è avvenuto prima di Coltrane. Il che non è un dettaglio secondario, in quanto comporta implicitamente una inevitabile misconoscenza di ciò che hanno saputo combinare tenorsassofonisti come Coleman Hawkins, Lester Young, Don Byas, Lucky Thompson, Sonny Stitt e Dexter Gordon, sia in termini strumentali, sia linguistici sullo strumento. Il rischio della mitizzazione del singolo personaggio (prassi tipica dell’appassionato medio del rock) diventa altamente probabile e controproducente in un ambito di cultura musicale jazzistica, che invece si è sempre caratterizzata per un inestricabile contributo linguistico collettivo, piuttosto che dovuto al singolo.

Occorre poi saper distinguere e non sovrapporre necessariamente il ruolo massimamente influente del Coltrane innovatore con quello di strumentista, generando una vera e propria scuola con relativi proseliti ancora oggi presenti sulla scena della musica improvvisata: si può essere degli innovatori dal punto di vista linguistico senza anche detenere automaticamente il primato sullo strumento che si utilizza per farlo. Peraltro, ci sono stati nel jazz autentici geni che per originalità linguistica e complessità tecnico-esecutiva, hanno reso molto più difficile generare una ampia e codificata scuola di riferimento, senza per questa ragione doverli considerare di minor rilevanza.

Dal punto di vista poi di approccio tecnico allo strumento e di improvvisazione, si possono far notare alcuni dettagli non trascurabili nello stile di Coltrane rispetto ad altri non sempre “vincenti”, per così dire. Se si conosce in modo approfondito la biografia di Trane ( Il libro di Lewis Porter in questo senso potrebbe aiutare) si dovrebbe sapere come il sassofonista di Hamlet sia giunto ad altissimi livelli tecnici e musicali dopo un lungo e faticoso percorso di studi personali che lo hanno portato a una progressiva ma lenta crescita musicale ed artistica sino alla sua esplosione relativamente tarda verso i trent’anni di età. Si potrebbe forse affermare che Coltrane abbia in un certo senso compensato una relativa carenza di talento (si fa per dire) rispetto a quello di altri con una maniacale applicazione e una disciplina sullo strumento pressoché uniche che lo hanno portato ai massimi livelli.

Dal punto di vista tecnico-strumentale vi è poi da notare la questione del suono, della sua formazione timbrica e del suo volume che tra gli appassionati (non sassofonisti) viene sempre sottostimata rispetto alla velocità fraseologica che solitamente colpisce maggiormente l’ascoltatore, ma non è di primaria importanza tecnica sullo strumento. Verò è che con l’avvento del be bop e del jazz moderno l’abilità fraseologica dell’improvvisatore è diventata preponderante sulla cura e l’originalità del suono, ma possedere un “bel suono” al tenore, rotondo e corposo, possibilmente originale, rimane caratteristica non meno importante e semplice da ottenere dal punto di vista tecnico. Anzi, direi che è impresa tecnica più complicata del saper fraseggiare velocemente anche per personale esperienza. Coltrane è stato un maestro assoluto in termini di velocità esecutiva (i suoi sheets of sound erano emblematici in questo senso) ma molto meno in termini di formazione del suono che, specie negli anni formativi e precedenti alla maturità (avvenuta più o meno da Giant Steps in poi), mostrava alcune incertezze e debolezze non rintracciabili in molti altri colleghi coevi presenti sulla scena. In tal senso sassofonisti come Dexter Gordon, Sonny Rollins (per non citare i sassofonisti di area Soul Jazz, quasi tutti dotati di un timbro e un volume ragguardevoli) o quelli della generazione precedente come Coleman Hawkins, Ben Webster e Don Byas possedevano un controllo del suono ben superiore al suo.

Infine, vi è la questione relativa alle modalità improvvisative (a tal proposito potrebbe essere utile rileggersi lo scritto pubblicato qualche tempo fa su questo stesso blog al seguente link). In questi giorni mi è capitato di riascoltare l’intervista che il noto critico americano Ralph J. Gleason tenne con Sonny Rollins nel periodo di pubblicazione di The Bridge, forse il periodo strumentalmente più fulgido nella carriera di Rollins, dove il sassofonista spiega lucidamente l’importanza prioritaria dell’approccio ritmico alla melodia in improvvisazione secondo la sua esperienza, nel quale, lui sì, è stato campione. Riporto qui il video di quella intervista davvero illuminante, perché quello è il nodo centrale della questione relativo alla improvvisazione jazzistica che intendo sottolineare:

Personalmente sono oggi arrivato alle stesse conclusioni di Rollins sul tema, quindi pienamente d’accordo con lui e credo che, da questo punto di vista, il primato di Coltrane, sia in termini strumentali che di improvvisazione, sia molto più discutibile di quanto non appaia in prima istanza a molti.

L’impostazione di Coltrane in improvvisazione – che certo non era scarso sul piano ritmico, chiarisco sino all’ovvio – è molto più metodica e basata sul suo approfondito studio delle scale e degli accordi, quella di Rollins pare essere molto più varia, fantasiosa, intuitiva e spericolata ritmicamente, esibendo nel contempo una cura per il suono dello strumento, sia sul piano timbrico che del volume a mio parere senza molti paragoni possibili. Non a caso studiare lo stile di Coltrane, anche a livello scolastico per un allievo o un dilettante, è meno complicato di quanto lo sia farlo con quello di Rollins cosi poco dotato di riferimenti metodologici replicabili. Non a caso, Rollins ha generato molti meno proseliti di Coltrane, sia per questa ragione, sia per richiedere al singolo strumentista un senso del ritmo davvero non comune come il suo, quasi irreplicabile.

Di seguito piazzo un filmato di Rollins col trio del 1959 in tournée europea in cui le sue improvvisazioni spiegano meglio delle parole i concetti sopra esposti. Lo accompagnano Henry Grimes al contrabbasso e Joe Harris alla batteria. Buon ascolto.

Alfredo Rodríguez Trio: NPR Music Tiny Desk Concert – 2018

L’influenza della musica caraibica e in particolare cubana sul jazz sin dalla sua formazione è stata determinante, come peraltro abbiamo approfondito nel lungo saggio presente su questo stesso blog. Nella nostra contemporaneità si rintracciano diverse figure, per lo più pianistiche, provenienti dall’area cubana: Gonzalo Rubalcaba, Chucho Valdés, Arturo O’Farrill, Aruán Ortiz, Roberto Fonseca, David Virelles e Dayramir González sono i nomi più noti. Tra questi oggi parliamo del trentottenne Alfredo Rodríguez, un pianista la cui notorietà è cresciuta nell’ultimo decennio.

Rodríguez ha studiato pianoforte classico presso il Conservatorio Saumell Manuel, poi presso il Conservatorio di Musica Roldán Amadeo e all’Instituto Superior de Arte a L’Avana. Il suo interesse per il jazz è stato stimolato dal concorso annuale “JoJazz” per giovani musicisti, dove ha vinto una menzione d’onore nel 2003. Nel 2006 è stato selezionato come uno dei dodici pianisti provenienti da tutto il mondo per esibirsi al Montreux Jazz Festival. Quincy Jones lo notò e gli propose di lavorare con lui. Nel 2007, ha fondato il primo Alfredo Rodríguez Trio, con Gastón Joya (contrabbasso) e Michael Olivera (batteria). Nel 2009, Rodríguez accompagnò suo padre cantante per un tour e decise di non fare ritorno a Cuba, chiedendo asilo politico agli Stati Uniti. Con il supporto di Quincy Jones ha iniziato la sua ricerca di una carriera nella musica negli Stati Uniti partecipando a diversi festival internazionali e incontri con grandi figure del jazz.

Lo proponiamo in una breve esibizione in trio effettuata al Tiny Desk nel 2018 e rintracciata in rete. Alfredo Rodríguez fornisce qui una rapida lezione sul perché i pianisti di quell’isola catturino spesso la nostra attenzione: trattano il pianoforte per quello che è fisicamente, ossia come uno strumento a percussione. Rodríguez si scatena con un’intensa raffica di note con grande impulso ritmico. Il mix di lirismo europeo e percussioni afro-cubane è il cuore della tradizione pianistica cubana ed è ben presente nel primo brano proposto dal trio, Dawn, completato dal batterista Michael Olivera e al chitarrista/bassista Munir Hossn. Come sopra accennato, l’iconico produttore/compositore Quincy Jones ha ascoltato Rodríguez durante un’esibizione a un festival jazz europeo e lo ha preso sotto la sua ala protettrice, facendolo infine entrare nella sua società di management. Ascoltando l’esplorazione espansiva e lirica del secondo brano di questo Tiny Desk set, Bloom, è facile capire cosa abbia catturato l’attenzione del noto produttore. La tradizione spirituale Yoruba dell’Africa occidentale, comunemente nota come Santeria, infonde nella musica molto della vita quotidiana cubana e Rodríguez chiude con la sua interpretazione della musica dedicata all’Orisha Yemaya, la dea dell’oceano e di tutte le acque. La melodia del brano è una derivazione della canzone associata a Yemaya e il trio al Tiny Desk esplora i ritmi della melodia, fino al canto finale. Buon ascolto e buon fine settimana.