C’è un luogo al quale Keith Jarrett pare sentirsi legato: il New Jersey Performing Arts Center di Newark, una sala da concerto che evidentemente predilige e che trova in qualche modo rassicurante, sia per l’ottima acustica, sia per la vicinanza a casa. E lì, infatti, che il cosiddetto Standard Trio ha pensato di chiudere la sua attività il 30 novembre 2014 dopo un’esistenza lunga più di trent’anni, facendone una delle piccole formazioni del jazz più longeve della storia, paragonabile solo al Modern Jazz Quartet o, in misura più discontinua, all’Art Ensemble of Chicago. È lì inoltre dove Jarrett riprese a suonare in pubblico a fine 1998 (in un ispirato concerto documentato dalla recente pubblicazione ECM, After The Fall) dopo la grave sindrome psico-fisica che l’aveva duramente colpito e debilitato nell’autunno del 1996, impedendogli praticamente di esibirsi in pubblico per circa due anni. D’altronde non c’è da stupirsi: il pianista è sempre stato attento in modo quasi maniacale ai fattori organizzativi e ambientali propedeutici alle sue esibizioni, un atteggiamento sempre molto osteggiato dai più, ma condiviso dai suoi fidi compagni di quel lungo viaggio musicale attorno agli standard che ebbe inizio nel lontano gennaio 1983 negli studi di New York della ECM: il contrabbassista Gary Peacock e il batterista Jack DeJohnette.
In questo lungo periodo e in base al materiale discografico a personale disposizione, andando anche oltre la documentazione ufficiale aggiornata a diciannove titoli in CD (diciotto, se si esclude la registrazione con Paul Motian alla batteria al posto di Jack DeJohnette al Deer Head Inn, in Pennsylvania, nel 1993), a cui aggiungere tre riprese filmate di interi concerti giapponesi (Standards, Standards II e Live In Tokyo, at Open Theatre East), il Trio ha affrontato in carriera più di centottanta diverse canzoni tra quelle del cosiddetto Great American Songbook e standard del jazz. Senza contare la presenza di una ventina di originals e quattro interi dischi (Changes, Changeless, Inside Out e Always Let Me Go) dedicati a musica per lo più liberamente improvvisata, non basata cioè su quel materiale.
La scelta del pianista di affrontare gli standard in piena maturità umana e artistica, ossia nel corso del suo trentottesimo anno di vita, sorprese parecchio all’epoca, tenendo anche conto di come egli fosse partito a fine anni Sessanta da esperienze musicali che manifestavano posizioni più avanzate (la musica di Ornette Coleman e il pianismo di Paul Bley, tra il molto altro) e provenisse dalle più recenti estenuanti esibizioni solitarie al pianoforte. Una buona parte della critica ha accennato a un sostanziale arretramento nelle sue intenzioni artistiche su posizioni più tradizionali, facendo persino scrivere di “conservatorismo di lusso” e di “confinamento nella forma chorus”. Una valutazione parziale, se non proprio ingenerosa, che rivela un’immagine critica del jazzista eternamente proiettato verso l’innovazione, quasi dimentico del suo passato e della tradizione culturale dalla quale proviene ed è stato per lungo tempo immerso. Il che, se ci si pensa bene, fa parte più dell’enfasi narrativa intorno ai grandi protagonisti del jazz che della realtà, giacché qualsiasi musicista, anche il più geniale e avanzato, giunge a una fase “classica” nella sua parabola artistica, dopo un periodo linguisticamente innovativo, considerando che “quando si cerca di creare una musica originale la conoscenza del passato è essenziale, all’interno di qualsiasi tradizione e linguaggio“, citando un opportuno passo della biografia sul pianista, scritta da Ian Carr.
In questo senso gli esempi nel jazz si sprecano. Inoltre, l’osservazione critica pare non considerare l’enorme peso avuto nel jazz (e più in generale nella cultura musicale americana) dalla tradizione del Song e dagli Standards, per quanto già abbondantemente esplorata, cui Jarrett decise all’epoca di riferirsi in maniera più sistematica rispetto al passato. Il trio è riuscito a darne una lettura personalissima, in molti casi a farne una vera e propria riscrittura, pur rimanendo fedele alle intenzioni espressive dei vari compositori e arrivando a produrre nel tempo una sorta di monumento a quella tradizione. Peraltro, egli non ha mai escluso gli standard dal suo repertorio, sin dagli inizi di carriera, quando”(…) negli anni ’60 lavorava come pianista in un bar di Boston e dove aveva imparato quanti più song gli era stato possibile (…)[1]”. Ve n’è riscontro anche dai primi titoli della sua mastodontica discografia. In Buttercorn Lady, registrato dal vivo con i Jazz Messengers di Art Blakey nel gennaio 1966 a soli vent’anni, improvvisava già magnificamente su My Romance e Secret Love. Per non parlare del suo assolo in Autumn Leaves (contenuto in Autumn Sequence), registrato lo stesso anno con la formazione di Charles Lloyd in Dream Weaver, o ancora da leader del primo trio, con Charlie Haden e Paul Motian, dove affrontava temi come Everything I Love (in Life Between The Exit Signs) e Dedicated To You (in Somewhere Before). C’è traccia anche di una prima versione di I’m Going To Laugh You Right Out Of My Life tra i bootleg della tournée europea organizzatagli dal produttore dell’Atlantic George Avakian, nel 1969, tema che Jarrett riprenderà diverse volte nei concerti dello Standard Trio decenni dopo, per quanto la canzone non risulti ancora nella discografia ufficiale (se non nelle registrazioni in duo con Charlie Haden). Inoltre, in alcuni suoi concerti in solo del periodo precedente alla formazione del trio aveva proposto Over The Rainbow come bis.
Gli è che l’utilizzo di quel genere di materiale fa parte della base culturale di qualsiasi musicista americano, anche solo per quegli ascolti radiofonici pressoché quotidiani ai quali poteva accedere un giovane musicista cresciuto nella profonda provincia americana com’è stato il Jarrett di Allentown. Quel genere di scelta era perciò del tutto naturale e logica per il pianista, poiché il Song è un po’ come “tornare a casa” e il condividerlo con altri musicisti con analoga esperienza e provenienza, come Gary Peacock e Jack DeJohnette, lo rendeva, dicendola con le parole stesse del pianista: “una specie di linguaggio tribale, un mondo di meravigliose piccole melodie, un mondo tranquillo”[2] cui approdare.
Jarrett fece all’epoca una scelta dettata anche da fattori personali, sentiva cioè l’esigenza di uscire dal proprio ego musicale, tornando a elaborare materiale non suo. Dopo essersi esercitato a lungo su composizioni originali e idee proprie scavate in se stesso nelle lunghe, libere improvvisazioni in solo, il pianista coltivava “il bisogno di auto-espropriazione, nel senso di non suonare sempre musica propria, ma di porsi, con umiltà, al servizio della musica altrui”, come riportato da Franco Fayenz in Jazz di Arrigo Polillo. Gli standard obbligavano Jarrett a vincolarlo alla loro forma, il che gli permetteva di realizzare improvvisazioni più calibrate, prive cioè di certe lungaggini che caratterizzavano diverse delle sue affascinanti, ma anche prolisse, esibizioni in piano solo. In un certo senso, quel progetto musicale ha permesso a Jarrett di immolare il proprio spiccato ego artistico sull’altare del Great American Songbook, in una sorta d’atto di rispetto, e forse persino di amore incondizionato, verso di esso. E’ stato uno dei pochi casi certi nella sua carriera in cui la musica ha avuto la precedenza sull’uomo e sull’esecutore. E’ purtuttavia vero che, dal punto di vista di Manfred Eicher e della sua ECM, l’opportunità di un esordio discografico del trio dopo la morte di Bill Evans sembrava avere chiare motivazioni di marketing, andando a coprire un vuoto lasciato anche dal punto di vista del business discografico, pertanto vi era un bell’intreccio di motivazioni e concause a favorire la nascita di quel genere di progetto.
Un elemento interessante da evidenziare è che tutti i membri del trio suonavano il pianoforte, oltre alla circostanza che Jarrett aveva già affinato con DeJohnette un’intesa condivisa sin dagli inizi di carriera, attraverso le esperienze con i gruppi di Charles Lloyd e di Miles Davis. Che i tre avessero nel loro destino artistico quello di vivere prima o poi un’avventura musicale comune fu anticipato da alcuni segni premonitori. Fu Manfred Eicher ad aver avuto l’embrionale idea di proporli insieme sin dai tempi antecedenti la registrazione di Facing You, quando – stando sempre alla biografia di Ian Carr – suggerì a Jarrett di esordire per la sua etichetta con tre possibili progetti, tra cui proprio quello di suonare in trio con Peacock e DeJohnette. Di fatto il precedente fu solo rimandato e si materializzò nel novembre 1977, in occasione dell’incisione di Tales of Another, un eccellente disco nel quale però non si affrontavano standard e le composizioni erano tutte originali del contrabbassista, leader nella circostanza della formazione. Il passare del tempo da quella data con il conseguente percorso musicale lungo più di un lustro, il cambio di leadership e, soprattutto, di intenzioni progettuali del pianista, portarono i tre musicisti a inaugurare nel gennaio del 1983 un’avventura musicale molto diversa e per certi versi inattesa, dedicata ad un materiale compositivo così popolare come quello del Song americano. Tali intenzioni furono portate dal pianista all’attenzione degli altri elementi del gruppo la sera prima della registrazione a cena dove, a detta dello stesso Jarrett: “(…) mi ero preparato in anticipo a parlare di questa ‘non possessività’, del fatto che non avevo arrangiamenti e che non ci fosse alcuna idea precostituita su come affrontare queste cose”[3]:
Sta di fatto che il risultato ottenuto raggiunse vertici d’ispirazione, d’intesa telepatica e di creatività, a detta dei protagonisti, prossimi all’estasi. Basterebbe ascoltare anche solo l’iniziale The Meaning of The Blues per averne conferma. La versione del trio risulta ancora oggi tra le più convincenti presenti in discografia jazz, oltre che un brillante inizio. Si tratta di una bellissima canzone costruita sulla tonalità di Re minore, la cui melodia è incentrata proprio sulla tonica, che Jarrett prende come punto di riferimento per lo sviluppo del brano usandola da naturale preludio. Sin dalle prime battute il pianista fissa il clima dell’esecuzione, dando una lettura priva di sterili tecnicismi e ricca di grande espressività, generando quell’effetto sospeso e, per così dire, quel ”respiro” tipico del miglior jazz, grazie anche al fondamentale contributo nella circostanza del contrabbasso di Gary Peacock. L’interplay perfetto e la fresca “voglia” di suonare insieme dei tre musicisti paiono emergere da subito e in tutta la loro forza.
Al di là di tutto questo, cos’è che ha reso quel progetto e in particolare quelle registrazioni iniziali così particolari e riuscite, tanto da essere considerate da molti dei piccoli capolavori? E dire che si trattava del materiale musicale in assoluto più suonato e più sfruttato nel jazz. Che cosa distingueva quelle versioni dalle molte altre già prodotte anche da grandi personaggi del jazz e perché hanno poi avuto un così ampio riscontro di pubblico?
A tal proposito e per prima cosa, occorrerebbe evidenziare che Jarrett è una delle figure della musica improvvisata che ha saputo leggere il jazz e il suo repertorio, ben oltre l’ortodossia del suo Canone, ossia da un punto di vista più estensivo, molto personale ma legato più all’intero spettro dell’esperienza musicale americana. “Che Jarrett vanti infatti un successo non solo legato al pubblico del jazz è cosa quasi ovvia da constatare, proprio perché persino in un ambito linguistico apparentemente ortodosso come quello della ri-composizione degli standard egli inserisce una serie di connotazioni che esulano dalla comune conoscenza jazzistica, per librarsi trasversalmente in un itinerario enciclopedico della musica americana che espone un numero incredibilmente alto di referenti”[4]. Per certi versi Jarrett è da considerare un tipico prodotto di quell’esperienza, formatasi da quel complesso intreccio di culture ed etnie che si sono dovute confrontare e miscelare sul comune territorio americano in alcuni secoli di inevitabile scambio e condivisione, riuscendo progressivamente a definire linguaggi innovativi e nuovi modi di intendere la musica. Perciò l’insistito tentativo di collocarlo all’interno del canone jazzistico e dell’esclusiva esperienza afro-americana ha spesso creato una serie di incomprensioni e confronti impropri con altri pianisti del jazz che hanno affrontato in carriera il medesimo materiale degli standard. Nell’esperienza e nella carriera musicale di Jarrett si ritrovano la profonda conoscenza della musica colta europea (studiata sin da bambino) e americana, del blues, del gospel, del ragtime, del barrel-house, dell’honky-tonk, (si pensi anche solo all’impressionante sintesi pianistica operata nell’esecuzione di In Front in Facing You), ma anche la spiritualità e l’innodia protestante americana, le ballate, il country, il rock, e quant’altro di citabile e fagocitabile dalla sua voracissima mente musicale. Proprio questo enciclopedismo e l’eterodossia di approccio, uniti a una non trascurabile qualità narrativa del suo suonare sono forse gli elementi principali legati al diffuso riscontro ottenuto. Jarrett con il trio sembra quasi voler narrare in musica l’America e i suoi sentimenti. L’aspetto del raggiungimento dello stato di grazia, la familiarità con l’estasi (evidenziata in diverse interviste dagli stessi protagonisti del progetto) e la capacità di comunicarli tramite una qualità rara da riscontrare anche tra i più grandi improvvisatori del jazz, ossia quella opportuna scelta delle note capace di generare il cosiddetto “canto” e di attribuire al proprio strumento quella “cantabilità“ che hanno insieme saputo raggiungere un pubblico di fruitori ben oltre lo specifico ambito del jazz.
In questo senso, e in particolare, i frequenti confronti critici con Bill Evans e il suo magistrale lavoro su analogo materiale sono molto meno scontati e centrati di quanto possa apparire in prima istanza. L’idea che lo Standard Trio fosse una prosecuzione del trio di Bill Evans è ancora convinzione di molti e appariva all’epoca delle prime pubblicazioni del trio un riferimento quasi imprescindibile, pensando anche alla prematura scomparsa del pianista di Plainfield, avvenuta poco più di due anni prima, dopo aver lasciato quel genere di formazione a vertici massimali di perfezione formale e approfondimento musicale. Inoltre, la scelta di due musicisti che avevano suonato entrambi con Evans (Peacock in Trio ’64 e DeJohnette in Bill Evans at The Montreux Jazz Festival) sembrava ben più di un indizio. In realtà, solo in alcuni dettagli e nemmeno fondamentali si possono associare le due formazioni in modo così automatico. Innanzitutto, Bill Evans non è mai stato uno dei riferimenti pianistici prediletti da Jarrett e per varie ragioni. Con il trio di Bill Evans ha forse condiviso inizialmente alcune (limitate) scelte di repertorio (I Fall in Love Too Easily, Never Let me Go, In Love In Vain, When i Fall in Love) e forse una comune influenza pianistica risalente a Nat King Cole e in parte a Lennie Tristano, ma nel pianismo di Jarrett si colgono le più avanzate influenze di Paul Bley, tra tonalità e atonalità, specie in Inside Out e Always Let Me Go (e di conseguenza Ornette Coleman, influenza del tutto assente nella musica di Evans che è pianista sostanzialmente tonale), di Ahmad Jamal (e non solo per la splendida versione di Poinciana che ne riprendeva esattamente l’arrangiamento del pianista di Pittsburgh), ma anche di Dave Brubeck (specie sul piano armonico e per il gusto di produrre code ai brani con l’utilizzo talvolta di ostinati, spina dorsale dei cosiddetti vamp) e, più in là, l’uso parco e spiccatamente ritmico della mano sinistra, simile a quello dettato da Wynton Kelly (si ascoltino ad esempio Bye Bye Blackbird, Four, o It Could Happen To You e Autumn Leaves da Tokyo ’96), o ancora di Bud Powell, specie nei molti standard jazz provenienti dal be-bop, affrontati per lo più dalla seconda metà degli anni ’90, (Johns’ Abbey, Bouncing with Bud, Hallucination, Shaw’nuff, Groovin’ High, Scrapple From the Apple etc). Evans poi fa ampio uso di block chords nei suoi assolo, molto più di rado invece in quelli di Jarrett.
C’è poi un elemento quasi dirimente di diversità tra i due: in Bill Evans non si scorge una sola nota di gospel pressoché in tutta la sua discografia, al contrario di quella di Jarrett, che manifestava anche una maggiore confidenza col blues e, conseguentemente, un suo personale punto di vista nel “leggere” certe radici musicali (e religiose) proprie dell’esperienza africana-americana. Tanto per chiarire: Bill Evans non avrebbe mai potuto produrre una versione così “gospel-soul” di Georgia on My Mind (da Standard II), o così “funky” di God Bless The Child e di Things Ain’t What They Used To Be (da The Cure) come quelle registrate da Jarrett.
Il lavoro sul Song dei due pianisti presentava poi un approccio molto diverso: Bill Evans aveva approfondito la canzone popolare più dal punto di vista armonico (si pensi anche solo al suo studio sulle sostituzioni, sul voicing e sui rivolti degli accordi), mentre Jarrett pareva orientato (e la tendenza si fece progressivamente sempre più evidente nel corso dei decenni) all’esplorazione “melodico-ritmica” più che armonica, poiché egli è in realtà un grande inventore di melodie, spesso votato più all’improvvisazione motivica che a quella basata su scale e accordi dei brani. Basterebbe riascoltare il suo lungo solo in Too Young To Go Steady (uno dei vertici esecutivi del trio) in cui sembra ricordare l’approccio “motivico” di un Sonny Rollins (ma si può risalire persino alle parafrasi di Louis Armstrong), o quello più breve di I Fall in Love Too Easily, ma non sono certo gli unici esempi citabili. Nelle due versioni gioiello di Autumn Leaves (sia quella contenuta in Still Live, sia quella in Tolyo ’96), ma anche in Billiie’s Bounce (sempre Tokyo’96), o in I Love You (The Out of Towners) a un certo punto dell’assolo arriva a non utilizzare a lungo la mano sinistra, procedendo con la destra in frasi improvvisate a mo’ di tromba o sassofono, garantendosi una maggiore libertà improvvisativa, e assumendosene i relativi rischi. Basterebbe confrontare le versioni di Autumn Leaves con quella di Evans contenuta in Portrait in Jazz per rendersi conto della notevole differenza stilistica e interpretativa. In questo senso si potrebbe persino affermare che Jarrett in improvvisazione non pensi da pianista (certo non si può dire lo stesso di Bill Evans, ma nemmeno di un Brad Mehldau, giusto per citare un pianista contemporaneo che, riprendendo in parte il lavoro di Jarrett sul Song e estendendolo a un repertorio più aggiornato, ha fatto dello scavo armonico un suo tratto distintivo), cosa peraltro da lui stesso affermata in alcune interviste. Jarrett, Peacock e DeJohnette hanno dovuto semmai farsi carico di una pesante, ma anche stimolante, eredità artistica che rischiava di produrre uno stallo in tale ambito, analogamente a quanto era successo ai quartetti di sax tenore dopo l’improvvisa morte di Coltrane. Il problema sembrava essere per tutti i pianisti dell’epoca come riuscire a “superare” l’approccio billevansiano a quel genere di formazione. Lo Standard Trio parve riuscirci sin dai suoi esordi.
Un altro elemento che lo differenzia non solo da Evans, ma anche un po’ da tutti gli altri pianisti della sua generazione, è legato alla ristrutturazione formale delle canzoni, introducendo con una certa regolarità e in modi sempre diversi delle lunghe intro e ancor più prolungate code ai brani, intese non come classiche cadenze finali, ma lunghe improvvisazioni che si manifestano come un prolungamento spontaneo del flusso musicale che Jarrett non intende interrompere, lasciandolo scorrere sino al suo naturale esaurimento. Spesso queste sono basate su ostinati (vamp basati solitamente su un paio di accordi iterati) che costituiscono veri e propri marchi di fabbrica del pianista, capaci di personalizzare completamente le sue versioni. Il tutto, evitando di seguire schemi rigidi o precostituiti, se si pensa che anche stesse canzoni suonate in situazioni concertistiche differenti, seguono approcci introduttivi diversi. Ad esempio, Stella by Starlight del febbraio 1985, contenuta nel video Standards, produce una breve introduzione basata quasi esattamente sul tema, mentre in quella (gioiello) di luglio contenuta in Standards Live, l’intro è più lunga e articolata, prendendo il tema e relativi accordi sottostanti come spunto per improvvisare una linea melodica che suona diversa. Analogamente si può dire delle due versioni di You Don’t Know What Love Is, confrontando quella contenuta in Standard II con quella presente nel terzo volume delle registrazioni al Blue Note di New York nel 1994.
Facendo un’analisi più approfondita si notano, a grandi linee, tre tipologie di introduzione ai brani: 1) costruendole partendo dall’inciso della canzone (tipicamente nel caso di canzone di struttura AABA). 2) utilizzando il ritornello della canzone, o la struttura accordale sottostante, o l’intero tema, con eventuali sostituzioni di accordi. 3) oppure utilizzando nuove linee melodiche composte e/o improvvisate dal pianista, poi raccordate alla canzone originaria. Rare eccezioni alla regola, nel senso di costruire una intro più articolata tra le modalità indicate, si ha ad esempio nel caso di Georgia on My Mind che, in dettaglio, esordisce con un nuovo tema di ispirazione gospel per poi riprendere l’inciso prima di enunciare il ritornello, utilizzando perciò una combinazione delle modalità 1) e 3). In tutti gli altri casi, il pianista esordisce direttamente enunciando il tema.
Al primo gruppo appartengono gli esempi di: All The Things You Are, In Love in Vain, (versioni del 1983), Too Young To Go Steady (1985), Blame It On My Youth (1986, dal video Standard II), Smoke Gets in Your Eyes (1989), How Long Has This Been Goin’ On, Imagination e Autumn Leaves (1994, tratte dalle esibizioni al Blue Note di New York), The Song Is You (2001).
Nel secondo gruppo si individuano: So Tender (1983), I Fall in Love Too Easily (1983), Stella By Starlight (1985), I Fall in Love Too Easily (versione video del 1993), Days of Wine And Roses, My Romance, Time After Time e You Don’t Know What Love Is (tutte del 1994 al Blue Note), It Could Happen To You e My Funny Valentine (1996, da Tokyo ’96), The Masquerade Is Over (1998). I Can’t Believe That Your In Love With Me (2001). My Foolish Heart (2001), Stars Feel On Alabama (2009).
Al terzo appartengono invece: I Wish I Knew, Late Lament (1985, dal video Standard I), My Funny Valentine (1986), You Don’t Know What Love Is (1986, da Standard II), la celebre intro bachiana di All The Things You Are (1989, da Tribute), Dedicated To You (1989), Body And Soul (1990), I’m Old Fashioned, Everything Happens To Me, In The Wee Small Hour Of The Morning, On Green Dolphin Street, For Heaven’s Sake (1994, tutte tratte dal box Blue Note), Smoke Gets In Your Eyes (2001), Solar (2009).
Alcuni brani più battuti di altri in carriera meriterebbero poi un’analisi a parte e più dettagliata per varietà nel trattamento e fantasia improvvisativa in assolo. Il caso delle versioni di Autumn Leaves è in questo senso esemplare, soprattutto se si considera la relativa semplicità della sua struttura armonica. Del tema esistono ben cinque versioni ufficiali, tutte piuttosto lunghe (da un minimo di circa 8 minuti a un massimo di oltre 26 minuti) e registrate rispettivamente nel 1986 in Still Live, al Blue Note di New York nel 1994, in Tokyo’96, in After The Fall nel 1998 e in Up For It nel 2002 (concerto a Juan Les Pins al quale ho peraltro potuto direttamente assistere). E’ interessante evidenziare gli elementi strutturali comuni e le differenze. Con l’eccezione di quella del 1986 che parte direttamente dal tema, tutte le altre possiedono un’intro basata sull’inciso. Sono tutte delle brevissime introduzioni al tema, con l’eccezione di quella ardita registrata al Blue Note, lunga più di quattro minuti, dove la melodia dell’inciso viene elaborata procedendo su una sorta di digressione armonica. Tutte sono invece dotate di una coda: particolarmente lunghe e basate su un vamp quelle del 1994 (quasi metà dei 26 minuti sono occupati dal flusso improvvisato della coda sul cui ostinato alla fine viene sorprendentemente ripreso il tema) e del 2002, più brevi negli altri casi, con una citazione particolare di Speak Low in quella del 1996. Gli assolo più riusciti sull’intera estensione della canzone sono senz’altro quello di Tokyo’96 e per altri versi quello presente in Still Live di ispirazione quasi bachiana, in corrispondenza peraltro a un periodo di studio in vista dei suoi coevi lavori “classici” sulle pagine del Cantor.
A maggior ragione si può apprezzare la fantasia melodica del pianista in un tema divenuto presto una sorta di sigla del Trio, ossia When i Fall in Love (ad oggi ben sei versioni pubblicate in: Still Live, Standard II, Box Blue Note, After The Fall, Whisper Not, Inside Out), dal 1998 in poi utilizzato come brano da proporre sistematicamente nei bis dei concerti e che ha avuto per Jarrett la stessa funzione che ha avuto Nardis per Bill Evans, con la differenza che quest’ultimo ne ha ricavato una grande occasione di scavo armonico-strutturale, mentre Jarrett ne ha fatto una occasione di variazione melodica sia nell’esposizione del tema (con minime, sempre azzeccate sostituzioni melodiche), sia in assolo, coerentemente con le relative diverse impostazioni di entrambi nell’affrontare il Song americano, già evidenziate in precedenza. Il celebre tema di Victor Young risulta di conseguenza e di gran lunga il più battuto nei tour concertistici della formazione, seguito da I Thought About You, il monkiano Straight No Chaser (anche questi spesso suonato nei bis o in conclusione ai concerti), One For Majid (un blues di Pete LaRoca tratto da Sing Me Softly of The Blues, di Art Farmer) e On Green Dolphin Street. Da notare tra questi titoli anche la presenza del già citato I’m Going To Laugh You Right Out Of My Life, entrato nel repertorio concertistico del trio solo dal 2001.
Dei suddetti centottanta standard affrontati, una sessantina sono stati suonati di rado o una sola volta, il che si potrebbe spiegare o con versioni ritenute pressoché definitive ed ottenute al primo colpo (potrebbe essere il caso di Moon And Sand, In Love in Vain, With A Song in My Heart, When I Wish Upon A Star, Love Letters, Body And Soul, Dedicated To You, How Long Has Been This Goin’ On, Close Your Eyes, I’ll Close My Eyes, In The Wee Small Hours of The Morning, My Romance, You’d Be So Nice To Come Home To, Time After Time, The Days Of Wine And Roses, Santa Claus Is Comin’ To Town, Groovin’ High), oppure con temi poi non considerati adatti o ai quali il pianista ha ritenuto di non dover o saper aggiungere altro di personale (ad esempio, Delaunay’s Dilemma, The Washigton Twist, Young and Foolish, Sweet And Lovely, Mona Lisa, Nardis, What A Difference A Day Makes, I’m Getting Sentimental Over You, Just Friends, Poor Butterfly, Strollin’, A Foggy Day, My Man’s Gone Now, Lover, Softly As In A Morning Sunrise, Blue Monk, As Time Goes By, Fascinating Rhythm).
A dimostrazione dell’enciclopedismo del pianista si individuano anche scelte di canzoni molto particolari o raramente proposte in ambito jazzistico. Temi come Love Is A Many Splendored Thing, Little Man You’ve Mad A Busy Day, It’s A Lonesome Old Town, Life Is A Bowl of Cherries, It’s All In The Game (proposto però in piano solo) ma anche temi molto popolari (e un po’ dolciastri, per il vero) come La Vie en Rose, You Belong To Me o Answer Me My Love, suonati per lo più gli ultimi anni dal Trio.
Riguardo agli autori del Great American Songbook e degli standard jazzistici scelti, non si individuano particolari preferenze del Trio, lasciando l’impressione di averli toccati pressoché tutti. Noto anche come “American Standards”, esso rappresenta il Canone delle più importanti e influenti canzoni popolari americane e degli standard jazz del XX secolo. Sebbene diversi studi siano stati pubblicati sotto quel genere di titolo, esso non si riferisce ad alcun libro o elenco specifico di canzoni. Ad esempio, nello studio del 1972 di Alec Wilder (lui stesso inseribile nel suddetto elenco di songwriters) American Popular Song: The Great Innovators, il compositore classifica gli autori delle canzoni più popolari e durature dagli anni ’20 agli anni ’50 che sono state create per Broadway e i film musicali di Hollywood e che sono state registrate ed eseguite da un gran numero di cantanti, formazioni strumentali e musicisti jazz. Sono compresi perciò i temi di George Gershwin, Cole Porter, Richard Rodgers, Irving Berlin, Jerome Kern, Harold Arlen, Johnny Mercer, Duke Ellington, Vincent Youmans, Vernon Duke, Hoagy Carmichael, Harry Warren, Arthur Schwartz, Isham Jones, Jimmy McHugh, Fred Ahlert, Ray Noble, John Green, Jimmy Van Heusen, Victor Young e altri ancora. Wilder considerava il limite temporale del 1950 ritenendo l’era del Great American Songbook sostanzialmente conclusa con l’avvento del rock & roll. Egli era tra l’altro autore ben noto e inizialmente molto frequentato da Jarrett, se si pensa a titoli come Blackberry Winter, Moon and Sand, The Wrong Blues, While We’re Young, rintracciabili nella sua discografia ufficiale, ma anche Who Can I Turn To, o I’ll Be Around, in quella non ufficiale dello Standard Trio.
Riguardo al modo di interpretarli, si intuisce chiaramente che Jarrett col trio fa riferimento (molto correttamente) sia al testo e al suo mood espressivo, sia a precise versioni cantate. Lo stesso pianista ha avuto modo di citare in intervista, ad esempio, Nancy Wilson (Never Let Me Go, Little Girl Blue) e pare evidente in altri casi l’ascolto di Frank Sinatra (Only The Lonely, Guess I’ll Hang My Tears Out to Dry), Nat King Cole (Mona Lisa, I’m Going To Laugh You Right Out Of My Life), Anita O’Day (The Ballad Of All Sad Young Men), Shirley Horn (You Won’t Forget Me) etc.
Circa gli standard provenienti dagli autori del jazz, anche qui Jarrett dimostra di attingervi in modo ampio: Duke Ellington, Billy Strayhorn, Charlie Parker, Thelonious Monk, Bud Powell, John Lewis, Dave Brubeck, Paul Desmond, Benny Golson, Miles Davis, Dizzy Gillespie, J.J. Johnson, Clifford Brown, Sonny Rollins, ma anche Fats Waller, George Shearing, Jimmy Giuffre, Gerry Mulligan, Nat Adderley, Horace Silver, Oliver Nelson, Jaki Byard e John Coltrane.
Ascoltando attentamente la produzione dell’ultimo decennio, si nota che dopo il 2002 ha fatto capolino un progressivo appannamento creativo, per certi versi inevitabile, arrivando ad approssimarsi alla routine, anche in relazione al progredire dell’età e dei relativi problemi di salute, in particolare del pianista e di Gary Peacock, l’elemento più anziano della formazione. Non a caso l’ECM ha pubblicato ad oggi un solo concerto oltre quella data, con un’ultima punta creativa raggiunta intorno al 2001, di cui esistono già ben quattro pubblicazioni (Always Let me Go, The Out of Towners, My Foolish Heart, Yesterdays, alle quali si potrebbe aggiungere l’esibizione al Teatro Malibran di Venezia cui ho potuto assistere). Tra l’infinito materiale a disposizione di ECM (la casa discografica tedesca registrava ogni concerto del trio) l’unico lavoro pubblicato dopo il 2002 è infatti Somewhere, dell’estate 2009, intitolato al celebre tema di Leonard Bernstein tratto da West Side Story, ovvero un altro importante pezzo di storia musicale americana che non poteva certo mancare in repertorio.
Riguardo alle prove maiuscole del Trio e alle relative versioni capolavoro citabili, se ne possono individuare diverse in base al proprio gusto, distribuite per lo più nelle incisioni prima dello stop forzato dovuto alla malattia del pianista. Ci si potrebbe persino riferire a interi dischi o concerti. Oltre a quelle eventualmente già evidenziate, non si possono non citare le prime due versioni di All The Things You Are (peraltro molto diverse tra loro anche dal punto di vista della loro riformulazione), entrambe le versioni di Never Let Me Go (1983 e 1996), quelle di Things Ain’t What They Used To Be, che mostrano l’abilità sul blues del pianista, o la struggente Ballad of The Sad Young Men, il brillante assolo su You Took Advantage of Me al festival di Montreux (2001), preso in partenza in stile stride piano. O ancora l’ardita, lunga versione di My Fooolish Heart, tema quasi intoccabile per un trio successivo a quello leggendario di Bill Evans che lo affrontò al Village Vanguard di New York nel 1961. Tuttavia, una nota di eccellenza la si deve attribuire a quella sorta di monumento discografico allo standard e alla canzone americana prodotto dal Trio nel 1994 in tre serate di ingaggio al Blue Note di New York. A tal proposito, Jarrett ha scritto nelle note al libretto allegato: “Qui è racchiusa ogni nota che abbiamo suonato per tre notti. Non c’è stato alcun taglio, né la scelta di una take a discapito di un’altra. Questo genere di cose si fanno dopo che i musicisti sono morti o invecchiati, oppure se hanno cambiato in qualche modo direzione. E quando ciò avviene molto spesso è più per il valore del documento che per la qualità intrinseca della musica”. Si tratta, infatti, di una prova maiuscola ed enciclopedica, della durata complessiva di circa sette ore, in cui il Trio svaria brillantemente su un materiale vasto, composto da ballate, canzoni, classici del bop, originals e lunghe code che sfociano in altri temi improvvisati. La qualità media delle esecuzioni è alta, l’intesa è perfetta, con rari cenni di inevitabile stanchezza per una tale maratona musicale. Diversi sono i brani da incorniciare e presenti in tutti i volumi in cui è divisa la registrazione, con evidenza per il livello raggiunto tra il secondo set del sabato (vol. IV) e il primo della domenica (vol. V), dove spiccano, in particolare, una trascinante versione di I’ll Close My Eyes e un’ispirata Imagination, nell’uno, l’immortale My Romance e uno spettacolare You’d Be So Nice To Come Home To, nell’altro. In altri volumi si fanno preferire: il gershwiniano How Long Has This Been Going On e Lament, (vol.I), In The Wee Small Hours of The Morning, dall’intimo preludio meditativo (vol. II); nel volume III spiccano invece, Days of Wine And Roses e l’ennesima riuscita versione di When I Fall In Love. Infine For Heaven’s Sake, nel volume VI, ma si rischia di tralasciarne altre.
Un’ultima annotazione prima di concludere lo scritto. La critica ha sempre parlato di rapporti paritetici nel trio, cosa innegabile se si considerano il valore oggettivo dei singoli e l’intesa raggiunta da subito e progressivamente arrivata a livelli mesmerici (si pensi ad esempio a dischi come Always Let Me Go), ma vera sino ad un certo punto. Per quanto il contributo e la perizia strumentale di Gary Peacock e di Jack DeJohnette siano stati fondamentali alla riuscita del progetto, il leader della formazione rimane il pianista. Ne può costituire prova anche solo l’ascolto del concerto in solitudine fatto tutto di standard in occasione del suo 100° concerto giapponese (Solo Tribute. 1987), da giudicare forse la sua migliore prestazione in assoluto sugli standard per qualità e creatività della musica prodotta in quella circostanza.
Al di là delle critiche anche feroci verso il pianista, per lo più condizionate dalla antipatia per la sua gestualità sul palco e dai suoi irritanti atteggiamenti verso il pubblico, per le sue bizze caratteriali e per le sue esigenti clausole contrattuali per l’effettuazione dei concerti, questa formazione che per circa trent’anni ha vagato intorno alla canzone americana rappresenta qualcosa che va persino oltre il jazz e la sua storia, poiché ha saputo dipingere, tramite l’utilizzo di un maturo linguaggio improvvisato, un originale affresco massimamente rappresentativo della grandezza cui ha saputo giungere la cultura musicale americana.
Riccardo Facchi
[1] Dalla biografia di Ian Carr
[2] Dalla biografia di Ian Carr
[3] Dalla biografia di Ian Carr
[4] Estratto scritto in rete da Gianni M.Gualberto su It.arti.musica.jazz.