L’ anima Jazz di Stevie Wonder – 1a parte

La chiusura in rete del sito Free Fall Jazz mi ha suggerito di ripubblicare alcune cose (spero ancora interessanti) che avevo fatto lì pubblicare anni fa, in modo da rinforzare l’archivio già nutrito di saggi e articoli accumulati in tre anni e mezzo dal presente blog. Uno di questi era un lungo saggio su Stevie Wonder che ho deciso di riproporre qui a puntate poiché discretamente lungo ma anche arricchito da appendici e link discografici da poter consultare. il tema Stevie Wonder veniva affrontato in rapporto all’affascinante e articolato mondo della musica popolare e della Black Music, di cui il jazz, perlomeno nella sua maggioritaria componente afro-americana, ne fa pienamente parte. Un mondo che dovrebbe essere esplorato in parallelo al jazz anche in ambito di musicologia e critica jazzistica, in quanto utile a comprendere meglio certe dinamiche del percorso evolutivo del jazz, al di là della non così trascurabile valenza della musica, spesso inspiegabilmente sottovalutata. 

Come già avvertivo all’epoca lo scritto dovrebbe comunque essere considerato un “work in progress”, in quanto l’intreccio non solo musicale attorno al mondo di Stevie Wonder  è assai più complesso e articolato di quanto non appaia in prima istanza.

Buona (video)lettura.

Riccardo Facchi

Stevie_Wonder_1973Ti piace Stevie Wonder? Sì, certo, ma è pop, non jazz”. Quante volte vi è capitato di ascoltare un dialogo del genere tra gli appassionati? Personalmente molte anche perché pop è spesso considerato sinonimo implicito di musica di consumo, cioè in pratica di cosa artisticamente orrenda.

Già, peccato che Wonder è semplicemente un genio musicale acclarato, non c’è jazz o pop che tenga, basta semplicemente ascoltarlo senza pregiudizio, scorrendo la sua ragguardevole discografia. Peraltro, decine di sue canzoni sono diventate degli standard del jazz, interpretati da artisti del calibro di Freddie Hubbard, Buddy Rich, Thad Jones, Ahmad Jamal, Art Pepper, Sonny Rollins, R. Roland Kirk, Slide Hampton, Ella Fitzgerald, Carmen McRae, Kurt Elling, solo per citarne alcuni tra i moltissimi, mentre altri grandi del jazz, da Dizzy Gillespie a George Benson, ne hanno condiviso anche progetti o concerti. Herbie Hancock, che ha periodicamente interagito con lui in alcuni lavori discografici (basti pensare alla sua partecipazione all’incisione di As in ‘Songs In The Key Of Life’, o alla scrittura delle liriche di ‘Chan’s Song‘, contenuto nella colonna sonora di ‘Round Midnight’ di Bertrand Tavernier) e scambiato una influenza reciproca nel suo periodo funky con gli Head Hunters, a metà anni ’70, disse di lui: E ‘una pop star che praticamente ogni musicista jazz dovrebbe prendere sul serio. Sia come cantautore intelligente, che come solista di talento, al pianoforte e all’armonica. Avendo interagito con lui molte volte, so che ha il più incredibile orecchio di qualsiasi musicista con cui abbia mai lavorato. Egli ascolta ciò che si suona e lui risponde con sorprendente agilità.”(1). Ai musicisti che utilizzava per la sua band richiedeva sempre, non a caso, una specifica sensibilità jazz, facendogli suonare in provino standard di Ellington, Gershwin, Davis e Coltrane. Allora, perché da noi si fanno dei distinguo nel riconoscere il valore di questo grande musicista tanto frequentato e rispettato dai jazzisti di tutto il mondo?

Le ragioni sono probabilmente diverse e affondano le proprie radici in un diffuso e distorcente approccio ideologico risalente agli anni ’70, abbastanza settario verso la musica popolare americana, che ancora oggi persiste nel nostro paese e che si caratterizza per una conoscenza parziale e pregiudiziale verso di essa, che ha portato per decenni a includere alcune musiche in un non meglio specificato ambito artistico, per escluderne altre, senza una giustificazione davvero plausibile. Oltre a ciò, i jazzofili manifestano un uso eccessivo di classificazioni e categorie (a volte anche prima di accingersi all’ascolto) per descrivere la musica, in modo da mettere ogni autore in qualche cassetto della propria memoria, facendo poi derivare giudizi, sia in positivo che in negativo, che si rivelano non di rado superficiali. Musiche che certo meriterebbero approcci meno schematici e semplicistici e più rispettosi della personalità di ciascun musicista. Jazz classico, tradizionale, mainstream, modern mainstream, cool, bop, hard bop, soul, rhythm & blues, fusion, funk, acid, free, creativo e chi più ne ha più ne metta, sono alcuni nomi e le categorie di comodo che hanno e hanno avuto lo scopo di fornire un orientamento di massima, ma anche di determinare fuorvianti pareri.

E’ un approccio che permette di darsi dei riferimenti, anche di una loro utilità didattica, ma che ha il difetto di adattarsi male di fronte a musicisti, come Wonder, poi non così rari e spesso grandissimi, che in realtà hanno percorso la loro carriera in termini musicalmente trasversali. Rimanendo in ambito strettamente jazzistico, basterebbe citare in tal senso geni quali Louis Armstrong, o Duke Ellington. E come classificheremmo oggi la musica di un Charles Mingus, o di un Miles Davis? D’altro canto, e forse anche in reazione a questo, oggi si assiste ad una tendenza opposta, ossia a parlare di musica oltre i generi, trasversale agli stili e di conseguente inutilità d’uso di certe categorie descrittive, spesso però facendolo con dubbia cognizione di causa. Il che, se da un lato è la logica conseguenza del processo di globalizzazione culturale in corso, dall’altro ha portato e porta a eccessive semplificazioni e a fraintendimenti, circa le peculiarità idiomatiche che caratterizzano comunque, piaccia o no, ancora oggi i diversi generi musicali.

Per una porzione maggioritaria degli addetti ai lavori, il jazz è ormai considerato un linguaggio universale, che, a mo’ di diaspora, si è espanso in tutte le parti del mondo ed è a disposizione di qualsiasi musicista intenda studiarlo ed utilizzarlo, declinandosi in diversi modi nelle aree geografiche e culturali in cui si è diffuso. In questo senso, ad esempio, si è parlato e si parla oggi di jazz europeo come una evoluzione rispetto a quello americano, in termini continentali quindi, come anche è possibile fare con quello africano piuttosto che asiatico, o medio orientale. Addirittura si è arrivati a specificare il jazz in termini nazionali, o per aree geografiche: nordico, balcanico, inglese, francese, russo, polacco, giapponese, italiano e quant’altro, ossia nella molteplicità di declinazioni, anche quando, e la cosa succede non di rado, il genere di musica prodotta pare sempre più distante dalle peculiarità di base e di partenza del jazz, la cui radice linguistica principale rimane, checché se ne dica, americana e afro-americana, in particolare.

product_9782075089128_195x320Tralasciando volutamente di entrare nel merito della polemica su certo nazionalismo musicale afro-americano e sulla cosiddetta Black American Music (B.A.M.), sostenuta qualche anno fa da diversi musicisti afro-americani (ma che oggi pare già superata), mi sembra tuttavia sempre più chiaro, dopo diversi decenni di ascolto e di “rimasticazione” del materiale musicale a disposizione, che se proprio si deve utilizzare una qualche forma di classificazione, questa dovrebbe riferirsi al più a grandi aree culturali e etniche di provenienza. In questo senso, una considerevole fetta del jazz, perlomeno quella che si è sviluppata negli Stati Uniti nel secolo scorso e che continua a progredire oggi, mi appare sempre più solo come una parte, seppur importante, di quella che si potrebbe definire semplicemente, più in generale e trasversalmente ai generi, come “Black Music”.

Certo, la definizione non è nuova ed è forse un po’ come scoprire l’acqua calda (sicuramente agli occhi di un Miles Davis risulterei pateticamente pleonastico, visto che per tutti gli anni ’70 ha perseguito, peraltro non il solo, anche se il più noto in ambito jazzistico, un’idea del genere, avendo contro pressoché integralmente la critica jazz del periodo), ma dico questo, perché spesso mi è capitato di domandarmi se musicisti come, ad esempio, Ray Charles, Aretha Franklin, James Brown, lo stesso Stevie Wonder, ma persino Earth Wind & Fire, sino a giungere a certo Michael Jackson, potessero in qualche modo relazionarsi direttamente al jazz, chi più chi meno.

La risposta che mi sono dato, a distanza di anni e al di là di possibili analisi in dettaglio delle relative opere, è che se c’è chi oggi non ha problemi ad accettare termini come “jazz nordico” per una musica di fatto assai derivativa, praticamente priva di riferimenti alle radici fondanti del jazz, quali blues, gospel, swing, fonti musicali dalla caratteristica pronuncia e dall’inconfondibile feeling, a maggior ragione non bisogna farsene alcuno nel considerare molto più prossime al jazz musiche che invece hanno condiviso e condividono pienamente tali radici e molte delle modalità esecutive, come R&B, Soul, Funk e persino il più recente hip-hop. D’altronde, un altro tipico errore tra i jazzofili è quello di pensare che in ambito di musiche africano-americane tutto parta dal jazz e approdi al jazz e che gli altri generi più popolari, considerati, non sempre a ragione, musicalmente poco sofisticati, siano in qualche modo da esso derivati, depauperandolo quasi sempre del suo carattere artistico e musicale più interessante. Di fatto si tratta, se non di un falso, di una semplicistica forzatura, poiché nei fatti è quasi sempre avvenuto il contrario: è il jazz che ha preso da altre fonti musicali disponibili nel coacervo di culture ed etnie presenti nel continente americano, realizzando certo risultati artisticamente tra i più interessanti, grazie alla sua peculiarità di musica sincretica, ma sarebbe sbagliato pensare che ne abbia posseduto e ne possegga l’esclusiva.

imageGli è che il jazz, contrariamente a come è vissuto per lo più in Europa, dove è visto in sostanza come una musica per ristrette élite di musicisti ed operatori del settore e di pochi appassionati in grado di comprenderla, è ed è sempre stata in America una musica assolutamente popolare, che condivide con le altre aree espressive della suddetta Black Music (e non solo), la ricerca di una condivisione, di una identità e di un riscontro con larghi strati di uditorio, perciò tutt’altro che elitaria. Una musica che mette al centro della sua attenzione non tanto la complessità armonica, ma quella ritmica e una impareggiabile forza espressiva, che ha costruito la sua grande arte in più di un secolo attorno al concetto di “canzone”. Rifiutare perciò l’apparente semplicità della forma canzone, dalla quale il jazz si dovrebbe affrancare per assumere una dignità in grado di parificarlo alla grande tradizione compositiva europea, come certa musicologia jazz pare sottintendere da un po’ di tempo a questa parte, significa di fatto alterarne la storia, negarne i risultati e produrre, come infatti sta succedendo con certa musica improvvisata europea odierna da esso derivata, un qualcosa di totalmente diverso, che mantiene in comune col jazz, in modo ormai quasi esclusivo, il solo strumento dell’improvvisazione.

Tutto questo vale anche pensando in termini di jazz moderno, laddove la rivoluzione del boppers e poi quella più radicale della generazione dei musicisti del Free aveva in qualche modo “intellettualizzato” il processo evolutivo e di sofisticazione del linguaggio musicale, rendendolo apparentemente arte per pochi, avvicinandosi così abbastanza involontariamente ad una concezione dell’arte prossima al sentire europeo. Responsabile di una certa deriva elitaria di tale stampo può essere semmai ritenuta la fase del post Free, con le avanguardie di Chicago e la musica creativa sviluppatasi a cavallo tra anni ’60 e ’70, i cui sviluppi odierni continuano ad essere minoritari, mantenendo una posizione subalterna in ambito di musiche afro-americane, nonostante un certo riscontro enfatizzato, più che altro a livello europeo. Proposte che da tempo sembrano aver perso la loro forza trasgressiva, appiattendosi su posizioni già battute, prossime alle avanguardie europee, perdendo di fatto le loro migliori peculiarità e gran parte delle loro istanze innovative.

Non a caso, in reazione alla progressiva perdita di pubblico del jazz verificatasi alla fine degli anni ’60 (determinata per la verità anche dalla crescita esponenziale del fenomeno Rock) molti jazzisti sin dai primi anni ’70 hanno cercato, con proposte presto bollate dalla critica dell’epoca come “commerciali”, un recupero del pubblico afro-americano con progetti musicali e discografici mirati allo scopo (si pensi anche solo alle proposte del periodo di grandissimi jazzisti come Cannonball Adderley, Donald Byrd, Freddie Hubbard, Herbie Hancock, solo per citarne alcuni molto noti, e più in generale alle proposte dei cataloghi delle etichette A&M e CTI, sotto la supervisione del noto produttore Creed Taylor), ottenendo risultati oggi ritenuti negli U.S.A. in buona parte da rivalutare e tutt’altro che disprezzabili, come invece si ritiene per lo più ancora oggi in Europa.

Non dimentichiamo poi, che il Bop esce in modo niente affatto discontinuo, come erroneamente narra la leggenda, dal periodo di massima popolarità jazzistica delle grandi orchestre swing. Praticamente tutti i grandi del genere, compreso Charlie Parker, forse l’anima più intellettuale del be-bop, con i relativi small combo, si sono formati musicalmente e sono fuoriusciti dalle big band di maggior successo, senza trascurare l’importanza seminale delle piccole formazioni goodmaniane di fine anni ’30 – inizio ‘40, con o senza Charlie Christian, uno dei precursori del linguaggio boppistico. Personaggi come Dizzy Gillespie e lo stesso introverso, pressoché autistico, Thelonious Monk sostenevano anche teatralmente sulla scena la ballabilità della loro musica e in qualche modo si dispiacevano della carenza di riscontro popolare per la stessa.

In un tale quadro, che meriterebbe un serio approfondimento in altra sede, e in questo senso, la figura di Stevie Wonder rientra perciò perfettamente e in qualità di assoluto protagonista, nell’alveo della suddetta Black Music, rappresentando in modo estremamente significativo, specie negli anni ’70, l’anima più marcatamente popolare, in versione aggiornata, rispetto a suoi stimati geniali precursori, come ad esempio Ray Charles, che di fatto ne è stato, sin da giovanissimo, sua fonte ispiratrice. Wonder è, infatti, pianista e cantante straordinario, come Charles, oltre che eccellente armonicista, e attinge a piene mani, in modo analogo al suo illustre referente, a quella tradizione Soul e R&B che utilizzava blues e gospel per esprimersi, misti a modalità esecutive tipicamente jazzistiche, soprattutto sul piano delle accentazioni ritmiche nell’enunciazione delle melodie, negli abbellimenti e nelle relative parafrasi, caratterizzando la propria identità musicale ed artistica con una vocalità unica, pressoché inconfondibile. Ma più di ogni altra cosa, Wonder è stato un grandissimo e prolifico compositore, anche di una certa insospettata complessità, come vedremo, per certi versi paragonabile persino a grandi icone della musica americana tutta, come Duke Ellington da un lato, o George Gershwin dall’altro, oltretutto frequentato dai jazzisti più di quanto non si possa immaginare in prima istanza.

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Stevie Wonder, nasce con il nome di Steveland Hardaway Judkins (prese poi il nome di Steveland Morris quando la madre si separò dal marito portando con sé i figli), a Saginaw, nel Michigan, il 13 maggio del 1950. Terzo di sei figli, nato prematuro e non vedente a causa di una retinopatia dovuta a difficoltà durante il parto, diviene permanentemente cieco nei primi giorni di vita per un errore ospedaliero subìto in incubatrice. Nonostante questo pesante e sfortunato handicap (sfortuna che lo perseguiterà in vita, ma alla quale saprà sempre reagire in termini gioiosi e vitali), Stevie dimostra prestissimo il suo enorme talento musicale. Nel 1954, si trasferisce con la famiglia a Detroit, dove inizia a cantare nel coro della chiesa. Suona l’armonica a soli cinque anni, prende lezioni di pianoforte a sei e quindi alla batteria a otto. A soli nove anni sa già suonare con buona proprietà piano, armonica e batteria. Non è un caso, dunque, se solo due anni dopo il talentuoso ragazzino fa il suo esordio in sala di registrazione. Nel 1961, infatti, Ronnie White dei Miracles lo presenta, tramite il talent scout Brian Holland, a Berry Gordy, il numero uno della Tamla-Motown (2), etichetta di punta della musica Soul e R&B, che gli fa subito firmare un contratto, cambiandogli il nome in “Little Stevie Wonder”, affiancandogli l’autore-produttore Clarence Paul (3) che lo tratterà come un figlio.

Nel 1962 escono perciò i suoi primi due album: The Jazz Soul Of Little Stevie, un assaggio di jazz orchestrale che evidenzia già l’abilità del multistrumentista, alle prese con piano, percussioni e armonica e Tribute To Uncle Ray, un omaggio al suo referente musicale prediletto, contenente una raccolta di grandi successi di Ray Charles. Le vendite sono scarse, ma Stevie non demorde e un anno dopo viene pubblicato il live The 12 Year Old Genius, che include una versione estesa della strumentale Fingertips, eseguita con l’armonica. Il singolo si rivela il suo primo successo discografico di una lunga serie in carriera. Segue nel medesimo anno With a Song in My Heart in cui Wonder affronta alcune pagine del repertorio di Broadway, in uno stile da crooner, con tanto di cori e violini, decisamente prematuro e poco riuscito. E’ evidente che gran parte del materiale selezionato per lui in quel periodo era inadeguato alla sua età e lo stile vocale ancora in completamento. Questi dischi formativi prodotti in adolescenza, hanno in effetti più valenza storica e biografica che artistica, in quanto mostrano, al di là del talento da bambino prodigio, una vocalità interessante ma ancora da maturare e consolidare e uno spessore interpretativo inevitabilmente limitato, ma comunque assai promettente. Venne quindi proposto al giovane Wonder un nuovo team di autori per il prosieguo della sua carriera.

R-4122185-1356025828-7952.jpegScolasticamente, invece, le cose non si stavano mettendo per niente bene. Stevie non riusciva a tenere studi regolari, a causa dell’attività concertistica e discografica e c’era difficoltà a trovare un tutor disponibile per affrontare gli studi durante il tour concertistico. A causa di ciò, i suoi insegnanti lo avvertirono del fatto che avrebbe dovuto smettere con la musica per pensare adeguatamente alla sua istruzione, almeno fino alla raggiunta età di 19 anni, informandolo che legalmente potevano obbligarlo sui banchi di scuola sino ad allora. Uno dei suoi insegnanti gli disse, in modo traumatico ma efficace, che aveva tre elementi a sfavore che dovevano essere considerati in caso di fallimento nel mondo della musica: era insieme povero, nero e cieco.

Fu costretto quindi a sospendere l’attività discografica e concertistica, per dedicarsi agli studi, approfondendo nel contempo le proprie conoscenze teoriche musicali, affrontando lo studio del pianoforte classico presso la Michigan School For The Blind. Ritorna quindi sulla scena professionale nel 1966, stavolta con il nome d’arte definitivo di Stevie Wonder, con la pubblicazione di Uptight, segnando un punto di svolta nella sua carriera. Il brano che dà il titolo al disco, pezzo ballabile e arrangiato da fiati orchestrali, si rivela un hit da primi posti delle classifiche R&B internazionali e un primo brano frequentato da jazzisti e cantanti legati al jazz (4). Gran parte di questo successo aveva certo a che fare con la squadra di songwriters messa a disposizione del quindicenne dalla Motown, costituita da Henry Cosby (5) e Sylvia Moy (6). Per inciso, del brano esiste una bella versione dell’orchestra di Buddy Rich, arrangiata da par suo da Oliver Nelson, incisa nello stesso anno di pubblicazione e contenuta nel disco Swingin’ New Big Band, cominciando perciò a porsi all’attenzione di importanti jazzisti. Il disco mostra più in generale un lato più personale di Wonder, abbracciando alcune sue influenze, come gli stati d’animo soul di Sam Cooke (7) e la canzone di protesta, con Blowin’ In The Wind e, nel successivo Down To Earth, con Mr. Tambourine Man e A Place In The Sun, tutte cover di Bob Dylan. Wonder inizia qui a manifestare i primi segni di interesse per le battaglie di impegno sociale che caratterizzeranno la sua attività professionale connessa al suo attivismo sociale, nei decenni successivi.

R-3811996-1345375365-9041.jpeg Nel 1967, arriva un altro successo: l’album I Was Made To Love Her che scala le classifiche, trascinato dall’hit omonimo, un numero che vedrà nello stesso anno una cover nel repertorio dei Beach Boys (8), dei Jackson 5 (9) e successive di altri noti jazzisti (10). All’età di 17 anni Stevie incontra una ragazza di nome Angie e si innamora. La composizione, intestata anche a Cosby e dove Sylvia Moy ha aggiunto i testi, è ispirata da quella esperienza. E’ costruita su una semplice idea melodica con una progressione di cinque accordi ripetuti a riff, ma mostra una maggiore raffinatezza e sottigliezza rispetto a quanto prodotto nei precedenti successi. Wonder suona anche l’armonica e la sua voce risulta più matura nella gamma espressiva rispetto al recente passato, mostrando una grinta e un potere di suggestione nell’esecuzione che suggeriscono una diretta influenza gospel. Per il resto, l’album è un pot-pourri di composizioni di provenienza relativa ad un repertorio antecedente, a cavallo tra anni ’50 e ‘60, con composizioni di Ray Charles (A Fool for You), James Brown (Please,Please,Please), e Otis Redding (Respect, resa celebre nel periodo da Aretha Franklin). Questo album segna anche un cambiamento di direzione dai due precedenti, essendo fondamentalmente “black”, con il focus dominante sul suo patrimonio di influenze musicali relative ad alcuni dei grandi cantanti neri del periodo. Wonder aveva già fatto qualcosa di simile con A Tribute to Uncle Ray agli esordi, ma naturalmente non aveva ancora potuto mostrare la vocalità matura sentita in questa circostanza. L’album si conclude con un’altra riuscita composizione del trio Wonder-Cosby-Moy: Every Time I See You I Go Wild mostra, infatti, un cambiamento di mood del tutto inaspettato. Nessuno dei suoi precedenti album era finito con una canzone in chiave minore, probabilmente utilizzata per esprimere la disperazione per essere profondamente innamorato di una ragazza già persa. Il suo ricco arrangiamento, quasi orchestrale, con i suoi flauti, i tromboni e la sua armonia cromatica discendente su un pedale, la renderebbe adatta come colonna sonora per i titoli di coda di un film noir o di un thriller. Quest’album può essere già considerato un primo classico di Stevie Wonder. E’ il primo musicalmente compatto dall’inizio alla fine, con pochi scadimenti di resa e con una scelta di canzoni ispirata. Entro la fine dell’anno, Motown pubblicherà, come sua consuetudine nel periodo per le star del suo catalogo, un album natalizio di Stevie Wonder dal titolo Someday at Christmas contenente una bella versione di The Christmas Song. (continua…)

vai alla 2a parte

Note:

(1) Liberamente tradotto da “Stevie Wonder: jammin’ with the jazz set”- scritto da J. Lewis per The Guardian il 17/6/2010; 

(2) La Motown Records, Inc., conosciuta anche come Tamla-Motown al di fuori degli Stati Uniti, è un’etichetta discografica nata a Detroit, nel Michigan. In più di mezzo secolo di storia ha raggiunto un vasto successo internazionale ed ha svolto un ruolo fondamentale nella diffusione della musica popolare, in particolare quella africano-americana. Fondata il 12 gennaio 1959 da Berry Gordy come Tamla Records, durante il corso della sua storia la Motown ha posseduto e pubblicizzato una molteplicità di artisti/gruppi sotto etichette specializzate in vari generi, ma nonostante tutto la più famosa rimane quella specializzata nel settore R&B e Soul. La Motown lasciò Detroit per trasferirsi a Los Angeles nel 1972, e rimase un’etichetta indipendente fino al 1988, quando Gordy cedette la compagnia alla MCA. Attualmente la sede è a New York e la Motown Records è ancora una succursale della Universal Motown Records Group, che a sua volta è una succursale della Universal Music Group.
Il termine “Motown” è nato come “motor town” in quanto Detroit era una città di motori per il gran numero di fabbriche e officine d’ auto in città. Negli anni sessanta la Motown e la sua divisione Soul furono così famose da creare il termine di Motown Sound, il sound di Detroit, uno stile di musica soul con tratti estremamente distintivi, quali un particolare uso del basso, una caratteristica struttura melodica e di arrangiamento ed un peculiare stile vocale.
Tra i famosi artisti che hanno registrato con la Motown, sono da citare: The Jackson 5 con Michael Jackson, Marvin Gaye, The Commodores, The Contours, Diana Ross & The Supremes, Smokey Robinson & The Miracles, Rick James, The Temptations, Tammi Terrell, The Four Tops, Martha Reeves and The Vandellas, Gladys Knight & the Pips, The Undisputed Truth, Rare Earth, Jr. Walker & the All Stars, The Isley Brothers, The Marvelettes, The Emotions, Bobby Darin, Mary Wells, Dina Rae, oltre naturalmente allo stesso Wonder che diverrà presto l’artista di punta

(3) Clarence Otto Pauling (19 marzo 1928 – 6 Maggio 1995),  meglio conosciuto come Clarence Paul, è stato un cantautore e produttore discografico per la Motown Records .
Nato a Winston-Salem, North Carolina, è stato membro coi fratelli del gruppo R&B “The “5” Royales“. Il padre era un minatore di carbone in Bluefield, West Virginia, dove Paul e i suoi fratelli ascoltavano musica country nell’unica stazione radio della città. A Winston-Salem, i fratelli costituirono il gruppo gospel “The Royal Sons Quintet”, in seguito divenuti i “5″ Royales. Paul lasciò cadere l’”ing” dal suo cognome dopo essersi trasferito a Detroit, Michigan, nel 1950, così da non confondersi con il fratello maggiore. Alla Motown, ha guadagnato fama come  mentore di Stevie Wonder e come suo produttore principale, durante l’adolescenza di Stevie. Ha anche cantato nei cori della versione di Wonder di “Blowin ‘in the Wind”. Paul ha anche prodotto le prime registrazioni dei Temptations e scritto/co-scritto successi come “Until You Come Back to Me (That’s What I’m Gonna Do)” in origine per Wonder, e poi dato ad Aretha Franklin e” Hitch Hike” per Marvin Gaye . Paul si trasferì da Detroit a Los Angeles alla fine del 1970. Si ritirò quindi a Las Vegas, in Nevada. Morì di complicazioni a malattie cardiache e diabete, al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, California, il 6 maggio 1995 a 67 anni; 

(4) Ci sono versioni di Nancy Wilson, Ramsey Lewis e The Jazz Crusaders, oltre al citato Buddy Rich; 

(5) In qualità di sassofonista, Cosby era membro del gruppo jazz che è stato il precursore ai Funk Brother, la band Motown di studio. Come membro della Joe Hunter Band, Cosby è stato raggiunto dal leggendario innovativo bassista James Jamerson, il batterista Benny Benjamin, il sassofonista baritono Mike Terry, il chitarrista Larry Veeder e il pianista Joe Hunter. Il gruppo ha suonato nei jazz club e in sessioni di registrazione in tutta la città negli anni ’50.
Cosby ha co-scritto e prodotto alcuni dei più grandi successi di Wonder, con Sylvia Moy, tra cui “Fingertips”, “Uptight (Everything’s Alright)”, “I Was Made To Love Her”, “I’m Living in Shame”, “My Cherie Amour”, “Never Had A Dream Come True”, “Shoo-Be-Doo-Be-Doo-Da-Day”.
Nativo di Detroit, si è laureato dalla High School del Nord e ha servito nell’esercito durante la guerra di Corea, dove ha incontrato Nat e Cannonball Adderly nella scuola della banda militareI due hanno anche partecipato a diverse sessions di Berry Gordy Jr., è stato poi compositore di canzoni per Jackie Wilson e altri. Cosby era un poliedrico, in grado anche di guadagnare i galloni di valido compositore / produttore per la Motown con Smokey Robinson, le Supremes, i Jackson 5, e, in particolare, con Stevie Wonder.
E’ morto all’età di 73 a Beaumont Hospital di Royal Oak, dopo una lunga malattia.
 

(6) Secondo l’autobiografia di Berry Gordy, ’To Be Loved”, Sylvia Moy era direttamente responsabile per l’etichetta nei confronti di Stevie Wonder. Tra i suoi singoli di successo la Moy ha scritto e/o prodotto, “ Uptight (Everything’s Alright) ”, “ My Cherie Amour ” ed è stata inserita nella Hall of Fame dei Songwriter  accanto al collega autore e produttore Motown Henry Cosby nel 2006.  La Moy continua a scrivere e produrre nel suo studio a Detroit. 

(7) Sam Cooke, definito come il padre della musica Soul, è nato il 22 gennaio 1931 a Clarksdale, Mississippi, come Samuel Cook ed è cresciuto a Chicago come figlio di un ministro. Cooke ha iniziato ad esibirsi con la sua famiglia da bambino. Durante la sua adolescenza, ha formato un quintetto chiamato “QC Highway”. Ha cantato con il gruppo gospel “The Soul Stirrers” per sei anni prima di passare alla musica profana e arrivare ad enormi successi come “You Send Me” (del 1957), “Wonderful World”, “Chain Gang” e “Twistin ‘il Night Away “. Oltre ad essere un cantante di talento e compositore, Cooke ha avuto acume negli affari. Ha fondato una propria casa editrice per la sua musica nel 1959 e ha negoziato un contratto impressionante con la RCA nel 1960. Non solo ha fatto un personale progresso sostanziale, ma ha saputo ottenere la proprietà delle sue registrazioni master dopo 30 anni. Cooke ha contribuito a sviluppare la carriera di Bobby Womack e Billy Preston, tra gli altri. Ha continuato a conquistare fan con una varietà di stili musicali: nel 1960 con la ballata “Wonderful World”, per la musica da ballo nel 1962 con “Twistin’ the Night Away” e nel 1963 con ” Another Saturday Night”. Cooke morì l’11 dicembre 1964 a Los Angeles, ucciso da un colpo d’arma da fuoco in circostanze poco chiare. L’anno dopo la sua morte, la casa discografica di Cooke ha pubblicato la sua canzone “A Change Is Gonna Come”, un inno per i diritti civili dei neri a corollario di “Blowin ‘in the Wind” di Bob Dylan. E ‘stata forse la sua canzone dal carattere più acutamente politico. Cooke ha lasciato un’eredità musicale enorme. In particolare in ambito di musica Soul. E ‘stato inserito nella Rock and Rock Hall of Fame nel 1986. 

(8) http://it.wikipedia.org/wiki/The_Beach_Boys

(9) http://it.wikipedia.org/wiki/The_Jackson_5

(10) Charles Earland e King Curtis

Oscar Peterson è solo tecnica e “muscolarità”?

Questo blog si occupa periodicamente (ma per certi versi dovrei dire insistentemente) di smontare stereotipi e cliché critici ormai antichi ma ancora molto diffusi in materia di jazz, che poi non hanno concreti riscontri rispetto a un ascolto un po’ più serio e approfondito. Lo si fa non tanto per forzato spirito polemico ma per favorire una migliore comprensione anche di ciò che la contemporaneità musicale propone in ambito di jazz e di musiche improvvisate.

Uno di questi stereotipi ha riguardato e ancora riguarda un grande improvvisatore del jazz come Oscar Peterson, da molti visto come un mero “tecnico” del pianoforte, un “notaiolo” poco espressivo, tutto swing e “muscolarità”, proponente un jazz, semplificando al massimo, per gusti musicali non troppo raffinati. Niente di più superficiale e più falso si potrebbe affermare sul suo conto e gli esempi che si potrebbero portare sono moltissimi. Tra questi, oggi ho scelto di proporre una traccia estrapolata da un suo bel disco in trio inciso a Chicago nei primi anni ’60 in compagnia di Ray Brown e Ed Thigpen, forse la formazione migliore che abbia avuto in carriera e con la quale ha prodotto probabilmente le sue opere migliori.

Il fatto è che il modo di produrre swing e di elaborare ritmicamente un tema del trio arriva a livelli di equilibrio e di perfezione formale per nulla semplici da raggiungere, oltretutto elaborando uno stile esecutivo pressoché inconfondibile oltre che peculiarmente afro-americano. Un modo di trattare la forma del Trio molto diverso ma non meno sofisticato di quello da noi maggioritariamente apprezzato e derivabile, giusto per intenderci, dal cosiddetto modello evansiano, decisamente più “bianco”.

La versione di I’ve Never Been in Love Before è in questo senso esemplare e non possiede meno sostanza musicale e sofisticazione rispetto ad altre. Buon ascolto.

E’ il turno di una ballad: My Old Flame

My Old Flame è una canzone (in classica struttura AABA), composta nel 1934 da Arthur Johnston (musica) e Sam Coslow (testo). E’ stata cantata dall’attrice Mae West nel film Belle of the Nineties, sotto la supervisione del dell’orchestra di Duke Ellington. Mae West era nota per le sue allusioni erotiche a malapena mascherate e il testo sembrava adattarsi a lei. Dove il testo recita:  “My new lovers all seem so tame” (più o meno: “I miei nuovi amanti sembrano tutti così addomesticati“), la stessa attrice potrebbe aver avuto una parte autobiografica nel testo, almeno secondo Chris Tyle nella sua descrizione e analisi della composizione. La West non era una grande vocalist, ma, come nel caso di molti cantanti ex-vaudeville e star di Broadway, sapeva come “rendere” una canzone. La rivista Variety elogiò la sua performance, commentando che l’accompagnamento di Ellington era “naturale per Mae West”.

Duke Ellington ha poi registrato una versione per la Victor nello stesso anno, con la cantante  della sua band del periodo, Ivie Anderson, ma la prima versione a raggiungere il  successo commerciale è stata quella del 1947, quando fu registrata da Spike Jones & His City Slickers.

La canzone è divenuta uno standard del jazz giusto dagli anni ’40, interpretata sia da cantanti che da strumentisti di prim’ordine, tra le versioni vocali indichiamo:

Peggy Lee (con la band di Benny Goodman), Billie Holiday, che la  registrò in diverse versioni nel 1944, Billy Eckstine, Tony Bennett, Ella Fitzgerald, Dinah Washington, Sarah Vaughan, Carmen McRae, Rosemary Clooney, e Linda Rostand. Per le versioni maschili il testo è stato necessariamente adattato.

Tra le versioni strumentali sono da evidenziare quelle di  Charlie BarnetBenny Morton All Stars, Cootie WilliamsCharlie Parker (versione Dial del 1947), Stan Getz, Gerry Mulligan con Chet Baker (1953). Lo stesso Chet Baker l’ha incisa un paio di volte nel 1954 in suoi dischi da leader e, poco prima di morire, nel 1988 con Enrico Pieranunzi. Non si possono poi non citare quelle di Miles Davis, Kenny Dorham, Stan Kenton, Buck Clayton, Barney Kessell, Joe PassBud Powell, Max Roach, Lee Konitz, Jackie McLean, Phil Woods, J.J.Johnson, Zoot Sims, Sonny Rollins, Steve Grossman, Paul BleyKeith Jarrett & Charlie Haden.

Ne evidenzio qui alcune, due incise in studio e due dal vivo. Buon approfondimento di ascolto.

Satchmo e la musica “intelligente”

Mentre dalle nostre parti si è impegnati quotidianamente a far passare per “jazz avanzato” della pseudo contemporanea di seconda mano ormai abbondantemente stagionata, si continua a storcere il naso di fronte a cose considerate troppo “semplici”, “facilotte”, “divertenti”, dedite solo all’entertainment, per non dire, con termine sin troppo usato a sproposito, “commerciali”. Se poi sono fatte da “negri” con l’aria ridanciana e che paiono non prendersi troppo sul serio dando spettacolo e riscuotendo un certo successo di pubblico, bé, allora li siamo di fronte alla negazione dell’arte musicale, al tradimento dell’ideale rivoluzionario (?), allo svendersi al business dell’imperialismo americano (?). Vuoi mettere  invece l’alta intellettualità e l’impegno artistico di un bel quadruplo CD di sassofono o tromba solitaria, fatto per lo più di pernacchiette e stridor di denti? O, in alternativa, di campanellini percossi nel silenzio e nel pieno annullamento di un qualsiasi andamento ritmico idoneo solo a produrre “musica da ballo”, utile cioè a far muovere il corpo in modo lascivo e peccaminoso? Quella sì che è arte, mica musichetta come questa che sto per proporvi, con il buon Satchmo dedito alle colonne sonore dei cartoni animati di Walt Disney. Non è roba “seria”, insomma, per élite esclusive, roba fatta solo per compiacere l’orecchio grossolano. Sarà, ma non si fa cambio. Si vede che abbiamo gusti troppo “popolari”. Pazienza, ce ne faremo una ragione.

Bernstein e la fisicità del jazz

Martedì della scorsa settimana ho potuto assistere a uno dei racconti di Gianni M. Gualberto tra musica e cibo al Teatro Parenti di Milano, che ha affrontato il tema della penetrazione del jazz e del relativo contributo africano-americano nella cultura e società americana negli anni prebellici, quelli per intenderci della cosiddetta Era dello Swing, caratterizzati da una ancora marcatissima segregazione razziale. In particolare è stato sottolineato l’aspetto della danza, del movimento del corpo e della relativa fisicità esibita dagli africani-americani in ambito non solo musicale, ma anche diffusasi rapidamente nel mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento dominato dai bianchi americani. In particolare è stato evidenziato come questo aspetto sia riuscito a trasferirsi anche nell’insospettabile ambito della musica accademica, tra i compositori americani come George Gershwin e Leonard Bernstein, citando i casi più eclatanti. Tramite l’utilizzo di filmati proiettati che hanno accompagnato il racconto di Gualberto, ci ha molto colpito l’ultimo che qui vi ripropongo come caso esemplare di quanto appena detto.

Si tratta della Symphonic Dance da West Side Story e diretta dallo stesso Leonard Bernstein alla Symphony Hall di  Osaka, nel 1985. Si può notare come la musica sia pregna di ritmi latini e di jazz a larghe manciate, in un modo tale che lo stesso Bernstein arriva a dirigere a tratti con movimenti pelvici del corpo, quasi erotici, arrivando a trasferire su se stesso quella irresistibile voglia di movimento del corpo e di fisicità propria della cultura musicale degli afro-americani. Un modo di dirigere che non ha e non ha avuto praticamente eguali in tutta la storia della musica cosiddetta “colta”.

Al di là di questo specifico aspetto peraltro molto rilevante, la musica che si ascolta è davvero splendida, con momenti di complessità esecutiva paragonabili a cose come  la Sagra della Primavera di Stravinskij. Per quel che mi riguarda Leonard Bernstein è da considerare un altro dei grandissimi personaggi della musica del Novecento, il cui ruolo forse da noi non è stato ancora pienamente apprezzato. Ascoltare per credere.

Charles Mingus Live in Belgio -1964

Oggi dedichiamo lo spazio musicale del venerdi a due grandi autentici geni del jazz come Charles Mingus e Eric Dolphy che, nonostante abbiano ben poco da invidiare a Miles Davis e John Coltrane, sono molto meno reclamizzati e presenti nei discorsi odierni intorno al jazz. Il primo è probabilmente stato il più grande compositore che il jazz moderno abbia prodotto, mentre il secondo è considerabile uno dei più avanzati e influenti improvvisatori, a mio avviso da equiparare per importanza a Ornette Coleman. Lo facciamo utilizzando un bel filmato d’epoca registrato in Belgio in uno studio durante la famosa tournée europea del 1964. Uno dei momenti più alti e creativi di tutto il jazz moderno.

Il filmato, di una mezz’ora circa di durata, prevede in scaletta una versione molto abbreviata di So Long Eric, seguita da Peggy’s Blue Skylight e da Meditation on Integration. La formazione è un quintetto, poiché in quella data risultava già l’assenza di Johnny Coles alla tromba, inizialmente previsto da Mingus in un sestetto nella tournée. Essa si compone di Eric Dolphy (as, fl, clb), Clifford Jordan (ts), Jaki Byard (p), Charles MIngus (b) e Dannie Richmond (dr). Si ascolta in particolare un Eric Dolphy in piena forma sia al contralto, sia al flauto che al clarinetto basso. La modernità di questa musica sembra davvero non essere scalfita dal passare del tempo.

Buon ascolto e buon fine settimana.

Bean in azione…

A volte il jazz sa essere come la buona cucina: pochi e semplici ingredienti (uno standard e una buona sezione ritmica a disposizione) un grande chef ai fornelli (un maestro dell’improvvisazione) ed ecco bello che servito un piatto musicale assai prelibato.

In questo senso, talvolta penso a chi straparla continuamente delle solite quattro icone del jazz moderno, iterandole nei discorsi, lasciando intendere che il jazz sia diventato un apprezzabile fenomeno artistico solo relativamente di recente e per merito di una ristrettissima manciata di personaggi, come se nel suo ormai lontano passato evolutivo non abbia saputo produrre grandi figure musicali e grandi capolavori, seguendo di fatto una logica aberrante fatta di falso modernismo e progressismo che in realtà si rivelano utili solo a nascondere certe gravi lacune in materia. Come se nella musica accademica si potesse discettare, che so, di Stravinskij, Schönberg o Stockhausen senza conoscere per bene Bach, Mozart e Beethoven. Il che, al di là delle apparenze, la dice lunga di come ancora oggi il jazz non sia rispettato per quel che è e quel che vale.

Sta di fatto che in questo significativo filmato che sto per proporvi, si vede arrivare in scena un rilassato  Coleman Hawkins che, mentre la sezione ritmica accenna al tempo e all’atmosfera di un blues, monta il suo sassofono e dopo un breve riscaldamento dello strumento, attacca un Lover Man suonato da par suo. Sorge allora una domanda ascoltando il brano: cosa ci sarebbe di meno ardito, meno moderno, meno espressivo e di minor valenza musicale in questo brano rispetto a tanti prodotti discografici ed esibizioni concertistiche che ascoltiamo oggi?

La band che accompagna il grande maestro del sassofono presenta nomi eccellenti del mainstream dell’epoca, quali Johnny Guarnieri al pianoforte, Barry Galbraith alla chitarra, Milt Hinton al contrabbasso e Cozy Cole alla batteria. Una goduria.

Il George Benson cantante

Ho già scritto altre volte circa il tema del canto nel jazz e più in generale nel pop americano, rivelando la mia netta preferenza per le voci “nere”, specificando che trovo privo di senso che molti jazzofili pensino di atteggiarsi a persone molto colte e “impegnate”  rifiutando a priori l’ascolto delle grandi voci storiche del r&b e del pop afro-americano solo perché categorizzate negativamente e a priori con  l’infamante etichetta del successo “commerciale”. Sicché un jazzofilo “serio” (?) non può apprezzare voci come quelle di uno Stevie Wonder, di un Michael Jackson di un Luther Vandross, piuttosto che di  Dionne Warwick, Whitney Houston, o Tina Turner  – tanto per citare –  e non è nemmeno il caso che si vanti pubblicamente di gradire l’ascolto persino di una Aretha Franklin o di un Ray Charles o di Marvin Gaye, che pure rapporti più prossimi al jazz li hanno manifestati. Dirlo, insomma, non qualifica come cultore raffinato e sofisticato di musica e di jazz, si rischia di essere confusi con la massa di fan di bocca buona dedita alla musica di consumo al servizio esclusivo del business discografico e conceristico internazionale. Risultato di un tale (per me ridicolo) atteggiamento è poi il preferire l’ascolto di mezze tacche vocali categorizzate come jazzistiche, ma che spesso dimostrano di essere di una mediocrità vocale ed espressiva  persino imbarazzante.

Tra le suddette grandi voci “nere” è sicuramente considerabile anche quella di George Benson, che pur dedicando la prima parte della sua carriera al jazz (quella degli anni ’60)  soprattutto come grande e influente chitarrista, ha poi goduto di un enorme successo commerciale anche in qualità di eccellente cantante negli anni ’70, raggiungendo l’apice del successo con dischi come Week End in L.A. e, successivamente nel periodo della cosiddetta disco-music, con Give Me The Night, godendo anche della perizia di produttore di Quincy Jones, protagonista in quegli anni di alcuni dei maggiori successi discografici. Non a caso Benson da allora è praticamente sparito dalle cronache jazzistiche, in quanto considerato ennesimo caso di talento del jazz svenduto allo show business americano. Un marchio negativo indelebile che gli ha comportato, come per molti altri casi simili, la messa all’Indice della sua produzione discografica e la definitva scomunica e dipartita dalla musica intesa (ma solo da noi…) come arte che deve essere sempre ben distinta (e distante…) dall’entertainment e dal successo commerciale per essere considerata tale. Insomma tutto il tipico armamentario pseudo intellettual-ideologico maldestramente  applicato al jazz e a una cultura musicale dalle peculiarità parecchio diverse.

Morale del discorso, interpretazioni vocali come quella sottostante diventano per molti da evitare a prescindere, come peste bubbonica. Sarà, ma questa versione di The Greates Love of All di qualche anno precedente a quella forse più nota di Whitney Houston non pare poi così scarsa. Voi che ne dite?

Si può suonare il sax meglio di così?

Uno degli elementi distintivi per il jazz e decisivi per un relativo solista è sempre stato il possesso di un timbro originale e di un proprio “suono” (intendendo anche oltre  il mero fattore timbrico, cioè legato anche al modo di fraseggiare e impostare l’architettura di un assolo) riconoscibile. La cosa probabilmente era (ed è forse ancora) legata alla necessità di poter emergere e distinguersi in un contesto altamente competitivo come quello americano sempre stato ricco, sia in termini quantitativi che in quelli qualitativi, di grandi strumentisti.

Secondo molti, l’avvento delle cosiddette “scuole di jazz” emerse negli ultimi decenni, se da un lato ha permesso di sistematizzare e, in un certo senso, “accademizzare” un linguaggio di preponderante tradizione orale, ha tuttavia creato una certa deriva, tendente alla omologazione del suddetto “suono”, rischiando di rendere uno strumentista/improvvisatore uguale all’altro.

In questo senso, oggi è molto difficile poter far emergere un talento solistico originalissimo, direi persino unico, come è stato Stan Getz in ambito di sassofono tenore. Molti oggi forse se ne sono dimenticati, ma il nomignolo “The Sound” non gli è stato affibbiato per caso, in quanto davvero egli era in possesso di uno dei timbri di sassofono più belli dell’intera storia del jazz e dello strumento, oltre che più difficili da riprodurre. Per quanto Getz sia stato un notevole modello timbrico nel periodo post “Four Brothers” e nell’ambito del cosiddetto West Coast Jazz, e al di là della sovrastante influenza che ha avuto John Coltrane, non sono stati infatti molti i sassofonisti successivi in grado di riprodurre la tecnica di quel suono, che pare sia stato ottenuto, a suo stesso dire, quasi per sbaglio, nel senso che proprio una sua impostazione allo strumento di tipo non ortodosso (e quindi men che meno “scolastico”) gli ha permesso di giungere ad una versione personalissima nel modo di suonare lo strumento.

Non si pensi peraltro che Getz fosse un modello solo per i jazzisti bianchi, tutt’altro. Egli godeva di grande rispetto e ammirazione nella comunità dei jazzisti afro-americani, specie in quelli della generazione bop e post-bop. Pare che lo stesso Coltrane, che certo a livello di influenza e diffusione non ha avuto molti rivali in ambito di sassofonismo, abbia avuto modo di affermare qualcosa come: “Diciamolo con franchezza: tutti noi vorremmo avere il suono di Stan Getz”. Persino un sassofonista di tutt’altra impostazione ed estetica come Archie Shepp non ha mai nascosto la sua ammirazione per il sassofonista di Filadelfia.

Un esempio magistrale di quanto appena detto circa il suono e le sue riconosciute doti di grandissimo improvvisatore lo si può evidenziare in questo stringatissimo Mania de Maria che sto per proporvi e tratto da Jazz Samba Encore!, un ottimo disco del suo periodo dedicato alla bossa nova e registrato col grande chitarrista brasiliano Luiz Bonfa. Difficile a mio avviso saper far di meglio. Buon ascolto.

Un autentico capolavoro del jazz moderno

Il livello dei dischi prodotti da Alfred Lion per la Blue Note nella prima metà degli anni ’60, si sa, è da considerare tra i più alti per il jazz del dopoguerra. La quantità di capolavori presenti in quel catalogo prodotti tra gli anni ’50 e ’60 è a dir poco impressionante. In particolare, nella prima metà degli anni ’60 l’etichetta è riuscita a rappresentare allo stesso tempo grandi musicisti sia del jazz più avanzato dell’epoca che di quello più canonico.

Tra i capolavori del primo tipo ci sta indubbiamente Maiden Voyage, che è da considerare forse il punto creativo più alto raggiunto da Herbie Hancock sia in termini di compositore, sia di leader di un proprio gruppo. Si tratta di un disco di eccezionale valore e di costante alta qualità, dall’inizio alla fine, oltre a caratterizzarsi per una tale unità progettuale da riuscire a descrivere perfettamente in musica il tema narrativo esplicitato dal titolo stesso, che si ispira al mare e al “viaggio inaugurale” (maiden voyage, appunto) di una imbarcazione alla sua prima messa in acqua. Tutto il lavoro si ispira infatti a tematiche marine, oltre al brano eponimo anche il titolo di altre tracce come Eye of the Hurricane (l’occhio del ciclone) e Dolphin Dance (la danza del delfino) sono di chiaro riferimento al mare. Ora, non vorrei dare eccessivo peso a questo elemento “descrittivo” in musica, e men che meno aprire una inflazionata discussione sulla “asemanticità” della musica, in quanto già storicamente affrontata a fondo in ambito musicale. Si può tuttavia notare che la musica composta ed eseguita in questo disco ha comunque una sua valenza intrinseca indipendentemente dal suo riuscitissimo potere evocativo.

Concentrandosi perciò su di essa, e in particolare sul brano che dà il titolo al disco, non si possono non notare alcune scelte del leader che appaiono conformi a quello che Hancock stava già affrontando in parallelo all’interno del quintetto di Miles Davis (in pratica la formazione è la stessa, con Freddie Hubbard al posto di Davis), ossia l’utilizzo di una armonia modale e una relativa progressiva semplificazione armonica intorno all’andamento melodico del tema composto (o dello standard preso di volta in volta in esame nel caso del quintetto di Davis), in modo da creare una dilatazione dello “spazio” e maggior libertà improvvisativa per il solista. In questo senso, è fondamentale l’utilizzo di una armonia quartale (ossia costruita sull’intervallo di quarta, che era lo spunto armonico in voga tra i principali protagonistri del jazz dell’epoca), cioè con la presenza di un accordo di quarta (definibile come accordo sospeso o sus4). Esso è composto da una triade in cui la quarta dell’accordo sostituisce l’usuale terza. Con l’aggiunta della settima si ottiene laccordo di 7sus, su cui si poggia l’impalcatura modale di Maiden Voyage, in grado di attribuire un umore molto suggestivo alla musica, insieme alla scelta di un tempo pari molto aperto.

L’esecuzione complessiva è talmente perfetta, nota per nota, da poterla considerare davvero uno degli assoluti capolavori del jazz moderno per piccolo gruppo. I membri della band, infatti, assecondano alla lettera i propositi dell’autore, riuscendo comunque a dare una propria impronta personale. Il batterista, Tony Williams, suona in modo non convenzionale, spezzando spesso il tempo, mentre i solisti ricompongono gli spunti suggeriti dal tema nelle proprie originali improvvisazioni. Gli assolo di George Coleman e, a maggior ragione, quello di Freddie Hubbard sono da considerare tra i loro personali massimi creativi. Segnalo, in dettaglio, come il deplorato (a sproposito) virtuosismo del trombettista qui sia invece al totale servizio di una poeticità (non esiste nel jazz solo la poesia di un Chet Baker o di un Miles Davis, tanto per intenderci) e una creatività che raramente gli sono state riconosciute in carriera. Per non parlare del successivo intervento solistico di Herbie Hancock fatto di un utilizzo parco di note sospese di grande potere evocativo, accompagnato in modo estremamente musicale e flessibile dall’ancora giovanissimo batterista, in grado di variare in modo sensibile la tessitura ritmica durante il solo del leader.

In definitiva, un brano sentito tante volte, ma che ad ogni riascolto sembra ridare nuovi spunti e nuovo godimento, caratteristica davvero esclusiva dei grandissimi capolavori del jazz.

 

Elio Villafranca & Jass Syncopators, Live

Concludiamo la settimana parzialmente dedicata ai nuovi talenti del jazz di origine latina con un estratto del concerto tenuto dal quintetto di Elio Villafranca al Dizzy’s Club di New York City.  Si tratta di una musica tinta ovviamente di umori latin e ben radicata nella tradizione del jazz moderno, ma fresca ed eseguita con grande energia e brillantezza ritmica e solistica, in cui spiccano i contribuiti solistici dei due fiati, del calibro di Gregory Tardy al sassofono tenore e di Sean Jones alla tromba, uno dei migliori talenti afro-americani emersi sullo strumento negli anni recenti.

Il primo estratto concertistico, in particolare, ricorda vagamente la struttura armonica  di Well You Needn’t di Thelonious Monk. La formazione è completata da Gregg August al contrabbasso e Willie Jones III alla batteria. Il secondo estratto vede poi l’introduzione di tre percussionisti in aggiunta al quintetto.

Buon ascolto e buon fine settimana.

Alla riscoperta di Claude Williamson

Nella lista dei jazzisti meno noti più per il fatto di risiedere, o essersi semplicemente trasferiti, in California che per demeriti propri, oggi parliamo un po’ di Claude Williamson (1926 – 2016), che è stato un pianista di tutto rispetto (con un fratello trombettista/trombonista noto agli esperti del jazz come Stu Williamson) che ha suonato in diverse importanti incisioni degli anni ’50 di alcuni tra i migliori improvvisatori presenti sulla West Coast in quel periodo. Tra questi si possono citare: Bud Shank, Art Pepper, Chet Baker e Maynard Ferguson. Peraltro Williamson possiede una discografia da leader di non pochi titoli, avendo inciso sino al primo decennio degli anni Duemila.

Williamson ha studiato al New England Conservatory of Music prima di passare al jazz, influenzato principalmente da Teddy Wilson, poi da protagonisti del piano bop come Al Haig e Bud Powell. Il trasferimento in California avvenne già nel 1947, lavorando prima con il sassofonista Teddy Edwards, poi con Red Norvo a San Francisco, con Charlie Barnet nel 1949 e con  la cantante June Christy per due anni. Successivamente ha lavorato con Max RoachArt Pepper e altri. E’stato anche un membro di lunga data del Lighthouse All-Stars (in sostituzione del pianista Russ Freeman), il collettivo a formazione variabile che si esibiva al Lighthouse Cafe di Hermosa Beach e da cui prendeva il nome, suonando con musicisti del livello di Bud Shank, Stan LeveyBob CooperConte Candoli e Howard Rumsey. Dalla metà degli anni ’50 divenne, come già accennato, il pianista nel quartetto di Bud Shank, registrando con quel leader ben sette dischi. Dal 1968 Williamson ha iniziato a lavorare come pianista per la NBC, uscendo dal circuito del jazz e delle relative incisioni discografiche, facendovi ritorno solo verso la fine  degli ann ’70. Da allora, Williamson è tornato a pubblicare diversi album, principalmente per etichette giapponesi e in trio, spesso accompagnato da Sam Jones e Roy Haynes e producendo diversi dischi più che interessanti. Williamson ci ha lasciati da pochi anni, precisamente il 16 luglio 2016, all’età di 89 anni.

Propongo qui alcuni esempi del suo pianismo tratti dalla rete che lo rappresentano in diversi periodi storici. Buon ascolto.

i jazzofili italiani e la musica latina

Che gli appassionati italiani del jazz, o i sedicenti “esperti” nazionali della materia, manifestino un rapporto diffidente e distorto, ma del tutto immotivato, verso la musica latina (intendendo in particolare quella di origine, o radice, afro-cubana e caraibica, ma non solo) non è certo una sorpresa o una novità. Tradizionalmente la si considera musica “commerciale”, “facile”, adatta solo per ballare, eppure se si va ad analizzare la sua influenza si scopre che esiste sin dalle origini del jazz e oggi sia fortemente mescolata con esso, in modo persino indistinguibile. D’altronde, basterebbe dare anche solo uno sguardo ai cartelloni concertistici dedicati al jazz per rendersi conto di come venga sostanzialmente snobbata, se non osservando come al più vengano proposti noiosamente sempre gli stessi nomi e per lo più si tratti di musicisti latini che in qualche modo tendono ad approssimarsi al gusto musicale europeo (leggasi ad esempio il cubano Gonzalo Rubalcaba, pur bravissimo, per carità).

Eppure siamo in un periodo in cui la musica improvvisata gode di una forte impronta latina negli Stati Uniti che, piaccia o meno ai nostri ansiosi e ansimanti “sovranisti” del jazz, è il luogo che manifesta ancora le tendenze più aggiornate in ambito di musica improvvisata.  La cosa tra l’altro ha pure precise motivazioni sociali e culturali (da elaborare semmai meglio in diversa sede) legate al momento storico che si sta vivendo, in cui, mentre dalle nostre parti si è impegnati a straparlare di “invasione di immigrati” per una novantina di sbarchi sulle nostre coste, si assiste davvero a una forte immigrazione di massa verso gli Stati Uniti proveniente dal Centro e Sud America.

Sta di fatto che in Italia ai nuovi (e vecchi) talenti di origine latina che si potrebbero proporre al pubblico si preferiscono di gran lunga progetti di pseudo avanguardia jazzistica che per lo più scimmiottano malamente l’avanguardia storica. Progetti che sanno ormai di stantio e inconsapevole revival, ben distanti dall’idea di contemporaneità musicale che vorrebbero ancora attribuirsi, in una sorta di forzata “eterna avanguardia”. Il tutto pare servire solo a compiacere una ristrettissima élite pseudo intellettuale fatta ormai di “fighetti” che giocano a fare gli intellettualini a buon mercato e/o i “critici progressisti” (ma nei fatti profondamente reazionari) e di patetiche vecchie cariatidi post-sessantottine intente a sentirsi ancora giovani e “rivoluzionarie”(?), abbarbicandosi sino alla tomba agli stereotipi e alle icone musicali della loro gioventù. Più o meno è lo stesso modo di pensare e di comportarsi di mia madre quando pensa a Claudio Villa o Orietta Berti da contrapporre ai cantanti pop di oggi, non vedo grosse differenze, se non a favore di mia madre che almeno ha il buon gusto di non attribuirsi una patina di superiorità intellettuale che semplicemente non esiste.

Sta di fatto che il contributo latino al jazz contemporaneo non è più eludibile considerando la presenza di un gran numero di protagonisti latini sulla scena della musica improvvisata, emergenti o già emersi da tempo. Nomi come Javier Santiago, Dayramir Gonzalez, Elio Villafranca, Alfredo Rodriguez, Mike Rodriguez, Aruan Ortiz, o nomi già affermati da tempo come  Miguel Zenón, Luis Perdomo, Ed Simon, David Sanchez, Arturo & Adam O’Farrill, e altri ancora citabili dovrebbero essere presi più in seria coinsiderazione a livello concertistico.

Tra questi oggi vorrei proporre qualcosa di Dafnis Prieto, batterista, compositore e leader di sue formazioni che, avendo gia da alcuni anni prodotto incisioni interessanti, ha vinto con la sua big band proprio quest’anno il Grammy Award nella sezione Best Latin Jazz Album (sezione nella quale qualche anno fa aveva vinto anche il citato Arturo O’Farrill, musicista ormai prossimo ai 60 anni e presentato in Italia ad oggi in una sola circostanza) con il disco Back to the Sunset.

Proprio l’altro giorno ho avuto modo di ascoltare Triangles & Circles (del 2015 e di cui suggerisco di leggere a compendio questa recensione) una incisione in sestetto davvero brillante di cui vi propongo qui un estratto.

La formazione prevede Dafnis Prieto: batteria; Felipe Lamoglia: sassofono contralto; l’eccellente Mike Rodriguez alla tromba; Manuel Valera: piano; Johannes Weidenmuller: basso acustico ed elettrico; Peter Apfelbaum: sax tenore e soprano, melodica. Buon ascolto.

Uno standard di Tom Jobim

Nel nostro periodico girovagare tra le canzoni che sono divenute (anche) degli standard del jazz, oggi ci occupiamo di un tema di quel grande compositore che è stato A.C. Jobim, forse meno celebre di altri ma certo non meno bello. Stiamo parlando di Se Todos Fossem Iguais a Você, che nella versione in inglese prese il titolo di Someone to Light up My Life.

La canzone fu scritta e introdotta nello spettacolo teatrale del 1956 Orfeu da Conceição, scritto da Vinícius de Moraes, con musiche appunto di Antônio Carlos Jobim e testi di Vinícius de Moraes. Il soggetto è un adattamento della leggenda greca di Orfeo ed Euridice, ambientato nel contesto moderno di una favela a Rio de Janeiro durante il Carnevale. Da tale spettacolo prese spunto il film del 1959 Orfeu Negro (Black Orpheus).

La versione in inglese fu prodotta da Gene Lees e registrata per la prima volta nel 1965, tra le versioni cantate ve ne sono state di Frank Sinatra, Sarah Vaughan, Tony Bennett, Shirley Horn e Mark Murphy A questo link si possono trovare pressoché tutte le versioni della canzone.

Nel libro del 2011 Antonio Carlos Jobim: An Illuminated Man di Helena Jobim, sorella del compositore, l’autrice afferma che questa è stata la prima canzone scritta da Tom Jobim e Vinícius de Moraes dopo che si sono conosciuti formalmente nel 1956 al Vilarino, un bar di Rio frequentato da musicisti, intellettuali e giornalisti, trovandosi talmente in sintonia da darsi appuntamento lo stesso giorno a casa di Tom per iniziare a lavorare sulla musica di Orfeu da Conceição, dando il via così a una delle più celebri collaborazioni nella storia della musica popolare brasiliana.

Tra le versioni strumentali di jazzisti possiamo citare quelle di diversi chitarristi come Charlie Byrd, Herb Ellis & Charlie Byrd, Gene Bertoncini, Kenny Burrell, del vibrafonista Steve Nelson, di Herbie Hancock con Gal Costa, Ron Carter e Vitoria Maldonado e  Scott Hamilton con una band italiana, Buon approfondimento di ascolto.

Lo spirito panafricano di Horace Tapscott

Oggi accenniamo ad un jazzista davvero molto sottostimato rispetto al suo valore, ossia a Horace Elva Tapscott (6 aprile 1934 – 27 febbraio 1999),  che è stato un grande pianista, compositore e arrangiatore di un jazz avanzato e di costante rigore artistico, ma sempre saldamente ancorato in una tradizione musicale afro-americana dalle forti tinte africane.

Tapscott è nato a Houston, in Texas, ma si è trasferito a Los Angeles, in California, già all’età di nove anni, il che lo accomuna per sorte ai tanti jazzisti sottostimati che hanno stazionato come lui sulla West Coast. A quell’età aveva iniziato già a studiare pianoforte e trombone portandolo da adolescente ad avere l’opportunità di suonare con nomi come Frank MorganDon Cherry e Billy Higgins.

Dopo il servizio nell’Air Force nel Wyoming, è tornato a Los Angeles dove ha suonato il trombone con varie band, in particolare con quella di Lionel Hampton (1959-61). Poco dopo, però, smise di suonare il trombone concentrandosi definitivamente  sul pianoforte.

Nel 1961 ha formato la Pan Afrikan Peoples Arkestra (noto anche come PAPA, o The Ark) guidando l’ensemble nei decenni successivi con lo scopo di preservare, sviluppare e suonare musica afro-americana. Quando la sua visione crebbe, questa divenne solo una parte di un’organizzazione più grande nel 1963, l’Underground Musicians Association (UGMA), che in seguito cambiò nome in Union of God’s Musicians and Artists Ascension (UGMAA). Tra i musicisti che si sono esibiti nella Arkestra di Tapscott sono citabili i nomi di Arthur BlytheStanley CrouchButch Morris, David MurrayJimmy Woods.

A livello discografico le sue registrazioni degli anni ’70 e ’80 sono documentate su etichette Interplay e Nimbus. Tra i titoli della sua discografia, tutti al minimo molto interessanti, si possono consigliare i Dark Tree 1&2 per la Hatology, dove suona con musicisti del calibro di John Carter, Cecil McBee e Andrerw Cyrille oltre a quelli da cui più sotto ho ricavato gli estratti che lo mostrano nei diversi contesti appena citati. Notevoli sono le sue esibizioni in piano solo ben documentate ad esempio nella serie di 7 LP della Nimbus intitolata The Tapscott Sessions e registrate nei primi anni ’80, ma anche le sue incisioni degli anni ’90 sono tutte di alto livello. Riporto perciò per completezza la sua discografia da leader:

The Giant Is Awakened (Flying Dutchman, 1969) – as Horace Tapscott Quintet

Songs of the Unsung (Interplay, 1978)

In New York (Interplay, 1979)

Lighthouse 79, Vol. I, 1979

Lighthouse 79, Vol. II, 1979

Autumn Colors, 1980

At the Crossroads (with Everett Brown, Jr.), 1980

Dial ‘B’ for Barbra (Nimbus, 1981) – as Horace Tapscott Sextet

Live At Lobero, Vol. I (with Roberto Miranda and Sonship), 1981

Live At Lobero, Vol. II (with Roberto Miranda and Sonship), 1981

Dissent or Descent (Nimbus, 1984 [1998])

The Dark Tree vol. 1& 2 (HatArt, 1991) –

Arkestra Live in Chicago, 1993

Aiee! The Phantom (Arabesque, 1996)

Among Friends, 1995

Thoughts of Dar es Salaam (Arabesque, 1997)

Con la Pan-Afrikan Peoplese Arkestra

The Call, (Nimbus, 1978)

Flight 17, (Nimbus, 1978)

Horace Tapscott with the Pan-Afrikan Peoples Arkestra – Live at I.U.C.C., (Nimbus, 1979)

Horace Tapscott with the Pan Afrikan Peoples Arkestra and the Great Voice of UGMAA – Why Don’t You Listen?, Live at LACMA, 1998, (Dark Tree, 2019)

Musicista che merita senza dubbio l’attenzione di chi ancora non lo conoscesse e l’approfondimento di tutti gli altri.

Buon ascolto.