Lee Morgan quintet (1972)

Lee Morgan è stato uno dei talenti trombettistici più brillanti e influenti della storia del jazz. Emerso giovanissimo nel giro del grande jazz (esordì discograficamente già nel 1956 all’età di 18 anni), il trombettista di Filadelfia è presto diventato uno dei campioni dell’hard-bop, non a caso ingaggiato solo un paio di anni dopo in una delle migliori versioni dei Jazz Messengers di Art Blakey. Tuttavia, la sua idea di musica ha avuto una evoluzione nel corso degli anni, in un percorso artistico purtroppo interrotto bruscamente e tragicamente nel febbraio 1972 alla giovane età di 38 anni (giusto 52 anni fa) per dissanguamento, a seguito dello sparo della moglie Helen avvenuto allo Slugs’ Saloon, un jazz club nell’East Village di New York dove si stava esibendo la sua band.

L’esibizione tv tratta dal programma Soul!, registrata giusto il mese precedente la sua morte, è in qualche modo rappresentativa delle registrazioni dei concerti avvenuti un paio di anni prima al Lighthouse di Hermosa Beach in California e pubblicati nella loro interezza da Blue Note nel 2021. The Complete Live at the Lighthouse è un’ampia raccolta che presenta per la prima volta tutti i 12 set di musica registrati dal quintetto dal trombettista con la collaborazione del sassofonista Bennie Maupin, il pianista Harold Mabern, il bassista Jymie Merritt e il batterista Mickey Roker. Una edizione definitiva è disponibile in un set da 8 CD e un set in vinile da 12 LP in edizione limitata che comprendono più di 4 ore di musica inedita. Un’ opera discografica di grande valore musicale da non farsi sfuggire che merita l’attenzione dei veri appassionati del jazz.

Il filmato proposto è perciò un documento storico di grande rilievo. La formazione nel filmato è la seguente: Lee Morgan – fluegelhorn, Billy Harper – tenor sax, Harold Mabern – piano, Jymie Merrit – bass, Freddie Waits – drums. Registrato il 26 Gennaio 1972, mentre il repertorio dei brani eseguiti è:

0:16 – I Remember Brit (with “Frère Jacques” intro) (Harold Mabern) 9:47 – Lee Morgan introduces songs 10:20 – Angela (Jymie Merrit) New York City, PBS studios. Buon ascolto e buon fine settimana col quintetto di Lee Morgan.

Andiamo in relax ferragostano…

Con oggi ci prendiamo un breve periodo di riposo relativamenta a nuove pubblicazioni di scritti dedicati al jazz e alla musica afro-americana. Nel frattempo, per chi avesse tempo e voglia, è possibile sfogliare il corposo archivio del blog contenente ad oggi 1665 articoli divisi per data o tipologia indicata nella colonna a destra, oppure ancora sfruttando l’apposita casella di ricerca a parola chiave.

Ci risentiamo nella settimana successiva a quella del Ferragosto, augurando a tutti i nostri lettori altrettanto felice e rilassante periodo di vacanza.

Riccardo Facchi

David Sanborn at Montreux Jazz Festival, 1981

Ci sono strumentisti sopraffini che, a causa del loro successo e/o popolarità, hanno pagato una sottovalutazione critica abbastanza pesante, solo in parte giustificata da qualche scivolone discografico di troppo, o semplicemente per una eccessiva frequentazione del cosiddetto ambito “commerciale” relativo al business discografico. Uno di questi è stato David Sanborn, un contraltista invece di grande perizia al quale non è stata perdonata la frequentazione di quel genere “fusion” poi sfociato nel cosiddetto “smooth jazz”, ma il cui modo di suonare ha influenzato molti strumentisti del suo genere, specie dagli anni ’80 in poi. Il suo particolare timbro strumentale, quasi metallico e ricco di armonici, è stato infatti preso a modello di molti contraltisti (un nome citabile per tutti è quello di Chris Hunter, che non a caso ha sotituito proprio Sanborn nell’orchestra di Gil Evans, e un altro potrebbe essere quello di Kenny Garrett). In un certo senso Sanborn ha rappresentato negli anni ’80 per i contraltisti quello che ha rappresentato Michael Brecker per i tenorsassofonisti.

Sanborn si fece un nome nel jazz proprio nella big band di Gil Evans in dischi memorabili del pianista e arrangiatore canadese incisi per la RCA intorno alla metà degli anni ’70, intitolati rispettivamente The Gil Evans Orchestra Plays The Music Of Jimi Hendrix e There Comes a Time, I suoi spunti solistici in Angel e King Porter Stomp, annunciarono all’epoca la comparsa di un prodigioso talento del sax contralto, il cui contributo fu utilizzato a tappeto nella veste di sideman in una molteplicità di incisioni delle più note star della musica pop e r&b americana. Non a caso si rintraccia la sua presenza in dischi di successo già nel 1972, con Stevie Wonder nell’album Talking Book, ma la lista di sue partecipazioni di rilievo è davvero molto lunga e importante.

Sanborn è nativo di Tampa, in Florida, ed è cresciuto a Kirkwood, nel Missouri. Ha sofferto di poliomielite per otto anni  in gioventù, iniziando a suonare il sassofono su consiglio di un medico per rafforzare i muscoli del torace indeboliti e migliorare la respirazione. Una influenza precoce fu per lui il sax alto di Hank Crawford, all’epoca membro della band di Ray Charles. Sanborn ha frequentato il college alla Northwestern University, ma si è trasferito poi all’Università dell’Iowa dove ha suonato e studiato con il sassofonista JR Monterose

Potrebbe sorprendere molti puristi che hanno in orrore la “fusion” sapere che Sanborn ha studiato con sassofonisti dell’ambito dell’avanguardia free e post free come Roscoe Mitchell e Julius Hemphill, considerando che nel 1993 è apparso in Diminutive Mysteries di Tim Berne, un progetto dedicato proprio a Hemphill, scomparso prematuramente nel 1995, e che il suo album del 1991, Another Hand, comprendeva anche musicisti d’avanguardia. Il che dovrebbe far capire, a maggior ragione oggi nella scena jazz contemporanea, come certi steccati ideologici e certe “dottrine” musicali, non abbiano più molto senso critico.

Perciò, oggi abbiamo dedicato a David Sanborn un bel concerto rintracciato in rete, datato 1981 e registrato al Montreux Jazz Festival di quell’anno, ossia nel suo pieno periodo “fusion”, più o meno corrispondente al periodo di registrazione di Hideaway e Voyeur. Al di là se piaccia o meno il genere si può ammirare la qualità dello strumentista e la sua capacità improvvisativa, senza trascurare la presenza nella band del vibrafonista e leader degli Steps (poi Steps Ahead) Mike Mainieri. Buon ascolto e buon fine settimana con David Sanborn.

Jimmy Owens – The Monk Project (IPO, 2011)

Gli album costruiti sull’idea di rielaborare il repertorio di temi di Theloniuos Monk sono veramente tanti, forse troppi, in discografia, procurando talvolta assuefazione e persino versioni noiose o semplicemente mediocri, del tutto evitabili anche solo per rispetto del geniale autore. Monk è uno dei compositori più frequentati dai musicisti del jazz moderno, i quali si trovano spesso di fronte a un dilemma: essere fedeli alla visione e allo spirito del compositore, o affrancarsene puntando su versioni più personali e/o ardite? Nel primo caso si rischia di replicare ciò che è stato fatto solo meglio dall’autore, poiché i temi monkiani non permettono di discostarsi molto dalla particolarità delle linee melodiche (peraltro spesso su scheletri armonici strabattuti del songbook americano); nel secondo si rischia di allontanarsi troppo dalla unicità del mood monkiano distorcendone il senso.

Questo lavoro in settetto del trombettista Jimmy Owens cade probabilmente nel secondo tipo di rischio, cercando di rendere personale con nuovi arrangiamenti il materiale affrontato, ma, a parte qualche eccezione (la lunga versione inspiegabilmente rallentata di Epistrophy, ad esempio, sul finale del disco mi ha lasciato perplesso per mancanza di brillantezza esecutiva e una certa pesantezza ritmica), l’interpretazione del trombettista pare comunque riuscita, coadiuvato anche dagli eccellenti musicisti scelti per il progetto. Gli esempi sono diversi: Well’you Needn’t presenta un bell’ammodernamento armonico e ritmico, che vede protagonista il pianoforte di Kenny Barron. Interessante la versione in 3/4 di Let’s Cool One, che vede come protagonista solistico, oltre al trombettista, il tenorsassofonista Marcus Strickland. L’ellingtoniamo It Don’t Mean A Thing (If It Ain’t Got That Swing) – pensando al mirabile album di Monk Plays Duke Ellington del 1955 – e l’enfatizzata pronuncia blues in Blue Monk sono invece il regno del “grasso” ed esilarante trombone sordinato di Wycliffe Gordon, mentre il leader si dedica maggiormente alla delicata versione di Reflections, tema la cui bellezza melodica non concede molto spazio alle escursioni avventurose.

Complessivamente Owens sceglie coraggiosamente di rinunciare a una delle peculiarità della musica di Monk, smussando le celebri e inconfondibili angolosità dei temi monkiani con risultati per la maggior parte comunque apprezzabili in termini di resa originale del progetto, ma a molti la cosa potrebbe non piacere. Lascio al gusto di ciascun fruitore la propria preferenza.

Riccardo Facchi

Un po’ di meritato relax

Con l’nizio di agosto il blog si prende un paio di settimane di riposo, un’occasione a chi vorrà per rivisitare alcuni dei 1563 articoli in archivio e pubblicati dall’ottobre 2015 ad oggi. Per chi è già in vacanza e può dedicare più tempo alla lettura suggerisco la visione degli approfondimenti contenuti nella sezione saggi.

Colgo l’occasione per augurare buone vacanze ai lettori, ci risentiamo dopo la metà del mese.

Immanuel Wilkins Quartet live at PhilaMOCA – JAZZ NIGHT IN AMERICA

Il sassofonista e compositore contralto Immanuel Wilkins è uno dei nuovi talenti sassofonistici del jazz emersi di recente e che ha già attirato l’attenzione di critica e appassionati del genere.

Cresciuto a Upper Darby, in Pennsylvania, appena fuori Filadelfia, Wilkins si è formato musicalmente non solo nei circoli jazz ma anche alla Prayer Chapel Church of God, dove suonava il pianoforte e in effetti quel tipo di influenza, così cara e presente storicamente nella comunità afro-americana, la si coglie perfettamente nel suo modo di suonare, caratterizzato da una notevole componente melodica in fase di composizione e da un fraseggio sullo strumento molto articolato ed espressivo.

Dopo essersi diplomato al liceo, Wilkins si è trasferito a New York City nel 2015 per frequentare la Juilliard School, laureandosi nel 2019. In città, ha incontrato il trombettista e compositore Ambrose Akinmusire, che gli ha fatto da mentore e lo ha aiutato a proporsi sulla scena jazz. Ha anche incontrato un musicista che avrebbe cambiato la sua vita professionale, Jason Moran, l’affermato pianista e compositore che lo ha portato con sé in tournée. Ha partecipato con successo infatti al progetto intitolato “In My Mind: Monk at Town Hall, 1959” di Moran, una serie di esibizioni dal vivo in onore della grande eredità di Thelonious Monk. Da allora Wilkins ha lavorato con una vasta gamma di artisti tra cui Solange Knowles, Gretchen Parlato, Wynton Marsalis, Gerald Clayton, Aaron Parks e Joel Ross.

La Blue Note Records ha pubblicato il suo più che promettente album di debutto, Omega, nel 2020, mentre è recentemente stato già pubblicato il suo secondo lavoro, intitolato The 7th Hand.

Lavorando con la sua band formata da Micah Thomas al piano, Daryl Johns al basso, Kweku Sumbry alla batteria proponiamo ai lettori del blog questo bel concerto presentato da Ars Nova Workshop in collaborazione con WRTI. Questa finestra di 35 minuti sulla performance cattura diversi momenti interessanti: il profondo ondeggiare di Don’t Break, spinto dai sicuri poliritmi di Sumbry; le imploranti tonalità gospel di Fugitive Ritual, Selah, che suscita un assolo brillantemente ritmato da Thomas; la feroce intensità di Lighthouse, che trova Wilkins a guidare la sua band attraverso mari scuri e agitati. Tutte le composizioni sono ad opera di Wilkins. Buon ascolto e buon fine settimana.

Happy New Year!

Auld Lang Syne, nota in Italia come Valzer delle candele, è una canzone tradizionale scozzese diffusissima nei paesi di lingua inglese, dove viene cantata soprattutto nella notte di capodanno per dare l’addio al vecchio anno e in occasione di congedi, separazioni e addii. Il testo della canzone è un invito a ricordare con gratitudine i vecchi amici e il tempo lieto passato insieme a loro.

Perciò con questo inno, che propongo in un paio di particolari versioni, ne approfitto per ringraziare e augurare un felice Anno Nuovo tutti gli amici del blog, che peraltro si avvia col nascente 2022 al settimo anno di esistenza.

Auguri!

Merry Christmas in salsa afro-americana

Per fare gli auguri di Buon Natale e Buone Feste ai lettori del blog, ho scelto di proporre due classici temi natalizi interpretati da grandi figure della musica afro-americana.

La prima proposta riguarda un magnifico tema scritto dal cantante jazz Mel Tormé e qui interpretato da par loro da Ray Charles, Nat King Cole e Whitney Houston. La seconda è White Christmas del celebre songwriter Irving Berlin e che gode di innumerevoli versioni, di cui quella di Bing Crosby del 1942 è probabilmente la più nota. La mattina dopo aver scritto la canzone, Berlin corse al suo ufficio e disse alla sua segretaria: “Prendi la penna, prendi appunti su questa canzone. Ho appena scritto la mia migliore canzone; diavolo, ho appena scritto la migliore canzone che chiunque abbia mai scritto!“.

La scelta è caduta in questo caso su Mahalia Jackson, Otis Redding a cui abbiamo aggiunto una versione strumentale con tanto di improvvisazione del quintetto di Charlie Parker con Kenny Dorham alla tromba registrata al Royal Roost nel 1948 e ben nota agli appassionati del jazz.

Perché proporre versioni di cantanti afro-americani? Bé, al di là della scontata coerenza col titolo di questo blog, vi è da osservare che la loro religiosità, in questo caso associata al Natale, è storicamente e culturalmente caratterizzata da un fervore spirituale e un feeling gioioso non comune. Inoltre, i cantanti neri sanno dimostrare anche in questi casi la loro abilità nel saper manipolare qualsiasi genere di materiale musicale, infiorettando le loro interpretazioni di quel certo loro blues feeling in modo unico e inconfondibile. Le versioni di Ray Charles e Otis Redding in questo senso sono quanto mai indicative.

Buon ascolto e Auguri a tutti!

I diversi modi di improvvisare nel jazz

Per molti il jazz è sinonimo di improvvisazione. Per la verità, non è esattamente il suo elemento distintivo, anche se è quasi sempre presente, occorrerebbe piuttosto considerare in termini più propriamente idiomatici il caratteristico aspetto relativo alla accentazione ritmica e alla pronuncia a renderlo davvero inconfondibile. Tuttavia, e senza alcuna pretesa musicologica o teorica in questo scritto prettamente divulgativo, ci sarebbe da domandarsi di quale tipo di improvvisazione si sta parlando, nel senso che essa ha avuto una sua evoluzione storica nel corso dei decenni. Il che non significa che l’emergere di una nuova modalità di improvvisazione implichi l’abbandono della precedente, nei termini cioé erroneamente intesi da quella “evoluzione progressiva” che si è spesso attribuita in letteratura al linguaggio jazzistico. Il fatto è che nella musica, e più in generale nella cultura africana-americana, non si abbandona mai niente rispetto al passato e vi è un continuo riagganciarsi alle proprie radici e alla propria tradizione, ridiscutendole alla luce di nuove evoluzioni linguistiche o istanze innovative.

Innanzitutto, occorrerebbe non confondere il concetto di improvvisazione con quello di solismo, nel senso che, come dovrebbe essere peraltro noto a ciascun appassionato del genere, il jazz è passato dalla improvvisazione collettiva (caratteristica distintiva dello stile New Orleans propria del jazz, grosso modo, del primo ventennio del secolo scorso) a quella solistica, tramite la figura storica e dirimente di Louis Armstrong. Tuttavia, anche in questo caso epocale, non si può parlare di una transizione netta e definitiva, in quanto la prima non è stata poi del tutto abbandonata, invece più volte ripresa (non inteso in termini revivalistici) nei decenni successivi, o da singoli personaggi, o da movimenti stilistici collettivi, come nel caso esemplare del Free Jazz anni ’60 o del post Free anni ’70.

Perciò l’improvvisazione nel jazz si è evoluta integrando precedenti modalità con quelle man mano emerse nel tempo. Potremmo perciò distinguere l’iniziale improvvisazione per parafrasi, o motivica, da quella prodotta su base armonica (chorus), sino a quelle più recenti basate sui “modi” o sulla cosiddetta “free improvisation”, ma si potrebbero distinguere delle categorie miste successive, introducendo anche il concetto di sistema tonale o atonale, considerando ad esempio la cosiddetta modalità “in ‘n out”, con musicisti in grado cioè di suonare “border line”, uscendo e rientrando nel sistema tonale durante una stessa improvvisazione (si pensi a musicisti come Charles Mingus, Eric Dolphy, Joe Henderson, Jackie McLean, Bobby Hutcherson, Andrew Hill e via discorrendo con i possibili esempi). Vi sono poi degli autentici teorici dell’improvvisazione che si sono evoluti in approcci innovativi portati anche a livello didattico (si pensi ad esempio all’approccio triadico cromatico di George Garzone, sul quale abbiamo recentemente postato un articolo).

Non possiamo perciò associare a singoli improvvisatori una sola di queste (o altre) modalità di improvvisazione. Si direbbe piuttosto che i migliori improvvisatori sono in grado di utilizzarle tutte, a seconda dei contesti musicali e dei momenti, sempre però tenendo conto delle diverse epoche storiche in cui i singoli musicisti/improvvisatori sono vissuti rispetto al tempo di emersione delle diverse e innovative modalità di improvvisazione. Dunque, è evidente – giusto per esemplificare il concetto – che non possiamo aspettarci da un jazzista del periodo pre-bellico una improvvisazione in stile modale, teorizzata come noto da George Russell nella prima metà degli anni ’50 e diffusasi fortemente poi nella comunità jazzistica tramite le fondamentali opere discografiche di Miles Davis e John Coltrane, piuttosto che quelle successive di McCoy Tyner o Herbie Hancock, tanto per citare i nomi più noti.

È perciò evidente che dai musicisti dello stile New Orleans ci possiamo aspettare improvvisazioni collettive tipicamente per abbellimenti del tema base o parafrasi, mentre da jazzisti come Coleman Hawkins o i boppers anni ’40 improvvisazioni su giro armonico, ma già in Sonny Rollins negli anni ’50 si coglie una forte ripresa della improvvisazione motivica, peraltro mai abbandonata anche dopo il manifestarsi del jazz modale o della free improvisation e rilevabile ad esempio e in parte in musicisti emersi più di recente, come Keith Jarrett o Brad Mehldau, il che non fa di questi musicisti, o di altri ancora, dei “conservatori”, appellativo da noi abusato e non di rado utilizzato in modo improprio. Il progressismo di derivazione marxista, insomma e tanto per intenderci, non ha nulla a che vedere con la tradizione della musica africana-americana e non ha alcun senso tentare di applicarlo a quell’ambito. L’argomento è vasto e meriterebbe un adeguato approfondimento. Questo è solo uno spunto, lascio a ciascun lettore le proprie riflessioni.

Riccardo Facchi

Il blog compie un lustro

Ebbene sì, sono già passati cinque anni dalla pubblicazione del primo articolo su questo spazio messo a disposizione dalle risorse della rete. Come per tutte le passioni, il tempo scorre senza accorgersene. Sta di fatto che il blog ha preso progressivamente piede. Sono i numeri a indicarlo, essendo costantemente in aumento anno dopo anno, sia negli accessi che nei visitatori, nonostante non lo si alimenti con alcuna attività di sponsorizzazione via social.

Ad oggi ci sono in archivio ben 1.272 articoli disponibili per la consultazione, divisi secondo le categorie illustrate nella colonna in basso a destra rispetto ai testi. Una sorta di piccola enciclopedia del jazz (e dintorni musicali), con scritti adatti a tutti i gusti. Ovviamente il focus musicale è e rimane centrato sul jazz e la Black Music, come da intenti iniziali, ma quando è possibile, o riteniamo ne valga la pena, cerchiamo di uscire da quell’ambito, compatibilmente con le nostre competenze che sono specifiche e quindi inevitabilmente limitate. Ammettiamo le nostre deficienze, in quanto non apprezziamo la genericità che, per apparire musicalmente “aperti”, rischia non di rado di sfociare in certa “tuttologia” musicale imperante in rete, cosa che lasciamo volentieri ad altri.

Come già detto nei precedenti anniversari, il nostro obiettivo è e continuerà ad essere di genere divulgativo, di impostazione principalmente storico-culturale e meno legata alla stretta attualità, cercando di fornire una buona qualità degli scritti, per quanto ci è possibile in termini di tempo dedicato. Riteniamo che la musica, e in particolare il jazz, meriti di essere conosciuta per la molteplicità di contributi di cui ha goduto e non considerata solo per i soliti pochi nomi inflazionati che spesso non aiutano di fatto a disegnarne un quadro assai più complesso e interessante di quello che normalmente si descrive.

E’ una scelta che sta pagando, in quanto ci rendiamo conto che così facendo anche gli articoli che periodicamente riproponiamo a distanza di anni, non rischiano di risultare datati. La cosa che in particolare ci soddisfa è constatare come le statistiche divise per articoli rivelino, non a caso, diverse visite agli articoli vecchi e persino a scritti di una certa lunghezza, come i saggi, di solito abbastanza proibitivi per i normali tempi di accesso in rete di ciascuno.

Rimaniamo sempre disponibili all’eventuale partecipazione di altre opinioni e idee di chi gradisse scrivere qualcosa di pertinente per il blog, ovviamente sempre previa nostra valutazione interna degli scritti. Peraltro, osserviamo anche un aumento delle partecipazioni nei commenti (sia direttamente sul blog che via social) agli articoli, in cui non di rado si aggiungono contributi, dettagli, precisazioni e confronti di opinioni che ne arricchiscono il contenuto.

Speriamo di poter proseguire sempre in meglio, tempo a disposizione permettendo. Facciamoci gli auguri di buon compleanno.

Riccardo Facchi

Avviso ai naviganti…

Vista la positiva esperienza del mese di Agosto e considerata ormai l’ampia visualizzazione giornaliera degli affezionati lettori a decine di vecchi articoli, abbiamo deciso di proseguire anche nei mesi prossimi nell’aggiornamento periodico del blog. Gli aggiornamenti non verranno cioè più fatti quotidianamente, lasciando così più tempo per metabolizzare gli scritti (specie quando discretamente lunghi, o quando affrontano argomenti di rilievo come quello pubblicato ieri), osservazione che peraltro ci è stata fatta presente più volte e che quindi abbiamo pensato ora di accogliere.

Il blog si avvia ormai a compiere un lustro di intensa attività, che ha permesso la pubblicazione ad oggi di ben 1253 articoli da poter sfogliare, tutti presenti e consultabili nell’archivio, divisi per progressiva mensilità, o per categoria argomentale. Nei giorni di mancato aggiornamento verrà eventualmente riproposto all’attenzione (con link sui social) qualche articolo del passato giudicato di particolare interesse o ancora di attualità, come peraltro facciamo già di regola durante il fine settimana. Grazie per l’attenzione.

Riccardo Facchi

Il mattino ha l’oro in bocca

David Murray, classe 1955, non è certo un jazzista di primo pelo e nemmeno è mai stato tra i miei sassofonisti preferiti, ma ha ben rappresentato nei decenni precedenti un certo tipo di approccio afro-americano allo strumento legato alla tradizione pre-coltraniana nel tramite di figure di riferimento della sua generazione di sassofonisti quali Albert Ayler Archie Shepp. La sua discografia opulenta forse non lo ha aiutato a produrre sintesi musicali di livello assoluto anche se in molti suoi lavori sono rintracciabili cose notevoli seppur in modalità discontinua. I suoi dischi registrati per esempio per la Black Saint con l’ottetto (Home) sono pregevoli e diverse sono le composizioni di rilievo. Tra queste oggi propongo Morning Song, una canzone dallo spirito comunicativo estroverso e vitale molto prossimo all’umore che si può manifestare al mattino appena svegli. Mai come ora ne abbiamo bisogno.

A Swinging Christmas

La discografia jazz è colma di registrazioni dedicate alle musiche del Natale, alcune di buon livello, altre del tutto superflue, basate per lo più su banali motivazioni commerciali. Tuttavia, qualche bella eccezione c’è stata, con alcune interpretazioni diventate un “must” del periodo natalizio. Ve ne propongo qualcuna tra le mie preferite prodotte da grandi interpreti in ambito jazzistico.

Nell’augurare ai lettori di passare un sereno Natale, segnalo anche che il blog si prende qualche giorno di pausa con gli aggiornamenti che riprenderanno dopo la festività di Santo Stefano.

a risentirci presto.