Una grande suite del duo Ellington- Strayhorn

E’ noto a molti che Duke Ellington fu criticato per molto tempo nel modo di comporre e strutturare diverse sue suites, secondo una argomentazione costantemente derivata dalla concezione accademica europea del comporre per la quale le sue composizioni a largo respiro risultavano spesso un semplice assemblaggio di temi slegati tra loro e non sviluppati secondo i classici canoni sinfonici. Ovviamente col tempo si è compreso che l’errore non stava in Ellington ma nel criterio improprio utilizzato nel valutarlo, un criterio che non teneva conto della cultura di provenienza del compositore (quella africana-americana) che possedeva e possiede caratteristiche formali e intenti espressivi molto diversi da quelli usualmente adottati, in quanto in Ellington il legame tematico e lo sviluppo è spesso più di natura narrativa.

Tuttavia ciò non ha impedito di apprezzare molte sue opere, alcune delle quali più di altre proprio perché seguivano modalità formali prossime a quelle classiche. Una di queste è la Suite Thursday, un omaggio – anche nell’assonante titolo – allo scrittore John Steinbeck e al suo romanzo Sweet Thursday, uscito nel 1954. La suite è stata composta e registrata da Ellington insieme al fido Billy Strayhorn nel 1960, ma ne esistono versioni live davvero eccellenti, persin migliori, come quella esposta a Parigi nel 1963 e presente nel doppio LP The Great Paris Concert che sto per proporvi.

L’opera è divisa in quattro movimenti secondo una forma propria delle sinfonie:

  1. “Misfit Blues”
  2. “Schwiphti”
  3. “Zweet Zurzday”
  4. “Lay-By”

Tutti e quattro i movimenti sono godibili per diverse ragioni. Dal primo movimento costruito su un intervallo di sesta discendente, all’arditezza ritmica e timbrica del secondo movimento, alla eleganza intrinseca della melodia del terzo, arrivando alla brillante chiusura swing in forma blues del quarto. Ellington ci consegna così l’ennesimo suo capolavoro, un  tesoro nascosto che suggerisce un godibile ascolto a chi ancora non conoscesse l’opera e un attento ri-ascolto per tutti gli altri.

Shorty Rogers & The West Coast Giants

Ultimamente abbiano parlato di diversi musicisti del cosiddetto West Coast Jazz, perché riteniamo che sia stato un periodo stilistico del jazz un po’ troppo affrettatamente liquidato dalla critica come marginale alla evoluzione jazzistica, quando invece ha elaborato un linguaggio musicalmente molto più originale ed interessante di quanto solitamente si sostenga.  L’argomento principale di certe tesi critiche è che si sia trattato di una fase estetizzante e relativamente povera di contenuti espressivi, perlomeno di quelli che fanno ritenere il jazz sempre e comunque una musica in eterna fase “rivoluzionaria” in cui una forte connotazione di contrapposizione al sistema politico e sociale americano deve risultare dominante. Ora non è che questo aspetto non sia stato importante nella storia di questa musica, anzi, ma l’argomentazione a supporto ci pare non tener conto della molteplicità di sfacciature che la cultura e la società americane presentano e trasferiscono sul piano musicale, non trascurando appunto l’aspetto geografico di un paese, gli Stati Uniti, estremamente vasto (stiamo parlando quasi di un continente intero) che in realtà presenta una immagine di sé composta, per così dire, da tante diverse “americhe”.

Essendo una persona proveniente da profonda tradizione contadina, ho la tendenza a non scartare nulla del jazz, un po’ come si fa con il maiale, senza tener conto della estrema preparazione musicale e strumentale di molti esponenti del West Coast Jazz che ha pochi paragoni. Basterebbe citare qualche nome per rendersene conto, uno su tutti, il batterista Shelly Manne che a nostro avviso è uno dei pochi bianchi a poter entrare nell’olimpo dei grandi batteristi neri della storia.

Per l’occasione ho rintracciato in rete una sorta di rimpatriata tra alcuni importanti esponenti di quella fase stilistica che si sono presentati sul palco insieme alcuni decenni dopo all’ Aurex Jazz Festival ’83 in Giappone. La formazione è stellare e prevede:

Shorty Rogers (flh), Bud Shank (as), Jimmy Giuffre (ts), Bob Cooper (ts), Bill Perkins (bs), Pete Jolly (p), Monty Budwig (b), Shelly Manne (ds).

Buon ascolto e buon fine settimana.

La sciagura del sovranismo (musicale e non solo)

imagesIl cosiddetto sovranismo pare essere una tendenza di oggi particolarmente spiccata in Italia, ma in realtà è presente in buona parte della attuale Europa (e persino negli Stati Uniti con l’avvento di Trump). Il problema dei flussi migratori sta mettendo in evidenza l’incapacità tutta europea di affrontare un problema epocale che pare avere tutta l’intenzione di durare a lungo. Conseguentemente, si sta sviluppando una marcata tendenza alla chiusura nei diversi confini nazionali, non solo in termini migratori, ma anche in quelli economici e di scambio commerciale (vedi dazi e/o la difesa ad oltranza dei propri prodotti “made in”, materiali o immateriali), culturali e persino artistici. Il che pare una contraddizione in tempi di globalizzazione e di interscambio internazionale, anche se forse occorrerebbe parlare più correttamente di reazione ad alcuni effetti deleteri causati dalla stessa sfrenata globalizzazione. Una reazione che, tuttavia, pare dettata dalla paura del futuro e dallo sbando di un intero continente, provocato probabilmente dal sentirsi spodestato di un primato storico e dal profondo disagio nel dover affrontare il proprio progressivo declino, peraltro sempre più evidente.

Tale tendenza comportamentale da tempo si manifesta anche nell’ambito di nostro interesse, ossia quello musicale e in particolare del jazz, almeno per quel che riguarda l’Italia. Si badi bene, ciò non ha avuto inizio dall’avvento in politica degli attuali populismi giunti anche al governo, ma era ed è ancora rintracciabile in insospettabili ambiti auto dichiaratisi “progressisti” o “di sinistra”.  D’altronde si sa che in Italia la gestione culturale è sempre stata attribuibile a tale parte politica. Senza voler ricordare i recenti goffi tentativi di imporre (tal On. Morelli della Lega) alla radio canzoni italiane ogni tre trasmesse, in pieno regime autarchico degno del Ventennio fascista, già ai tempi dei precedenti governi Renzi e Gentiloni, l’allora e purtroppo attuale ministro della Cultura seguiva già chiaramente un tal genere di impostazione per quanto modulata e articolata in modo diverso e meno pacchiano, privilegiando il “prodotto” musicale italiano su quello straniero, come se si trattasse di una mozzarella di bufala o di un prodotto vinicolo DOC.

Riguardo poi nello specifico il jazz e la relativa proposta concertistica nel paese, da decenni si nota un progressivo, velato, ostracismo verso le proposte americane, tanto ormai dal far passare la gran parte dei cartelloni festivalieri, spacciati ancora per internazionali, composti quasi esclusivamente da nomi italiani o al più europei, al grido di “W l’Italia del jazz e W L’Europa”. Per quanto la cosa possa essere ritenuta parzialmente comprensibile, almeno quando si usano soldi pubblici, tentare di nazionalizzare la cultura e l’arte mi pare vada contro l’idea stessa di universalità e di libero accesso delle stesse. Quel che conta dovrebbe essere la qualità delle proposte non la loro nazionalità e, riguardo al jazz, negare la preponderanza ancora oggi della scena americana è un chiaro atto disinformativo e mistificatorio.

Come però si dice spesso, si rischia, più in generale, di creare un rimedio peggiore del male, poiché tendere all’isolamento e alla chiusura con il mondo esterno, a tutti li livelli, significa creare le condizioni di un progressivo naturale degrado della società, del pensiero collettivo e individuale e, di conseguenza, anche della cultura e dell’arte.

Anni fa avevo prodotto uno scritto pensato per altri scopi, ma che credo possa, se non avere una valenza sul tema, almeno favorire una riflessione. Visti i personali studi scientifici di base ho cercato di utilizzare le mie conoscenze per spiegare concetti come quello esposto. Ovviamente non ho la pretesa di attribuire rigorosa valenza scientifica a certe deduzioni (lascio tale presunzione in carico a certa pseudo musicologia che cerca di attribuirsi un alone di “scientificità” senza aver coltivato di proprio seri studi scientifici che documentino l’idonea pratica di certe metodologie scientifiche), in quanto utilizzo alla fine un criterio analogico nel ragionamento che è sostanzialmente inammissibile in ambito almeno di scienze esatte come la fisica o la matematica. Al di là di possibili imprecisioni o approssimazioni credo, almeno a livello intuitivo, di non essere andato molto lontano da una possibile spiegazione sul tema. Ci proviamo.

Premessa scientifica

Si possono osservare in natura molteplici tipi di energia, che si sviluppano nello spazio sotto forma di campi energetici. Ad esempio:

  • elettromagnetica
  • gravitazionale
  • chimica
  • nucleare
  • termica

Tutte le energie si misurano allo stesso modo (in Joule) e quindi sono sostanzialmente equivalenti. Tuttavia in esse si evidenzia una loro differente qualità o caratteristica nel modo di manifestarsi. Ciò viene indicato identificando ad esempio se esse siano di tipo potenziale, piuttosto che cinetico, o calore, ecc.

La termodinamica è la scienza che studia le trasformazioni energetiche ed è, tra le scienze, quella più generale, che non può essere contraddetta da nessuna delle altre branche della scienza ed è quindi in grado di inquadrare tutti gli eventi in natura. Essa è applicabile in tutto l’universo, sia che si tratti di un insieme di particelle, piuttosto che di un insieme di galassie o di individui.

In buona sostanza possiamo affermare che ogni evento in natura può accadere solo se esso risulta termodinamicamente possibile, anche se non è detto che ciò basti a renderlo certamente possibile. Il rispetto delle condizioni termodinamiche è dunque una condizione necessaria ma non sufficiente affinché l’evento possa avvenire nel tempo, perlomeno in tempi limitati.

Per poter studiare gli eventi dal punto di vista termodinamico occorre sempre ricondurli ad un cosiddetto “sistema termodinamico”, che è in definitiva l’oggetto di studio della termodinamica.

Il 1° principio della termodinamica, detto anche “principio di conservazione dell’energia” afferma che in natura “nulla si crea e nulla si distrugge e che quindi l’energia dell’universo è costante e in continua trasformazione”.

In natura si è tuttavia osservato che l’energia di un sistema termodinamico, nelle sue varie forme, evolve nel tempo non in maniera casuale, ma tende a trasformarsi spontaneamente in una direzione ben determinata. Infatti, se non interviene nessuna causa esterna al sistema, essa tende a trasformarsi, in ultima istanza, sempre in energia termica o calore.

Ciò significa che, pur conservandosi quantitativamente, l’energia possiede un diverso valore o qualità nelle forme in cui si manifesta in natura e che evidentemente il calore rappresenta la forma di energia più degradata a cui tutte le energie e i relativi sistemi termodinamici tendono spontaneamente.

A ciò risponde il cosiddetto 2° principio della termodinamica che afferma appunto l’impossibilità di trasformare integralmente il calore in energia più pregiata ogni volta che si manifesta una trasformazione, senza introdurre dell’energia o del lavoro dall’esterno nel sistema termodinamico. (⇒irreversibilità dei processi in natura).

Ciò rende evidente che in natura il calore è il tipo di energia di qualità più bassa, mentre ad esempio l’energia potenziale (gravitazionale o elettrica), è quella di qualità più elevata.

Occorre pertanto trovare e definire un secondo parametro fisico, oltre all’energia, che permetta di descrivere la “qualità” dell’energia, o meglio del livello energetico, di un sistema termodinamico. Questo parametro si chiama entropia.

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ENTALPIA ED ENTROPIA DI UN SISTEMA TERMODINAMICO

In definitiva, l’evolversi di un sistema termodinamico qualsiasi (che si trovi a pressione costante, e sulla Terra siamo in queste condizioni) può essere descritto, istante per istante, da due funzioni di stato (o potenziali termodinamici) chiamate rispettivamente entalpia ed entropia. Evidenziandone la dipendenza dal tempo t (ossia dall’evoluzione temporale), definiamo:

L’entalpia H(t), che rappresenta l’energia o livello energetico contenuto dal sistema.

l’entropia S(t), che rappresenta il grado di disordine del sistema ed è un indice del livello di degradazione dell’ energia raggiunto dal sistema stesso.

La coppia di valori H(t) e S(t) individua e rappresenta istante per istante lo stato di un qualsiasi sistema termodinamico.

TIPOLOGIA DEI SISTEMI TERMODINAMICI

Qualsiasi evento o fenomeno fisico in natura può essere ricondotto e descritto termodinamicamente in tre categorie di sistemi termodinamici: sistemi isolatichiusi  e aperti.

Ogni+sistema+è+circondato

Sono considerati sistemi termodinamici isolati quelli in cui, una volta definiti i “confini” del sistema stesso, non avviene alcuno scambio di materia od energia con tutto ciò che viene considerato esterno al sistema termodinamico stesso, così come definito. Viceversa sono considerati aperti i sistemi in cui tale scambio è invece possibile, in un qualsiasi istante della sua evoluzione temporale.

Il 2° principio della termodinamica, applicato ai sistemi isolati, ci dice che i sistemi termodinamici evolvono spontaneamente, conservando l’energia (ossia a entalpia costante), degradante comunque nel tempo, e con entropia in progressivo aumento.

Tale evoluzione, che non può essere scientificamente contraddetta, pena la violazione del 2° principio della termodinamica, porta a definire la cosiddetta “freccia pessimistica del tempo” verso cui evolve spontaneamente l’universo e le parti che lo compongono, sin dalla sua nascita.

Se ne deduce allora che termodinamicamente esiste sempre uno stato finale a cui tutti i sistemi tendono, in cui l’entropia del sistema diventa massima (per tempi idealmente tendenti all’infinito). Tale stato finale viene chiamato stato di equilibrio o invarianza termodinamica.

Ciò in pratica significa che un sistema termodinamico quando è all’equilibrio diventa totalmente passivo, nel senso che la sua energia diviene inutilizzabile e la sua materia totalmente inerte. Tuttavia osserviamo che l’universo che ci circonda non si trova “ancora” allo stato di equilibrio. Ciò significa allora che la materia e l’energia in esso contenute sono ancora attiveDunque la maggior parte dei fenomeni ed eventi fisici è in realtà descrivibile con sistemi termodinamici non all’equilibrio, o lontani dall’equilibrio, e aperti allo scambio di materia ed energia.

Se si osserva attentamente l’evoluzione della natura e dell’universo si scopre allora che mentre l’universo tende verso il suo “tragico destino” l’energia e la materia in esso contenute tendono ad organizzarsi in forme sempre più complesse, autoadattanti e che manifestano una sorta di “volontà propria” o autodeterminazione del proprio futuro. 

Ciò viene allora a definire una nuova freccia temporale, che chiameremo “freccia ottimistica del tempo” che si muove contemporaneamente a quella pessimistica prevista dalla termodinamica.

downloadE’ come se, mentre l’universo gradualmente evolve a partire dalla sua semplice struttura originaria, materia ed energia si rivelassero continuamente seguendo vie alternative di sviluppo: la via passiva che conduce alla sostanza semplice, statica e inerte, correttamente descritte dai paradigmi newtoniano e termodinamico, e la strada attiva che trascende questi paradigmi e conduce alla complessità e alla varietà, impredicibile ed in evoluzione” (da “Il Cosmo intelligente” di Paul Davies).

Da un punto di vista matematico, la situazione dei sistemi aperti non all’equilibrio può essere descritta dalle cosiddette equazioni differenziali alle derivate parziali, che possono essere risolte (ossia hanno soluzione) solamente se si specificano le condizioni al contorno per il sistema.

Per un sistema aperto, l’ambiente esterno esercita una influenza continua attraverso i confini sotto forma di impredicibili “fluttuazioni”.

Un esame delle soluzioni delle equazioni rivela la caratteristica generale che, per sistemi vicini all’equilibrio, le fluttuazioni scompaiono. Quando il sistema si allontana sempre di più dall’equilibrio, tuttavia, esso raggiunge un punto critico, conosciuto tecnicamente come punto di biforcazione. In questo punto la soluzione originale delle equazioni diviene instabile, segnalando che il sistema sta per andare incontro a un improvviso mutamento.” e ancora, “..Nel punto di biforcazione le inevitabili fluttuazioni, che nello stato di equilibrio termodinamico ordinario vengono automaticamente soppresse, sono invece amplificate fino a proporzioni macroscopiche, e conducono il sistema nella sua nuova fase, dove poi si stabilizza. Dato che il sistema è aperto, la forma di queste infinite fluttuazioni microscopiche è del tutto inconoscibile. Vi è così una incertezza intrinseca sul risultato della transizione. Per questo motivo, la forma dettagliata delle nuove strutture che si organizzano è intrinsecamente impredicibile” (da “Il cosmo intelligente” di Paul Davies).

L’ UOMO E LA SOCIETA’ COME SISTEMA TERMODINAMICO

In base a quanto descritto, potremmo dunque schematizzare l’uomo come un sistema termodinamico aperto, ossia potenzialmente in grado di assorbire energia e materia dall’esterno.

Essendo l’uomo materia, ossia in definitiva energia, egli possiede un livello energetico e quindi anche un livello entropico. Definiremo allora per ogni singolo individuo i la coppia di valori:

H i (t) e S i (t)

Ma la società è l’insieme degli individui, e quindi costituisce anch’essa un sistema termodinamico, i cui parametri saranno definiti come:

Hs (t) = ∑i H i

Ss (t) = ∑i S i

La società deve seguire pertanto il 2° principio della termodinamica. Se essa fosse interpretata come un sistema termodinamico isolato, significherebbe che la sua entalpia Hs tende naturalmente a degradare e la sua entropia Ss ad aumentare, ossia la società tenderebbe spontaneamente a peggiorare e a decadere, fino ad arrivare allo stato di equilibrio già citato ed esprimibile matematicamente come:

Hs(t) = Hs (∞) = cost

per t tendente all’infinito

Ss(t) = Ss () = Smax

Ma la società è composta dagli individui, pertanto essa degrada in funzione del degrado dei parametri termodinamici dei singoli individui che la compongono.

Dunque è evidente il contributo di ogni individuo a determinare il valore complessivo dei parametri termodinamici della società. Essendo ogni individuo interpretabile come un sistema aperto non all’equilibrio, il suo comportamento evolutivo è descrivibile con equazioni differenziali alle derivate parziali che pertanto, abbiamo visto, risulta impredicibile e dipendente dalle condizioni al contorno, ossia in definitiva dall’energia e/o materia che è in grado di assorbire nel corso della sua esistenza, anche in termini di improvvise perturbazioni o fluttuazioni di tali condizioni che possono permettere al sistema uomo di arrivare a quella instabilità che può determinare un mutamento evolutivo volontario e improvviso e di conseguenza, in termini macro, di trasferirlo alla società a cui appartiene.

Conclusioni:

creativity-accelerators-300x238Trasponendo il ragionamento (per analogia, quindi non rigorosamente scientifico) all’ambito artistico, culturale o musicale collettivo di un paese (o cerchia sociale, culturale, nazione, continente etc., schematizzabili come detto in sistemi termodinamici) e al posto dell’energia consideriamo il contributo di idee creative (tra energia qualitativa e creatività esiste una evidente correlazione) dei singoli gruppi di individui componenti tale sistema (artisti, musicisti, operatori culturali etc.), ecco che si nota come la volontà di rendere un sistema isolato (ad es. solo musica italiana, solo italiani, solo musica europea e solo europei), quando invece esso è naturalmente disposto all’apertura, favorisca il processo progressivo di degrado e decadimento del sistema stesso, che tende a diventare col tempo passivo e inerte dal punto di vista creativo. Ne consegue, viceversa, che l’apertura del sistema alle diverse culture e ai relativi contributi esterni è solo foriero del mantenimento di un sistema attivo, dinamico e perciò ancora creativo.

 Riccardo Facchi

Aaron Goldberg: At the Edge of the World (Sunnyside – 2018)

Aaron-Goldberg-At-The-Edge-Of-The-WorldIn molti affermano che il jazz è morto, altri sostengono che la classica formazione del trio piano, basso e batteria non abbia più nulla da aggiungere dopo le testimonianze in merito lasciate da gruppi come quelli di Bill Evans e/o Oscar Peterson. Purtroppo per entrambe le tesi, la verità è che il jazz sta attraversando una fase molto interessante e viva e la formazione suddetta ha continuato, anche in tempi recenti a presentare testimonianze valide e importanti. Basterebbe ricordare, fra gli altri, senza scomodare Keith Jarrett o Chick Corea, i trii di Brad Mehldau, I ” Bandwagon” di Jason Moran, Kenny Barron e, per rimanere in Europa, Marcin Wasilewski, ma gli esempi potrebbero essere molti. Fra questi, un posto alla luce del sole lo merita il pianista statunitense di Boston Aaron Goldberg, uno degli esponenti di punta da molti anni del pianismo jazz, ma che per gli “strani” meccanismi della comunicazione, gode di molta meno visibilità di quella che meriterebbe, nonostante si muova in contesti importanti sin dagli anni Novanta, essendo stato attivo sia come leader di propri gruppi sia come sideman di personaggi come Freddie Hubbard, Joshua Redman, Wynton Marsalis, Peter Bernstein e molti altri.
Qui parliamo della sua ultima opera discografica nella quale si presenta con il suo rinnovato trio, completato da Matt Penman al contrabbasso e da Leon Parker alla batteria che proprio in occasione di questa registrazione ha fatto ritorno negli Stati Uniti dopo una lunga permanenza in terra di Francia.
Goldberg è pianista di tecnica raffinata unita ad una non comune capacità espressiva e comunicativa. Ciò rende la musica contenuta nel suo cd, nonostante si muova sulle coordinate riconoscibili del modern mainstream, fresca ed immediata, ma anche intensa e a tratti sorprendente. Il percorso si apre con Poinciana, brano che apre a paragoni molto impegnativi ma che qui è un test brillantemente superato, anche grazie alla prova di Leon Parker che, invece di utilizzare il suo strumento, percuote con le mani il suo corpo (tecnica che ha sviluppato in  carriera) e sviluppa il suo solo vocalmente con uno stile molto personale. Il seguito è un alternarsi di brani originali e di standard che richiamano atmosfere e riferimenti stilistici diversi, anche di estrazione latina come in Black Orpheus, ma la tensione creativa non accenna mai a calare, così come l’ attenzione e la curiosità di chi ascolta che rimane stimolata.
Si tratta di una proposta convincente che vede tre musicisti parimenti coinvolti in un risultato artistico che testimonia la possibilità di ottenere validi risultati anche con formazioni considerate, a torto, troppo sfruttate. Il valore delle stesse non risiede nella loro tipologia, ma nelle idee e nel valore dei musicisti che le compongono, in questo caso di alto livello. Ascolto suggerito.

Francesco Barresi

Il processo storico di diffusione della tradizione culturale africano-americana in quella americana – 4a parte

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Antonín Dvorák

Mentre l’entertainment africano-americano si incaricava di diffondere la cultura musicale africano-americana nei suoi aspetti, se vogliamo, più “accessibili”, altrove quella stessa cultura iniziava a esprimersi secondo parametri di complessità ancora più articolati; al contempo iniziava -grazie alla sua progressiva diffusione in pressoché ogni strato della società americana- a colpire l’immaginazione anche di quei rappresentanti della musica accademica che, non di rado, si erano in precedenza chiesti come rendere distinguibile, attraverso l’assunzione di elementi prettamente nazionali, la produzione musicale colta statunitense che, fatta eccezione per Gottschalk, languiva nell’imitazione di modelli europei (Ives aveva da ben poco iniziato a comporre). A questo interrogativo rispondeva un articolo pubblicato sul “New York Herald” del 21 maggio 1893 e intitolato: “Real Value of Negro Melodies”. Probabilmente scritto da un giornalista di fama come James Creelman (secondo le ricerche di Michael Beckerman), era parte intervista, parte manifesto, parte annuncio pubblicitario a favore del National Conservatory di New York, e diviso, secondo la consuetudine del giornalismo anglosassone, in brevissimi capitoletti (Real Value of Negro Melodies/Dr. Dvoràk Finds in Them the Basis for an American School of Music/Rich in Undeveloped Themes/American Composers Urged to Study Plantation Songs and Build Upon Them/Uses of Negro Minstrelsy/Colored Students To Be Admitted to the National Conservatory – Prizes to Encourage Americans): vi si riportavano alcune dichiarazioni di Antonín Dvorák (all’epoca direttore del Conservatorio di New York) che, all’orecchio di molti americani, dovevano suonare per lo meno sorprendenti. Sosteneva Dvorák che: “in the Negro melodies of America I discover all that is needed for a great and noble school of music”. Il 28 maggio seguente, sullo stesso quotidiano, era il compositore in persona a reiterare certi concetti, in un articolo intitolato Antonín Dvorák on Negro Melodies: “It is my opinion that I find a sure foundation in the negro melodies for a new national school of music (…) The new American school of music must strike its roots deeply into its own soil.” Anche tale articolo era suddiviso in significativi capitoletti (Antonín Dvorák on Negro Melodies/The Bohemian Composer Employs Their Themes and Sentiment in a New Symphony/Hints to Young Musicians/Negro Melodies To Be the True Basis for a Distinctively American School of Music/Merit of American Music), preceduti da una breve introduzione, in cui si fa esplicita menzione della Sinfonia n. 5(9), detta dal Nuovo Mondo, che Dvorák aveva completato e in cui venivano usati materiali la cui paternità era attribuita agli africano-americani: “Through the Herald today Dr. Antonín Dvorák, the foremost living composer of the world, makes an appeal for a native school of music in America that ought to awaken lovers of art from one end of the country to the other. This utterance, coming from a supreme authority, is the result of a judicial and personal examination into the musical capacity of the American people. Dr. Dvoràk’s explicit announcement that his newly completed symphony reflects the negro melodies upon which he says the coming American school must be based will be a surprise to the world. Here is his appeal.” Nel giro di poco più di un mese, sulle pagine dello “Herald”, furono pubblicati non meno di tredici articoli sullo stesso argomento, con interventi di autori americani e europei; tra essi risaltavano sette articoli veri e propri, e tre notizie in breve: il già menzionato Real Value of Negro Melodies; Antonín Dvorák on Negro Melodies (lettera del compositore, pubblicata il 28 maggio 1893); Dvorák’s Theory of Negro Music (commenti di compositori e interpreti europei, pubblicati sull’edizione europea dell'”Herald” il 28 maggio del 1893); Dvorák’s American School of Music (notizia in breve, del 28 maggio 1893); Negro Melodies in America (un articolo pubblicato il 29 maggio del 1893, dedicato soprattutto alla figura del compositore e giornalista francese Ernest Reyer. Interpellato sulle opinioni espresse da Dvoràk, commentava: The popular melodies of a country have always had an influence more or less direct on the style of the composers of that country; negro melodies may have, therefore, also had an influence by their originality and native flavor. If they do not serve as a foundation for a school which would arise in America, at least they may give it a particular and well defined character); Dvorák Awakens the Musical World (notizia in breve, del 29 maggio 1893); Criticisms on Dvorák’s Theory (commenti di altri compositori americani, pubblicati il 4 giugno 1893); American Music (notizia in breve del 15 giugno 1893); America’s Musical Future (ristampa del 15 giugno 1893 di un articolo da Vienna, pubblicato in precedenza nell’edizione europea del quotidiano); Negro Song Writers (dibattito fra David Braham, Edward Harrigan, Victor Herbert e un anonimo, a proposito delle affermazioni di Dvorák, pubblicato il 18 giugno 1893).

Lo stesso James Creelman doveva scrivere sul Pall Mall Budget di Londra, il 21 giugno 1894: “How well I remember the rainy day in New York when the Bohemian composer told me, between whiffs of cigar smoke, that a new school of music might be founded on the so-called negro melodies! (…) Within two weeks I had set forth this picture before the public in a series of articles, and a storm arose.”

Molto si è discusso a proposito dell’utilizzo più o meno reale, da parte di Dvoràk, di materiali africano-americani per la Sinfonia n. 5(9) (il cui Largo è stato peraltro utilizzato per uno spiritual, Goin’ Home); certamente, l’intervento del compositore aprì la strada a un dibattito che costrinse una parte dell’accademia americana a prendere in considerazione una produzione culturale alla quale aveva preferito non prestare attenzione. Le sue dichiarazioni rappresentarono una considerevole rivincita per la tradizione culturale africano-americana che, come nelle previsioni dell’autore boemo, verrà in breve tempo a costituire gran parte dell’ossatura della musica americana del Novecento.

Nell’ottobre del 1906 la United States Marine Band incideva una composizione che da anni ormai si era rivelata come tra i lavori più innovativi della musica africana-america, Maple Leaf Rag di Scott Joplin. Nel marzo del 1907 lo stesso lavoro veniva inciso da Vess Ossman, con l’accompagnamento di un gruppo strumentale diretto da Charles A. Prince, direttore musicale della casa discografica Columbia. Si trattava di omaggi tardivi a un autore rivoluzionario, che era riuscito nell’impresa di strappare gli sviluppi della tradizione musicale africano-americana al regno della musica popolare e commerciale, affermandone la validità anche entro l’ambito di forme espressive assai più ambiziose.

Scott_Joplin_1907
Scott Joplin

Nonostante Joplin, in vita, venisse negletto come autore (nessun editore volle pubblicare un’opera come A Guest of Honor, né Treemonisha ebbe fortuna assai migliore, dovendo aspettare decenni prima che Vera Brodsky Lawrence e Gunther Schuller la ricostruissero strumentalmente, partendo dallo spartito per voce e pianoforte pubblicato nel 1911; per quanto assai più credibile suoni l’orchestrazione realizzata nel 2003 da uno studioso e musicista come Rick Benjamin), la popolarità ottenuta da alcuni suoi lavori fu senza dubbio fondamentale per la diffusione di un genere che, da un lato dilagò anche a livello commerciale, dall’altro ebbe il merito di indicare nuove strade agli autori africano-americani, nuove strade in cui si suggeriva un uso “strutturato” e di ampio respiro della tradizione africano-americana senza necessariamente piombare nell’imitazione di modelli euroaccademici. Come ebbe a scrivere un recensore di The American Musician, il 24 giugno del 1911, a proposito di Treemonisha, “Joplin created an entirely new phase of musical art and had provided a thoroughly American opera, dealing with an American subject, yet free from all extraneous influence”. Si ponga la parola music al posto di opera e si avrà un giudizio più che veritiero. Peraltro, l’anonimo recensore va un po’ oltre il lecito, affermando che il lavoro di Joplin era libero da ogni influenza estranea: ciò non è certamente vero anzi, influenze della musica popolare africano-americana e di lacerti della musica accademica di derivazione europea sono facilmente percepibili, ma essi dispongono di un peso assai relativo, tanto più perché vengono trasformati e sovvertiti a tal punto da essere del tutto “africano-americanizzati”. Espressioni come coon song, jig piano, rag piano, cakewalk indicano nient’altro che il lento evolversi di una medesima tradizione culturale. Si prendano ad esempio tre lacerti da un coon song del 1886, Johnny Get Your Gun, da un cakewalk del 1895, The Possum-a-la Dance e dal primo “two-step rag” mai pubblicato, The Mississipi Rag: si noti come lo stile sia praticamente identico, sottolineando nient’altro che lo sviluppo progressivo, passo dopo passo, di una tradizione sempre più moderna e significativa.

Dopo le affermazioni di Dvorák e i lavori di Joplin e di altri artisti coevi, non vi è area della cultura musicale statunitense che non si trovi a dover fare in qualche modo i conti con la musica africano-americana. E non è un caso che, a poco meno di un anno dalla morte di Joplin, avvenuta nel 1917, un giovane George Gershwin, assieme al fratello Ira, dovesse scrivere un lavoro dal titolo assai significativo: The Real American Folk Song (Is a Rag).

raggggE’ il rag a diffondere definitivamente, in ogni strato sociale americano, il verbo della tradizione musicale africano-americana, sia attraverso l’operato di interpreti discendenti più o meno direttamente dalla lezione di Joplin come Scott Hayden (tutti i suoi rag vennero scritti assieme al maestro), Arthur Marshall, Tom Turpin (il cui Harlem Rag fu il primo lavoro ragtime di un autore africano-americano a essere pubblicato, nel 1897), Louis Chauvin e Joe Jordan, sia attraverso la vera appropriazione compiuta nei confronti del genere dalla cultura bianca. Tale appropriazione, per quanto indirizzata verso fini più apertamente commerciali, compie indirettamente una vera e propria opera di propaganda della tradizione musicale africano-americana tra il pubblico bianco. Essa prende inizialmente piede a Chicago dove, con la Columbian Exposition del 1893, si dirigono, in cerca di lavoro, molti musicisti africano-americani provenienti dal Kansas, dal Missouri, dal Tennessee, dall’Arkansas, e che si esibiscono nei padiglioni della fiera e nel red-light district della città. E’ in tali luoghi che vengono ascoltati e apprezzati da molti musicisti e interpreti bianchi, anch’essi a Chicago per la Esposizione. Tra essi, ad esempio, il celebrato trombonista della banda di John Philip Sousa, Arthur Pryor, che trarrà così l’ispirazione per composizioni quali Razzazza Mazzazza, Mr. Black Man, Southern Blossoms, A Coon Band Contest. Allo stesso modo, Theodore Metz, leader di un gruppo minstrel bianco, scrive A Hot Time in the Old Town dopo averne ascoltata la melodia in un postribolo di ragazze africano-americane. In altro capitolo, dedicato alle derivazioni del cake-walk fino agli esordi del ragtime, abbiamo già accennato alla genesi di Ta-ra-ra-boom-de-ay, un brano di cui Henry Sayer si appropriò dopo averlo ascoltato in un bordello di St. Louis. Probabilmente nella stessa casa di piacere Charles Trevathan, giornalista sportivo, ascoltò The Bully Song, poi interpretato dalla cantante bianca May Irwin, nota per imitare lo stile delle coon-shouter africane-americane. Who Stole the Lock on the Henhouse Door ebbe analoghe origini, prima di finire a far parte del repertorio abituale dei minstrel bianchi blackfaced. Un song popolarissimo come She Lives on the Streets of Cairo, dell’attore, compositore e ballerino Jim Thornton nasce, in realtà, dalle esecuzioni di alcuni performer di colore nel corso delle matinée dello spettacolo Streets of Cairo, messo in scena in un padiglione dell’Esposizione. A fonti del genere, peraltro, attinse anche un autore africano-americano come Ernest Hogan per lavori come The Pas Ma La (1895) e All Coons Look Alike to Me.

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Ben Harney

Il primo rag ad avere circolazione nazionale è frutto di un pianista africano-americano, la cui pelle chiarissima ne aiutò l’affermazione, facendolo passare per bianco: quando Benjamin Ben Robertson Harney si esibisce nel Febbraio del 1896 al Keith’s Vaudeville Theater di New York, il suo stile pianistico risente ancora di quello stile sincopato un po’ arcaico denominato jig piano (ancora nel 1926, ad esempio, Duke Ellington incideva, per la Paramount, un lavoro come Jig Walk), e lo spettacolo che egli propone è, alquanto tradizionalmente, dedicato a genuinely clever plantation Negro imitations and excellent piano playing. Tre persone compaiono sulla scena: apre la moglie (bianca) di Harney, volto scurito con il nerofumo, cantando un coon song, che poi riprenderà nel finale, questa volta senza blackface e senza l’inglese storpiato in genere attribuito agli africano-americani. Fa poi il suo ingresso lo stesso Harney, che suona il pianoforte e poi intona due sue composizioni (peraltro già citate nel corso di questa disamina): Mister Johnson, Turn Me Loose e You Been a Good Old Wagon but You Done Broke Down. Ambedue vengono riprese, e variate in modo “sincopato”, da Strap Hill, un pianista rag di colore situato, con il suo strumento, in un altro angolo della sala. Ogni variazione di Hill viene a sua volta ripresa e perfettamente imitata, pressoché in contemporanea, da Harney, con ovazioni da parte del pubblico.

Harney non è alle prime armi: da non pochi dei suoi venticinque anni percorre gli Stati Uniti, dalla nativa Middleboro, nel Kentucky, sino a New York, esibendosi soprattutto nei cosiddetti saloon. Aggregatosi a una compagnia di minstrel bianchi, ottiene discreta fama per la sua Ben Harney’s Celebrated Stick Dance, che non mancherà più nel suo repertorio.

Dopo le performance dell’autore a New York, è la già citata cantante bianca May Irwin a incaricarsi di rendere Mister Johnson, Turn Me Loose un successo nazionale. Successo stimolato inoltre dalla pubblicazione del brano da parte della M. Witmark & Sons, che ne affidano l’arrangiamento a Max Hoffman. Harney e i suoi lavori divengono così popolari che nel giro di pochi mesi altre case editrici, sull’onda del successo arriso a Mister Johnson, Turn Me Loose e You Been a Good Old Wagon but You Done Broke Down, pubblicano una serie vastissima di Negro songs. In realtà, Harney non si inserisce più nell’ambito delle cosiddette coon song: il genere che egli pratica, e che peraltro si adatta in modo ideale ad accompagnare quel cakewalk così intensamente frequentato da artisti africano-americani come George Walker e Bert Williams, sfugge alle comuni categorizzazioni dell’epoca e può in qualche modo rientrare, pur se in modo estremamente spurio e improprio nel filone del cosiddetto ragtime. Quest’ultimo ottiene definitiva consacrazione solo a partire dal 1897, quando gli editori musicali americani si appropriano della nouvelle vague musicale africano-americana, diffondendola soprattutto in ogni strato del pubblico bianco.

Nel 1897 la filiale di Chicago della S. Brainard’s Sons pubblica il primo lavoro strumentale ufficialmente definito come rag, il già citato The Mississipi Rag, scritto da William H. Krell, musicista bianco, leader di un gruppo specializzato nell’entertainment danzante dell’epoca, tra polke, valzer, cakewalk e ragtime two-step. Bisogna aspettare la fine dello stesso anno perché venga pubblicato per la prima volta un rag scritto da un autore africano-americano: Harlem Rag di Tom Turpin.

E’ agli editori bianchi che va il merito di percepire la potenzialità non solo artistica, ma anche commerciale, del ragtime: la nuova musica degli africano-americani, al momento della pubblicazione, poneva peraltro anche non pochi problemi di notazione musicale, che vennero risolti dai vari staff delle case editrici, in genere formati da musicisti bianchi di estrazione accademica.

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George M. Cohan

Di fronte alle possibilità di sfruttamento commerciale implicite nel nuovo fenomeno musicale, Sol Bloom, un editore e proprietario di alcuni negozi di articoli musicali a Chicago, assume l’iniziativa di pubblicare -per uso domestico- un manuale di ragtime adatto a pianisti e musicisti dilettanti, affidandone la compilazione a un altro musicista bianco, il già citato Theodore Northrup, che annota una serie di elaborazioni rag con cui Ben Harney variava una serie di popolari brani da salotto dell’epoca, come Old Hundred e Annie Laurie. Nonostante il frutto delle trascrizioni di Northrup non sia sempre dei più felici, il manuale, pubblicato nel settembre del 1897 con il titolo di Ben Harney’s Rag Time Instructor, ottiene vasti consensi e viene diffuso in tutti gli Stati Uniti. Di tali consensi Harney -ormai conosciuto come the real inventor of ragtime gode ben poco: dopo The Cake-Walk in the Sky (pubblicizzato dalla M. Witmark & Sons come a ragtime nightmare), del 1899, il suo successo scema progressivamente, fino a quando, nel 1920, è costretto a ritirarsi dalle scene a causa di un attacco di cuore. Nel frattempo, il ragtime dilaga, spingendo un numero sempre crescente di autori, bianchi e africano-americani a cimentarsi nel genere: Paul Dresser, minstrel passato alla composizione, futuro autore di On the Banks of the Wabash e di My Gal Sal, nel 1896 si unisce alla coon-song parade con I’s Your Nigger If You Wants Me, Liza Jane; George M. Cohan si rivela compositore dalla vena brillantissima proprio nelle cosiddette jig-song, come I’ll Have to Telegraph My Baby, Who Says A Coon Can’t Love, The Warmest Baby in the Bunch, When My Lize Rolls the Whites of Her Eyes e altre ancora; Adam Geibel, compositore gospel, scrive numerosi coon song, tra cui il ben noto Kentucky Babe; Irving Jones, musicista africano-americano, ottiene i suoi maggiori successi con brani raggy (o pseudo-tali) quali When a Coon Is in the Presidential Chair e You Ain’t Landlord Any More; gli stessi Bert Williams e George Walker si concedono al nuovo repertorio, rispettivamente con Mammy’s Little Piccaninny Boy e The Hottest Coon in Dixie; Gussie Davis abbandona momentaneamente la sua vena abitualmente larmoyante per Get on Your Sneak Shoes, Children, mentre il ballerino minstrel bianco Barney Fagan conquista le vette del successo con My Gal Is a High Born Lady.

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John Philip Sousa

Va fatto notare che, tra i musicisti bianchi, coloro che meglio dimostravano di afferrare, almeno parzialmente, la complessità e l’esuberanza del cakewalk e del ragtime, erano i musicisti di estrazione e preparazione accademiche. Come il già citato Frederick Allen Mills che per trasferirsi a New York e fare carriera nel mondo dello spettacolo abbandona, verso il 1890, il posto di professore di violino presso l’università del Michigan; suo primo successo nella nascente Tin Pan Alley è Rufus on Parade, del 1895, pubblicato sotto lo pseudonimo (poi abituale) di Kerry Mills. Nel 1897 nasce un rag song che doveva conoscere un successo praticamente ininterrotto: At a Georgia Camp Meeting si trasforma assai presto, grazie all’interpretazione datane dall’orchestra di John Philip Sousa (la cui attenzione sul brano era stata richiamata da Arthur Pryor), in un vero e proprio “classico”, cui seguono two-step march come Whistling Rufus, Happy Days in Dixie, Impecunious Johnson. Nel 1904, su versi di Andrew Sterling, Mills pubblica un altro lavoro destinato alla celebrità: Meet Me in St. Louis, Louis, seguito, nel 1907, da Red Wing, pubblicato come Indian Intermezzo ma, in verità, nient’altro che una variazione su di un tema folk popolare nel secolo prima. Grazie al lucroso successo ottenuto come compositore, Mills crea una propria casa editrice che si afferma velocemente come una fra le più prolifiche e fortunate, edificando in pochi anni un catalogo di hit di vaste proporzioni: Asleep in the Deep, molti fra i lavori di George M. Cohan (Forty-five Minutes from Broadway, Give My Regards to Broadway, Mary’s a Grand Old Name, You’re a Grand Old Rag [presto trasformato in You’re a Grand Old Flag]), le prime composizioni di Gus Edwards, successi popolari come Waltz Me Around Again, Willie, He Walked Right In, Turned Around, and Walked Right Out Again, The Longest Way ‘Round Is the Shortest Way Home.

Altri autori rivaleggiavano con Mills, tra cui Sadie Koninsky, autrice nel 1897 di Eli Green’s Cake Walk e Abe Holzman, autore, sempre del 1897, di Smoky Mokes. Al contrario della Koninsky, presto scomparsa dalla scena, Holzman -come Mills e altri autori rag, prevalentemente bianchi- aveva compiuto studi musicali più che adeguati al New York Conservatory of Music, prima di entrare come arrangiatore prima, e come direttore dell’orchestra poi, presso le edizioni musicali di Leo Feist. Fu proprio quest’ultimo a dare il nome a Smoky Mokes, promuovendolo in seguito, assieme ad altri lavori rag, attraverso il Feist Band and Orchestra Club, i cui associati, per un dollaro all’anno, ricevevano per posta gli spartiti di dodici brani strumentali sicuramente destinati a diventare dei successi popolari (il motto della casa editrice era, non a caso, You Can’t Go Wrong With a Feist Song). Le composizioni sincopate di Holzman venivano pubblicate non solo per pianoforte, ma anche per mandolini, chitarre, banjo o per varie combinazioni di diversi strumenti o, ancora, per formazioni orchestrali. Anch’esse, come accadeva pressoché per tutti i lavori ragtime pubblicati da editori “specializzati” come Feist, Mills, Remick, Stern o Witmark, venivano dotate di humorous darky texts.

iroquois-theater-orchestra-5Dichiarato rivale di Holzman come acclamato compositore rag era Max Hoffman (1873-1963), giunto negli Stati Uniti dalla Polonia all’età di due anni e che, poco più che decenne, già lavorava come violino in alcune orchestre teatrali di Chicago. A vent’anni era un affermato arrangiatore, ed il suo iniziale successo fu dovuto, infatti, alla trascrizione da lui realizzata per Witmark di Mr. Johnson Turn Me Loose (l’autore, Ben Harney, non sapeva scrivere la musica): ebbe così inizio una florida attività, arrangiando, trascrivendo e, non di rado, migliorando composizioni scritte da altri autori, meno eruditi. I Witmark furono peraltro i primi ad usare gli arrangiamenti di Hoffman per promuovere molti dei loro successi rag, grazie a delle vere e proprie rag time medleys, lunghi pot-pourri strumentali, sia per solisti che per gruppi ad organico maggiore, in cui venivano presentate ed elaborate le melodie di una serie di coon song in catalogo. Nel 1901, Hoffman iniziò a collaborare regolarmente agli spettacoli musicali dei fratelli Rogers, lavorando poi con Florenz Ziegfeld, per il quale scrisse le musiche per diversi show con Anna Held, tra cui il primo Follies, nel 1907, prima di diventare il direttore musicale delle produzioni di Klaw & Erlanger.

L’autore del più acclamato cakewalk strumentale del 1900, J. Bodewalt Lampe (1869-1929), era un danese che aveva lasciato l’Europa da giovanissimo, compiendo studi musicali negli Stati Uniti e organizzando gruppi strumentali di musica commerciale a Chicago. Nel 1900 scriveva e pubblicava un two-step march, Creole Belles, forse l’ultimo grande successo dell’era del cakewalk, cioè di quella versione edulcorata del rag prodotta copiosamente da Tin Pan Alley, la grande fucina della musica commerciale americana.

Il declino del cakewalk in realtà non implicò la decadenza in generale del ragtime anzi, del termine rag si iniziò a fare un vero e proprio abuso, in concomitanza, soprattutto, del vertiginoso aumento del numero di pianisti amatoriali negli Stati Uniti. La produzione nazionale di pianoforti e pianole meccaniche aveva raggiunto il suo apice nel 1899, quando erano stati fabbricati più di 365.000 strumenti: da allora, sino alla fine della Prima Guerra Mondiale, la produzione annuale non doveva scendere al di sotto delle 300.000 unità. Valutando questi fatti, le case editrici musicali continuarono ad insistere sull’uso del termine rag, sollecitando dagli autori la produzione di lavori sincopati e in tempo veloce, in modo da attrarre quella massa di consumatori rimasti in qualche modo affezionati al suono di quello che essi pensavano essere dell’autentico ragtime. Molti fra questi avevano appreso i supposti rudimenti del genere con la modica spesa di un dollaro, necessaria per l’acquisto dell’ Instruction Book for Rag-time Piano Playing di Axel Christensen; quest’ultimo, che garantiva l’apprendimento del ragtime in dieci facili lezioni, aveva iniziato la propria attività nel 1903, come insegnante di pianoforte, in un bugigattolo a Chicago, per cinquanta centesimi l’ora: il successo del suo testo fu tale da permettergli di aprire in tutto il paese ben cinquanta uffici che provvedevano a compilare e spedire via posta nuovi aggiornamenti del manualetto, nonché una pubblicazione, “Rag Time Review”, diffusa a partire dal 1914, dedicata interamente a quella che ormai veniva definita the one true American music.

pianolanofrontNovità tecnologiche come la pianola meccanica e la posteriore diffusione del fonografo (che sicuramente ricoprì un ruolo formidabile nel diffondere le molteplici realtà culturali di natura etnica) promossero ulteriormente la diffusione del rag così come rivisto da Tin Pan Alley, in un ulteriore proliferare di rag song e coon song; negli apparecchi a gettone posti nei luoghi di ritrovo pubblici non mancavano mai lavori come Maple Leaf Rag o Smoky Mokes, né composizioni di Bob Cole e dei fratelli Johnson, Harry Von Tilzer, F. A. Mills, Victor Herbert, George M. Cohan. Già dall’agosto del 1897, l’orchestra più popolare negli Stati Uniti, quella di John Philip Sousa, aveva iniziato (pur senza la partecipazione del leader) ad incidere lavori rag che, peraltro, data la tecnica d’incisione dell’epoca, si prestavano meglio di qualsiasi altro repertorio a fornire adeguati risultati sonori: si diffondevano così le versioni di Levee Revels, an Afro-American Can-hop e di Orange Blossoms, la new Negro oddity di Arthur Pryor. Nello stesso anno, il primo gruppo strumentale creato per incisioni fonografiche, la Metropolitan Orchestra, realizzava Coon Town Capers di Theodore Metz e At a Georgia Camp Meeting di F. A. Mills. Quasi contemporaneamente, l’orchestra di Sousa incideva lo stesso brano di Mills (fino al 1912 se ne conteranno ben sette versioni realizzate da gruppi guidati da Sousa), prima di aggiungere al proprio repertorio, discografico (per Berliner e per la Victor Talking Machine Company) e non, quarantacinque fra cakewalk, two-step march e rag-song, tra cui Creole Belles, Whistling Rufus, Hot Time in the Old Town Tonight, The Passing of Ragtime.

Va fatto notare -altro segno dell’appropriazione compiuta nei confronti della cultura africano-americana e degli ambigui rapporti interetnici esistenti- che, fatto salvo un gruppo come lo Standard Quartette (all gentlemen of color) e pochi altri interpreti quali George W. Johnson e Bert Williams, la stragrande maggioranza degli interpreti dei cosiddetti rag-song erano bianchi, magari dediti al caricaturale black-dialect vocalism: Charles Asbury, David C. Bangs, Arthur Collins, Billy Golden, Silas Leachman, Bob Roberts, Len Spencer, Billy Williams e Ada Jones, detta la First Lady of Phonograph Records. Ciononostante, tutti questi interpreti beneficiavano soprattutto di materiali musicali creati dai richiestissimi autori africano-americani, i cui nomi andavano via via diffondendosi e affermandosi anche fra il più retrivo pubblico bianco.

Nel frattempo, anche il teatro popolare africano-americano derivato dal minstrelsy andava modificandosi. Ad apportare varianti di carattere significativo fu, per l’esattezza, un impresario bianco, Sam T. Jack; questi, in collaborazione con un minstrel africano-americano, Sam Lucas, introdusse l’elemento femminile in quello che era stato, da sempre, un genere teatrale interamente maschile: in The Creole Show, inauguratosi nel 1890 allo Standard Theater di New York, si esibiva un coro composto da 16 ragazze, nonché un’attrice nel ruolo, tradizionalmente maschile, del cosiddetto interlocutor.

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John William Isham

Nel 1895, Isham’s Octoroons o, più semplicemente, Octoroons (3rd Avenue Theatre), segnava un nuovo passo nell’evoluzione del teatro minstrel: John William Isham, già protagonista di The Creole Show, non solo presentò, oltre all’abituale coro maschile di 16 elementi, anche 17 coriste, ma nel finale impiegò anche musiche tratte da opere e operette dell’epoca (presentate come selections from popular operas). Il brano introduttivo portava la firma di Bob Cole, la cui moglie, Stella Wiley, faceva parte del cast.

Nel 1896, con Oriental America (Palmer Theater), Isham continuava a smantellare la tradizionale struttura dello spettacolo minstrel, portando in scena anche un balletto giapponese e un quartetto di ragazze in calzoncini corti che compivano evoluzioni in bicicletta, e utilizzando musiche tratte da opere come Rigoletto e Lucia di Lammermoor (con J. Rosamond Johnson che, in costume, cantava arie dal Robin Hood di Reginald De Koven) al posto del consueto cakewalk finale.

L’uso di utilizzare materiale operistico o voci operistiche per spettacoli musicali popolari veniva così a prendere piede tramite il minstrelsy: il 17 ottobre del 1904 andava in scena, al 3rd Avenue Theater di New York, A Trip to Africa, scritto, diretto e interpretato da John Larkins, su musiche di Dave Peyton. Trita storiella in due atti, sul salvataggio di un missionario prigioniero degli Zulu, non otteneva alcun consenso. Riscritto e rielaborato, lo spettacolo, presentato nuovamente nel 1908, suscitava l’entusiasmo delle platee grazie alla presenza in scena di Sissieretta Jones, Black Patti, che interpretava song quali I Want a Loving Man e Zongo, My Congo Queen.

Un finale operistico aveva contraddistinto anche Darkest America (21 dicembre 1896, People’s Theater), the delineation of Negro life, carrying the race through all its historical phases from the plantation into Reconstruction days, and, finally, painting our people as they are today, cultured and accomplished in the social graces. Diretto e interpretato da Billy McLain, a capo di un cast di oltre cinquanta interpreti, fra i quali Sam Lucas, lo spettacolo si concludeva con un Operatic Ball, cioè un pot-pourri di arie operistiche (tra le quali alcune tratte persino da Cavalleria Rusticana), affidato allo stesso Billy McLain, a un coro, nonché a Cordelia McLain (nel ruolo della primadonna), al tenore Lawrence E. Chenault e al baritono Edward Winn.

Questa tendenza del minstrelsy, anche africano-americano, di assimilare materiali appartenenti alla cultura tradizionale europea, oltre a indicare il desiderio di espandere i propri confini espressivi, probabilmente faceva parte di un tentativo di più diffusa acculturazione che allora impegnava molti leader e intellettuali della comunità nera in America. Non è probabilmente un caso che questa fase di transizione e di progressiva rielaborazione porti alla nascita della più sofisticata e articolata commedia musicale africano-americana degli anni Venti che, altrettanto non casualmente, coincide con l’affermarsi della cosiddetta Harlem Renaissance e con l’espandersi inarrestabile del jazz.

La morte, nel 1911, di Bob Cole coincise con quella di George Walker; due anni prima era scomparso Ernest Hogan: altri esponenti storici dello spettacolo africano-americano erano ancora in attività, come Jesse Shipp, Alex Rogers, Paul Laurence Dunbar, Will Vodery, Joe Jordan e i fratelli Johnson; ciò nonostante, Mr. Lode of Koal, l’ultimo spettacolo realizzato da Bert Williams con un cast interamente di colore, nel 1909, resta anche l’ultimo show realizzato da africano-americani a Broadway, e bisogna aspettare Shuffle Along, nel 1921, perché tale situazione muti.

E’ in questi anni, però, che nascono e si consolidano le prime compagnie teatrali stabili e di giro africane-americane, frutto di un numero sempre più vasto di autori, attori, compositori, musicisti, cantanti, ballerini di colore. Al Lincoln Theater di Harlem, nel 1914, si esibisce una stock company come la Anita Bush Stock Company, tra i cui interpreti milita Dooley Wilson, che anni dopo sarà nel cast del film Casablanca; tra il 1914 e il 1921, ogni lunedì, sarà possibile assistere a una nuova pièce presso un altro teatro di Harlem, il Lafayette, lo stesso che nel 1913 ospita la compagnia dei Negro Players in una commedia musicale da camera intitolata The Traitor e di cui cura le musiche Will Marion Cook. Ancora il Lafayette organizza la compagnia dei Lafayette Players, che si esibisce anche in tournée, allo Howard Theater di Washington, al Dunbar Theater di Philadelphia e all’Avenue Theater di Chicago. Proprio in quest’ultima città si organizza quella che è possibile considerare, storicamente, la prima stock company, la Pekin Company, fondata da Robert Motts presso il Pekin Theater. Scioltasi nel 1911 con la morte del proprio fondatore, tale compagnia avviò alla carriera teatrale talenti come il già citato Will Vodery e come Aubrey Lyles e Flourney Miller, futuri interpreti di Shuffle Along.

Particolarmente attiva fu, invece, fra il 1910 e il 1925, la coppia di fratelli Salem Tutt Whitney e J. Homer Tutt, ambedue produttori, autori e attori. Associatisi nel 1905 alla Original Smart Set Company di Billy McLain, Ernest Hogan e Gus Hill, fecero in seguito parte dei Black Patti Troubadours, prima di creare una propria compagnia, che associarono alla Smart Set: a loro si devono la produzione e la realizzazione di oltre 25 tabloid, due drammi, sedici commedie musicali, oltre 150 spettacoli di vaudeville, 300 poemi e 50 song.

Shuffle_Along_-_Love_Will_Find_a_WayDa questo ambiente particolarmente fertile scaturisce il fenomeno di Shuffle Along. Al suo esordio, il 23 maggio del 1921, al Daly’s 63rd Street Music Hall di New York, lo show non suscitò grandi consensi: d’altronde, si trattava di uno spettacolo privo di grande supporto finanziario e che, proprio per questo, non aveva beneficiato di un sufficiente rodaggio, salvo alcune recite in cittadine del New Jersey e della Pennsylvania. Gli stessi costumi non erano originali, ma presi in prestito da una produzione di Eddie Leonard, Roly-Boly Eyes; la scenografia era ridotta al minimo. Quelle che erano ragioni sufficienti per costringere qualsiasi spettacolo al fallimento, contribuirono invece a uno strepitoso successo: il pubblico, infatti, si concentrò maggiormente sui song (scritti da Noble Sissle e Eubie Blake) e sullo sviluppo della trama che, scritta da Flournoy Miller e Aubrey Lyles, ricordava le farsesche storie portate in scena da Williams & Walker e da Cole & Johnson: Steve Jenkins (impersonato da Miller) e Sam Peck (interpretato da Lyles), soci in una drogheria di Jimtown, sono in concorrenza tra di loro per il posto di sindaco, sebbene ognuno abbia garantito all’altro che verrà nominato capo della polizia. Jenkins, con l’aiuto di un truffaldino esperto di campagne elettorali, vince e, fedele alla parola data, nomina Peck al comando della polizia locale. Presto, però, Peck si accorge di avere poco o nulla da fare, nonché da guadagnare, e il vecchio sodalizio si scioglie fra polemiche e ripicche. La corruzione e l’inettitudine dei due presto stancano persino l’abulica Jimtown, che si precipita ai piedi di un nuovo candidato più abile e onesto: Harry Walton (interpretato da Roger Matthews) e, in coro, la cittadinanza intona il song che, del lavoro, diverrà più popolare: I’m Just Wild About Harry. Proprio quest’ultimo offre, peraltro, la misura delle innovazioni di Shuffle Along: in origine si tratta di un valzer apparentemente innocuo, ma nella tradizione africano-americana la comune scansione in 3/4 del valzer all’europea è del tutto sconosciuta, e il materiale si trasforma, perciò, in un più veloce e certamente più sapido fox-trot (un procedimento che autori d’origine europea come Sigmund Romberg e Rudolf Friml cercarono più volte, e inutilmente, di imitare).

Shuffle Along (da cui emersero talenti come Josephine Baker, Hall Johnson e Florence Mills, nonché song popolari come il già citato I’m Just Wild About Harry, Bandana Days, Love Will Find a Way, Gypsy Blues, I’m Cravin’ for That Kind of Love) rappresentò un momento di svolta per la diffusione della cultura musicale africano-americana negli Stati Uniti e per il confronto tra il mondo culturale bianco e quello di colore. Sebbene lo spettacolo in sé ricalcasse i modelli ideati e già ampiamente sfruttati da George Walker e Bert Williams, alcune novità introdotte negli schemi abituali dovevano lasciare il segno, come il succinto abbigliamento del coro e del corpo di ballo femminile; come il song Love Will Find a Way, che per la prima volta portava sul palcoscenico, apertamente dichiarati, i sentimenti di un uomo e di una donna di colore; come i balletti, sfrenatamente ritmici e del tutto lontani dal controllato e understated linguaggio del corpo tipico dei balli popolari in voga tra il pubblico bianco. Più di tutto, però, Shuffle Along convinse i produttori bianchi di Broadway che investire sugli spettacoli africano-americani poteva essere estremamente proficuo, il che non solo incrementò ulteriormente la diffusione della musica africano-americana in strati sociali di regola estremamente chiusi, ma addirittura rese gli spettacoli di colore pietra di paragone attraverso la quale giudicare gli altri show di Broadway.

Lo sviluppo degli spettacoli musicali africano-americani si accompagna, si intreccia e si sovrappone allo sviluppo e alla diffusione, negli anni Venti, del jazz, il genere musicale che più di qualsiasi altro doveva diffondere, non solo negli Stati Uniti, la cultura africano-americana. Chi pensa che sia stato il jazz, comunque, ad agire sul teatro musicale africano-americano sbaglia, e non di poco. Il processo è stato, per lo più, inverso: le pit orchestra rappresentavano una scuola di lettura e disciplina, una vera e propria palestra in cui addestrarsi alla musica d’insieme, non troppo dissimile da un’orchestra sinfonica. Esse, inoltre, offrivano al musicista africano-americano maggiori possibilità di pratica, nonché di allargamento e di aggiornamento del repertorio, oltre alla opportunità di misurarsi con un repertorio scritto non di rado con una certa abilità e una certa sofisticazione, spesso sconosciute ai primi gruppi jazzistici africano-americani che, a partire dalla fine degli anni Dieci, iniziavano ad affollare le grandi città del nord degli Stati Uniti, in concomitanza con la chiamata alle armi della Prima Guerra Mondiale (che aveva privato le città industriali di buona parte della manodopera di colore, presto sostituita -con non poche difficoltà- da quella che affluiva dal Sud agricolo e ancora più segregazionista) e, specificamente per quanto riguarda i musicisti africano-americani, in concomitanza con la chiusura, da parte dell’U. S. Navy Department, del quartiere a luci rosse, Storyville, di New Orleans (città che era il principale punto d’imbarco militare americano).

ODJBcardNell’accettazione della musica africano-americana da parte del pubblico bianco negli Stati Uniti giocò un ruolo non indifferente, in quel periodo, il successo di un gruppo la cui funzione è stata, sotto questo profilo, sottovalutata: la Original Dixieland Jass Band (ODJB), che il 26 gennaio del 1917, dopo una serie di applauditi concerti a Chicago, iniziava ad esibirsi al secondo piano di un lussuoso ristorante di New York, il Reisenweber’s, attirando un folto pubblico d’élite che andò aumentando, grazie alla crescente diffusione di un 78 giri realizzato dal gruppo per la Victor, il 26 febbraio dello stesso anno. L’incisione (Livery Stable Blues e Original Dixieland One-Step) rappresentò uno straordinario successo di vendite, a tal punto che la Columbia impegnò un autore come W. C. Handy perché realizzasse lavori simili, senza che però ottenessero analogo successo.

La Storia si è già da tempo incaricata di collocare i musicisti della ODJB nella nicchia degli epigoni o, peggio, in quella degli imitatori, sebbene il cornettista Nick LaRocca (proveniente da New Orleans, come gli altri componenti del gruppo che, come lui, avevano anticipato di un anno, nel 1916, la diaspora africano-americana dalla Louisiana) contestasse vivacemente la supremazia attribuita ai musicisti africano-americani nello sviluppo del genere jazzistico. Cionondimeno, il successo della Original Dixieland Jass Band (poi Original Dixieland Jazz Band) ebbe l’effetto di “trascinare” e diffondere, negli Stati Uniti come altrove (amplissima fu la popolarità del gruppo in Inghilterra, dove si esibì, a Londra, nel 1919), la conoscenza della tradizione musicale da cui LaRocca e i suoi compagni avevano tratto primaria ispirazione.

L’impressione suscitata dal materiale musicale eseguito dalla ODJB, e l’effetto che esso doveva produrre, appaiono evidenti dai ricordi di Vincent Lopez, la cui orchestra, in quel periodo, si esibiva al Pekin Restaurant: After listening to them, my first move was to copy them. I listened to their recordings of Tiger Rag, Fidgety Feet and the others, and I knew that was for me. After two weeks, we made the switch from schmaltzy music to the drive of Dixieland that does something to the adrenal glands.

We left Reisenweber’s rather early but we stayed long enough to catch the compelling voice of the new star, Sophie Tucker. The event of Dixieland on Broadway changed the entire fabric of the entertainment world. (…) … one of the outstanding melodies of the time was Shelton Brooks’s Darktown Strutters’ Ball, which made Joe Frisco popular with his shuffle dance, black cigar and derby hat. A very simple performance but the crowd went for it in a big way! For Me and My Gal, Indiana, After You’ve Gone, Ja-Da were some of the songs you would hear four or five times a night. A pet expression then was Jazz It Up.

Il 13 settembre del 1899, i lettori del “Musical Courier” si imbatterono in quella che può ben essere considerata la prima, violenta reazione dell’America benpensante alla inarrestabile diffusione e alla crescente popolarità della musica africano-americana: A wave of vulgar, filthy and suggestive music has inundated the land. Nothing but ragtime prevails, and the cake-walk with its obscene posturings, its lewd gestures. (…) Our children, our young men and women, are continually exposed to the contiguity, to the monotonous attrition of this vulgarizing music. It is artistically and morally depressing, and should be suppressed by press and pulpit. Tale reazione era logica quanto inevitabile: il vero e proprio dilagare della cultura musicale di derivazione -diretta o indiretta- africano-americana era giunto a un punto tale da apparire ormai un fenomeno assai degno di nota a quella vasta fascia della popolazione bianca americana usa a considerare i neri poco più di un’anonima forza lavoro. Agli occhi (o, meglio, alle orecchie) degli appartenenti a tale fascia, più di altre forme culturali ed espressive, era stata la musica creata e diffusa dagli africano-americani a porli in una posizione di aperto confronto con una minoranza considerata aprioristicamente incapace di alcuna creatività, e perciò -al di là di casi minori- innocua nei confronti della supremazia bianca. Il progressivo affermarsi di forme culturali di tradizione africano-americana costituirà un drammatico risveglio per buona parte della società americana che, più in là, con il jazz si troverà a dover fare i conti con una vera e propria forma articolata di contestazione e sovvertimento culturali.

Gianni Morelenbaum Gualberto

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Charlie Haden Quartet West Live

Della carriera musicale di Charlie Haden da noi si è sempre enfatizzato il suo impegno politico in musica e parlato conseguentemente della sua Liberation Music Orchestra e del primo lavoro registrato nel 1969, certamente tra i suoi dischi più importanti, peraltro di una discografia molto vasta. Indubbiamente un pezzo importante, ma non esclusivo, della sua carriera. Direi, anzi, che nel prosieguo, sino alla sua scomparsa avvenuta nel 2014, il suo impegno politico si è progressivamente stemperato in progetti musicali di diversa impostazione ma altrettanto validi. Tra questi va indicato il longevo Quartet West che ha avuto intenti musicali ed estetici molto diversi. Utilizzando tutti musicisti versatili operanti nell’area californiana, il leader contrabbassista ha sviluppato negli anni una rappresentazione in musica delle mille sfaccettature di una certa America, coinvolgendo non solo la tradizione del jazz (bop, Ornette, mainstream, canzoni e ballate celebri con annesso il richiamo alle relative grandi interpretazioni jazzistiche), ma anche il folk bianco, le influenze caraibiche e del vicino Messico, la musica popolare e quella delle colonne sonore hollywoodiane, sino al richiamo della cosiddetta “americana”, con in evidenza in particolare gli umori del Midwest (Haden era nativo dell’Iowa e non a caso ha condiviso diverse esperienze discografiche e concertistiche con Pat Metheny, del  confinante Missouri, del quale ha utilizzato diverse composizioni in repertorio al quartetto). Haden, perciò, è il classico esempio di musicista e jazzista americano che per essere correttamente interpretato richiede una vasta conoscenza della intricata cultura (e persino della geografia) americana, cosa che in troppi da noi si guardano bene dal considerare.

Il concerto del 1999 che sto per proporvi per questo fine settimana illustra diverse delle cose appena descritte e vede in particolare un Ernie Watts in eccellente forma. Buon ascolto e buon fine settimana con il Quartet West di Charlie Haden.

Il processo storico di diffusione della tradizione culturale africano-americana in quella americana – 3a parte

c&jLa via aperta da song-writer come Hogan, Bland e Davis venne percorsa con maggiore sicurezza, e risultati ancora più interessanti e convincenti, da un vero e proprio gruppo di lavoro formato da sofisticati intellettuali come Bob Cole e i fratelli James Weldon e J. Rosamond (o Rosamund) Johnson. Cole, nato in Georgia nel 1868, studiò alla Atlanta University, trasferendosi in seguito a New York, dove lavorò con una compagnia minstrel africano-americana che si esibiva abitualmente per strada. Al contempo iniziò a scrivere per il teatro, il che gli procurò un ingaggio con la troupe di Sissieretta Jones (la cosiddetta Black Patti), per la quale scrisse con William “Billy” Johnson la commedia “At Jolly Coon-ey Island” (1896). Poco dopo tale esperienza, conclusasi -per contestazioni economiche- con la sua sostituzione da parte di Ernest Hogan, proseguì in modo più regolare la collaborazione con Billy Johnson. Con quest’ultimo, un abile song-writer del South Carolina che si era distinto in numerose compagnie minstrel e si era esibito anche in The Creole Show (1890-1897, il primo spettacolo africano-americano a indirizzarsi verso il burlesque, con un uso esteso di interpreti femminili in ruoli altrimenti maschili, ad esempio il coro, come era tradizione nel minstrelsy) e in Octoroons(1895-1900, spettacolo che proseguì la strada aperta da The Creole Show e che doveva condurre successivamente ai cosiddetti floor-show degli anni Venti), Cole scrisse, produsse ed interpretò A Trip to Coontown (in cui si ritrova Willie Wayside, personaggio principale di Jolly Coon-ey Island) nel 1898, spettacolo interamente africano-americano che fu replicato per tre anni. Il rapporto con Billy Johnson s’interruppe per dispute economiche poco dopo la produzione, alla fine una prolungata tournée negli Stati Uniti, del ritorno a New York di A Trip to Coontown con nuovo titolo, The Kings of Koon-dom, presentata sempre nel 1898; nel 1899 iniziò l’associazione con i fratelli Johnson, figli di una famiglia della media borghesia nera di Jacksonville, in Florida: James Weldon aveva allora ventotto anni e J. Rosamond ventisei. Il primo aveva studiato alla Atlanta University e alla Columbia University, primo africano-americano a poter esercitare l’avvocatura, mentre l’altro, di precoce talento musicale, aveva studiato pianoforte al New England Conservatory di Boston e composizione a Londra con Samuel Coleridge-Taylor, esibendosi poi come cantante nella tournée compiuta in Europa dal sontuoso spettacolo Oriental America (1896-1899), inusitato incrocio fra minstrelsy e opera. L’incontro con Cole avvenne a New York, dove i due fratelli cercavano di trovare degli editori disposti a pubblicare le loro composizioni, alcune delle quali scritte per una commedia musicale intitolata Toloso, in cui si irrideva al nuovo imperialismo americano, che aveva già portato alla guerra contro la Spagna: Cole riuscì a far acquistare i diritti di esecuzione di un song, Louisiana Lize, a May Irwin, nota attrice comica, ottenendo inoltre la pubblicazione del lavoro da parte della casa editrice Joseph S. Stern Company che, non molto tempo dopo, pubblicò un’altra composizione dei Johnson, la celebre Lift Every Voice and Sing, che diventerà l’inno dello NAACP, National Association for the Advancement of Colored People. La società con Bob Cole durerà praticamente sino alla morte di quest’ultimo, risultando in oltre 200 composizioni ed un numero imprecisato di spettacoli. Primi frutti di tale collaborazione furono alcuni altri song per May Irwin, seguiti da alcune integrazioni di testi e musiche per un musical del 1900, The Rogers Brothers in Central Park, dal quale fu tratto un song (e un poema) come Run, Brudder Possum, Run, accolte straordinariamente bene dal pubblico bianco, tant’è che ormai Cole e i fratelli Johnson venivano invitati abitualmente a collaborare per spettacoli con il cast interamente bianco, ottenendo ingaggi anche da Klaw & Erlanger, fra i più importanti impresari di New York, per i quali iniziarono a collaborare scrivendo tre song per un’applaudita pantomima per bambini, The Sleeping Beauty and the Beast, una produzione inglese approdata a Broadway nel 1901. Un altro loro lavoro, The Maiden with the Dreamy Eyes, fu inserito in The Supper Club (1901) e in The Little Duchess (1901-1902, musical scritto da Reginald De Koven, con la cantante bianca Anna Held), una produzione di Florenz Ziegfeld (tra l’altro, marito della Held), segnando così, dopo la produzione sentimentale di Gussie Lord Davis, un nuovo passo nel cammino e nello sviluppo dell’entertainment africano-americano; con The Maiden with the Dreamy Eyes i song-writer nero-americani cessarono pressoché definitivamente di rivolgersi esclusivamente o quasi ad un pubblico a loro affine etnicamente o tramite interpreti bianchi di coon-song o di lavori minstrel: i loro lavori includevano qualsiasi genere musicale, rivolgendosi a ogni tipo di pubblico. Con Bob Cole e i fratelli Johnson gli autori africano-americani si indirizzarono al mercato più vasto, inserendosi a pieno titolo nello show-business: una serie di moduli tipici della tradizione culturale e musicale africano-americana iniziarono così a caratterizzare ed a permeare la produzione musicale popolare americana (pur con un orecchio e un occhio rivolto a modelli europei che furono del tutto assenti nell’approccio più squisitamente e originalmente africano-americano delineato da Will Marion Cook), conquistando presto l’orecchio anche di platee più colte e ponendo il pubblico bianco di fronte ad inaspettati sviluppi culturali e sociali. Si trattò di un lento processo di trasformazione che, nella diffusione della tradizione musicale africano-americana, portò anche ad un distacco da determinate radici tradizionali e popolari. Un processo che, se vogliamo, “adulterò” i valori del folklore, trasformandoli, raffinandoli, facendone veicoli più adeguati e flessibili di penetrazione culturale. Si trattò di uno sviluppo (in cui l’adeguamento a certi standard sociali e culturali bianchi ebbe un peso non indifferente) che prese il via da una concomitanza di fattori, già evidenziati nell’ambito della produzione musicale religiosa africano-americana, in cui certe forme tradizionali di celebrazione tendevano a comparire. Era il caso del cosiddetto shout, di quell’estatica forma di canto abituale nei riti religiosi celebrati dagli schiavi e dai loro discendenti anche diversi anni dopo la Guerra Civile. Nel 1886, rivolgendosi ai pastori africano-americani della popolazione sfollata dopo il terremoto a Charleston, un altro pastore, bianco, esortava dalle pagine di un quotidiano: “Do stop these repeated so-called religious scenes, singing and loud praying, and stentorian preaching. God is not deaf, and I don’t suppose all the congregations are, and need not be “hollered” at so. (…) You will never elevate your people thus, and you antagonize the two races. The average white man (…) looks with contempt, and says, What is the use to try to elevate those savages?” Lawrence W. Levine, in Black Culture and Black Consciousness, cita altri casi di africano-americani sempre meno propensi, verso la fine del secolo scorso, a praticare forme espressive poco tollerate o apprezzate dai bianchi; lo stesso James Weldon Johnson ricordava di aver ascoltato più volte, nel corso della sua giovinezza a Jacksonville, gli shout nel corso di cerimonie religiose; ricordava altresì che molti tra gli africano-americani non gradivano affatto certe manifestazioni di fervore, severamente criticate anche dai sacerdoti, che vi percepivano un esecrabile “primitive element”, per l’eliminazione del quale minacciavano e raccomandavano -come nel caso del reverendo nero-americano Daniel A. Payne– addirittura la scomunica.

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Jubilee Singers

Lo stesso successo dei Jubilee Singers o degli Hampton Singers implicava un’alterazione ulteriore di certi materiali: gli spiritual presentati al pubblico differivano talvolta radicalmente da quelli intonati un tempo dagli schiavi ed erano un versione edulcorata, adattata alle esigenze di quel pubblico bianco che automaticamente si presumeva fosse più “civilizzato” anche a livello culturale. Tale processo, d’altronde, era portato avanti anche dagli stessi intellettuali africano-americani, nel loro desiderio di essere pienamente integrati nella società americana, a costo persino di snaturare definitivamente la propria tradizione culturale, quella tradizione che veniva perpetuata assai più a livello popolare. Scriveva un critico musicale nero come James Monroe Trotter (Music and Some Highly Musical People, 1878): “My mind goes a few years into the future. I attend a concert given by students or by graduates of Fisk University; I listen to music of the most classical order rendered in a manner that would satisfy the most exacting critic of the art; and at the same time I am pleasantly reminded of the famous “Jubilee Singers” of days in the past by the peculiarly thrilling sweetness of voice, and the charming simplicity and soulfulness of manner, that distinguish and add to the beauty of the rendering”. Lo stesso James Weldon Johnson, in un articolo intitolato “How to Understand and Enjoy Negro Spirituals” e nella prefazione a “The Books of American Negro Spirituals”, esaltava gli spiritual secondo un’ottica “nobilitante”: canti in cui, per gli ascoltatori, era “pardonable to smile at the naiveté often exhibited in the words”, ma che comunque- esaltavano gloriosamente all the cardinal virtues of Christianity.

L’ingresso ufficiale degli autori africano-americani nello show-business americano rispondeva ad esigenze in parte analoghe. Solo in parte, perché pochi tra gli autori popolari africano-americani provenivano dalla fascia più intellettualizzata della emergente borghesia africano-americana, ed il desiderio di maggior accettazione della loro tradizione da parte della società bianca non necessariamente si esprimeva attraverso molteplici compromessi consci e inconsci; tant’è che, anni dopo, il comportamento abituale dei cosiddetti jazzisti non mancherà di suscitare ampio scandalo anche fra il pubblico africano-americano.

Il caso di Bob Cole e dei fratelli Johnson è particolarmente indicativo della penetrazione degli artisti africano-americani all’interno dello show-business americano, sebbene la posizione di quegli stessi artisti rimarrà peculiare, mai interamente integrata, se non altro per quella perpetuazione delle caratteristiche storiche e tradizionali della cultura musicale americana che ne farà pur sempre un caso a sé, mai interamente piegata alle esigenze di tradizioni o meccanismi esogeni. Cole e i Johnson furono i primi artisti africano-americani ad ottenere un contratto editoriale a New York, da Joseph W. Stern e Edward B. Marks: tre anni di esclusiva, anticipi mensili e royalties semiannuali. Mentre James Weldon Johnson, con i primi proventi della notorietà, preferì ritirarsi in parte dall’attività nell’entertainment, Bob Cole e J. Rosamond Johnson continuarono a sfruttare il loro talento, esibendosi nei migliori teatri della città come cantanti e ballerini e scrivendo una lunga serie di song, tutti particolarmente bene accolti dal pubblico bianco. Nei loro appartamenti al Marshall Hotel, un quartier generale dello show-business africano-americano, nacquero (oltre a collaborazioni precedenti come: The Belle of Bridgeport, 1900; Champagne Charlie, 1901; The Girl from Dixie, The Hall of Fame, Sally in our Alley, 1902; Mother Goose, Whoop-De-Doo, 1903; Alabama Blossom, An English Daisy, A Little Bit of Everything, 1904; In Newport, 1904-1905 e Humpty Dumpty, 1904-1908): Under the Bamboo Tree (scritto per la cantante bianca Marie Cahill, nel già citato Sally in Our Alley), Mandy, “Won’t You Let Me Be Your Beau (interpretato da Eddie Leonard), Nobody’s Looking but the Owl and the Moon, Tell Me, Dusky Maiden (un ironico richiamo a Tell Me, Pretty Maiden, dalla celebre commedia musicale del 1900, Florodora, The Old Flag Never Touched the Ground, My Castle on the Nile, (https://www.youtube.com/watch?v=vU0SLp5a90Ae Oh, Didn’t He Ramble (scritto da Cole e J. Rosamond sotto lo pseudonimo di Will Handy e non di rado attribuito ad altri autori). Seguirono una commedia musicale, Humpty Dumpty (da cui scaturì il successo di un song, Sambo and Dinah), prodotta da Klaw & Erlanger e messa in scena al New Amsterdam Theatre il 14 novembre del 1904, ed altri song come Lazy Moon, Congo Love Song (interpretato da Marie Cahill nella commedia musicale, del 1902, Nancy Brown), My Dusky Princess, Gimme de Leavin’s, The Countess of Alagazam, Evolution of Ragtime (scritto per la commedia musicale, del 1903, Mother Goose e inserito anche in A Little Bit of Everything, del 1904), Big Indian Chief (tratto da English Daisy, musical del 1904), The Conjure Man (scritto per Marie Cahill, nel musical Moonshine, del 1905), Hottentot Love Song (dalla commedia musicale Marrying Mary, del 1906, interpretato da Marie Cahill e a lungo attribuito a Benjamin Hapgood Burt e Silvio Hein) e Fishing (anch’esso interpretato da Marie Cahill).

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James Reese Europe

Cole e i fratelli Johnson cercarono inoltre di creare una compagnia teatrale stabile, esclusivamente dedita a lavori popolari africano-americani ma rivolta soprattutto a “an audience composed mostly of whites”: nacque così “The Shoo-Fly Regiment, presentato con la direzione musicale di James Reese Europe al Grand Opera House di New York il 3 giugno 1907, da cui venne tratto il song Lit’l Gal, scritto in origine per un precedente spettacolo, The Cannibal King; curiosamente, le liriche vennero attribuite a Paul Laurence Dumbar che, invece, non sembra aver avuto alcun ruolo nell’elaborazione del lavoro. E’ di poco dopo una vera e propria opera, The Red Moon, di cui Cole scrisse i versi e J. Rosamond Johnson la musica: presentata al teatro Majestic il 3 maggio del 1909, ottenne ampli consensi, al punto che Edward B. Marks, nella sua autobiografia, scriverà che essa rimane the most tuneful colored show of the century. Si trattava di un lavoro inusuale, particolare e complesso, la cui storia -ambientata in Virginia- esaltava l’esperienza educativa e sentimentale interetnica, basata sullo scambio fra studenti e insegnanti nativi americani e il loro rapporto con insegnanti africano-americani: l’auspicio di una futura alleanza fra minoranze perseguitate e disprezzate

Bob Cole, da tempo sofferente di disturbi nervosi, si ritirò (morirà annegato, forse suicida, nel 1911); J. Rosamond Johnson partecipò (assieme a J. A. Shipp e Alex Rogers) alla realizzazione di Mr. Lode of Koal presentato al Majestic di New York il 1˚ novembre del 1909: la commedia, di derivazione minstrel, si avvantaggiava della presenza in scena di Bert Williams, ma data l’inconsistenza, sia del testo che delle musiche, si risolse in un fiasco (da cui si salvò una pagina come By-Gone Days in Dixie). Hello, Paris, presentato il 19 agosto del 1911 in un piccolo teatro di Broadway, Les Follies Bergère, non ottenne -anch’esso- alcun successo, nonostante le musiche di J. Rosamond Johnson (scritte in collaborazione con un altro song-writer africano-americano di valore, L. Leubrie Hill, allora agli inizi di carriera) e la presenza in scena di un attore e cantante popolare come Harry Pilcer; in quell’occasione, Johnson diresse, fatto fino ad allora estremamente raro, una “pit orchestra” interamente bianca.

61v7bCulE8L._SX355_Autori come i fratelli Johnson o come Will Marion Cook furono determinanti nel presentare al pubblico bianco la veste qualitativamente più elevata del song-writing africano-americano; ad essi va il merito di aver diffuso, nel campo dell’entertainment una idea professionalmente più elevata della musica popolare africano-americana: lo show-business di Broadway si trovò alle prese con un fenomeno che, pur rimanendo peculiarmente nero-americano, era certamente in grado di competere con analoghi prodotti bianchi, dimostrando anzi, in quel periodo, di possedere persino una maggiore sofisticazione, di cui non mancherà di avvantaggiarsi la generazione successiva di autori bianchi. A cavallo fra l’Ottocento e il Novecento la commedia musicale a Broadway era ancora profondamente vincolata ai canoni dell’operetta europea, e compositori pur abili e talvolta sopraffini come Victor Herbert, John Philip Sousa, John Stromberg, Reginald De Koven, come lo stesso George M. Cohan o come i di poco successivi europei Rudolf Friml e Sigmund Romberg spesso non erano in grado di produrre alcunché in grado di superare i modelli imposti in precedenza da Gilbert e Sullivan. I compositori e autori africano-americani iniettarono nuova linfa, modificando radicalmente la storia dell’intera musica popolare americana ed attribuendo nuova importanza a quella tradizione culturale africano-americana che per lungo tempo era stata vista dai bianchi come puramente accessoria. Né si può affermare che essa, a quel punto, si limitasse ad un puro sovvertimento dei valori musicali: tramite l’estendersi della propria influenza attraverso l’entertainment (e grazie anche a una classe di intellettuali in vero fermento, prossimo a sfociare nella celebrata Harlem Renaissance), essa modificò l’uso della lingua inglese e non solo nell’ambito gergale, quello del cosiddetto slang; soprattutto diffuse nella cultura americana dei valori tipicamente africano-americani, tra cui ebbe primaria importanza, nel campo dell’entertainment, l’umorismo, con cui già gli schiavi mitigavano il peso delle loro sofferenze e con cui i minstrel africano-americani riuscivano ad ironizzare sulla propria etnìa per solleticare il pubblico bianco, senza perdere soverchiamente in dignità. Lawrence W. Levine cita una significativa pagina tratta da “Home to Harlem di Claude McKay: He remembered once the melancholy-comic notes of a “Blues” rising out of a Harlem basement before dawn (…) melancholy-comic. That was the key to himself and to his race (…) No wonder the whites, after five centuries of contact, could not understand his race (…) No wonder they hated them, when out of their melancholy environment the blacks could create mad, contagious music and high laughter. Ad essa fa eco un’affermazione di James Weldon Johnson in “The Autobiography of an Ex-Coloured Man” (Hill & Wang, 1912): “I have since learned that this ability to laugh heartily is, in part, the salvation of the American Negro; it does much to keep him from going the way of the Indian.” Sono inoltre molteplici le testimonianze, risalenti sino all’epoca della schiavitù, in cui si evidenzia il peculiare umorismo dei nero-americani, capace di reagire in modo fortemente ironico non solo alle avversità, ma anche di tingere di mordente sarcasmo i tic e le caratteristiche dei bianchi, padroni e ex-padroni, con ciò indicando l’esistenza di una vera e propria coscienza etnica spesso costretta ad esprimersi attraverso codici comprensibili solo agli africano-americani o, per metterla con un detto degli schiavi in Carolina: De buckruh hab scheme, en de nigger hab trick, en ebery time de buckruh scheme once de nigger trick twice. L’umorismo spontaneo, ma allo stesso tempo sofisticato, carico di doppi sensi espressi attraverso un uso profondamente colorito ma apparentemente innocente della lingua inglese, rinnova profondamente una cultura generalmente oppressa dall’eredità Puritana e addita in esso uno dei principali motivi del successo degli africano-americani come entertainer. In campo musicale, l’operato di autori come Bob Cole e i fratelli Johnson, alla conquista definitiva dell’intero mercato dominato dal pubblico bianco, fu costretto a “edulcorare” certi atteggiamenti irriverenti (e che invece proliferavano in forme più prettamente popolari come il blues); ciò non li rese -infatti- estremamente popolari tra gli africano-americani, che preferivano di gran lunga la teatralità di artisti come Bert Williams e George Walker, apprezzati peraltro anche da un pubblico bianco che della loro arte sapeva intuire solo la patina più superficiale, laddove per gli africano-americani essi sapevano esprimere concetti profondamente radicati nella loro tradizione culturale.

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Bert Williams

Egbert Bert Austin Williams non era nato negli Stati Uniti (bensì a Nassau, nelle Bahamas, probabilmente il 12 novembre del 1874). L’annotazione non è trascurabile: nonostante fosse idolatrato dalla comunità africano-americana statunitense, Williams non si sentì mai interamente parte di tale comunità. Il suo celebre quanto celebrato duo con George Walker si costituì a San Francisco, nel corso di una tournée dei Mantin & Selig’s Mastodon Minstrels, con i quali ambedue lavoravano, esibendosi abitualmente come attori comici e ballerini blackface. L’uso di truccare gli africano-americani per accentuarne la negritudine e esaltare le peculiarità fisiche del loro gruppo etnico non era cosa nuova, e il neo-costituito duo fra Walker e Williams proseguì in tale direzione, perché, come spiega lo stesso Walker, vi era una forte ostilità nei confronti dei natural black performers (…) on account of racial and color prejudice. (…) [The problem was] how to get before the public and prove that ability we might possess. (…) As there seemed to be a great demand for blackface on the stage (…) we finally decided that as white men with black faces were billing themselves as “coons”, Williams & Walker would do well to bill themselves as The Two Real Coons, and so we did. Our bills attracted the attention of managers and gradually we made our way in. Il resoconto di Walker è venato di un’ironia alquanto amara: dopo la Guerra Civile gli intellettuali africano-americani avevano iniziato a sviluppare con sempre maggiore efficacia una ben più solida coscienza etnica, e come lo stesso Walker lascia intendere, la crescita di tale black consciousness acuiva il profondo disagio nei confronti di pratiche avvilenti: Nothing seemed more absurd than to see a colored man making himself ridiculous (imitating the blackface white comedian) in order to portray himself.

220px-1900s_SM_Coon_Coon_CoonL’etichetta The Two Real Coons contraddistinse gli spettacoli con cui i due attori e ballerini iniziarono a farsi conoscere dal pubblico bianco, prima al Moore’s Wonderland di Detroit, poi a New York, al Koster & Bial’s Music Hall: Walker, un ballerino eccezionale nonostante i piedi piatti, faceva da spalla a Williams -la vera figura comica tra i due- riproponendo un aggiornamento delle due più caratteristiche e contrastanti figure iconografiche del minstrelsy, Jim Dandy e Zip Coon. Grazie all’operato dei due artisti il pubblico americano venne a contatto con l’ennesimo sottoprodotto della cultura popolare africano-americana, il cake-walk. Questi derivava, in linea diretta, dalla tradizionale danza in circolo africana, alle cui figurazioni gli schiavi africano-americani avevano aggiunto un’ironica caricatura della pomposa parata del minuetto europeo, dando vita ad un ballo che, nell’America di metà Ottocento, veniva denominato chalk-line walk e che veniva ballato tra la popolazione africano-americana da coppie che portavano in capo bacili pieni d’acqua. Nelle gare di ballo vinceva la coppia che riusciva a concludere versando la minore quantità di liquido: tale danza piuttosto rozza (che prese a diffondersi già nel 1877 grazie a una pièce di teatro musicale come Walking For Dat Cake di Harrigan e Hart, e che si dette una fisionomia definitiva nel 1889 con una composizione per banjo scritta da Fred Neddermeyer, Happy Hottentots) venne trasformata da Walker e Williams, nel 1896, in un ballo di raffinata ed esuberante eleganza, con cui conquistarono anche il pubblico inglese, nelle vesti dei Tobasco Senegambians, nel corso di un’applaudita tournée nel 1897.

fe3a98d5616b915e9d71d8a2e3657b78Sotto il profilo strumentale il cake-walk trovò invece una sua definizione strumentale (e più chiaramente sincopata nella sua veste anticipatrice del ragtime) grazie all’opera di Kerry Mills (1869-1948), un violinista di estrazione accademica che nel 1895, con Rastus On Parade; cui, nel 1897, seguì un successo come At a Georgia Camp Meeting, codificò l’uso, poi generalmente seguito da altri autori, di iniziare ogni cakewalk in minore per poi passare alla relativa maggiore (da altri fatta seguire da una sezione sottodominante)

Spettacoli come A Lucky Coon (1898, musiche di Will Marion Cook, testo e versi di Bert Williams e George Walker, da non confondersi con I’m A Lucky Coon, song di Garnett Lee e Al Simonds del 1906), The Policy Players (1899, un pastiche basato su materiali tratti di A Lucky Coon), Sons of Ham (1900, musiche di Will Marion Cook, testo e versi di Bert Williams e George Walker) e In Dahomey (1903, musiche di Will Marion Cook, testo di Jesse a. Shipp, versi di un poeta sopraffino come Paul Laurence Dunbar) affermarono definitivamente il successo di Walker e Williams, ma non solo. Soprattutto con “In Dahomey lentertainment africano-americano entrò di diritto a far parte della cultura americana, segnando non solo il primo, più importante e ufficiale passo del processo di accettazione e assimilazione della tradizione culturale africano-americana da parte del pubblico bianco, ma anche il definitivo avvio del faticoso iter di integrazione degli artisti africano-americani all’interno dei meccanismi della cultura popolare americana, rimasti a lungo ostinatamente chiusi ad ogni tentativo di penetrazione. L’ascesa in un sistema come quello di Broadway significava, per gli artisti africano-americani, non solo il riconoscimento e la consacrazione di un talento personale, ma anche una claudicante accettazione di carattere etnico che, in qualche modo, si riversava su tutti gli africano-americani: come molti artisti e intellettuali ebrei, gli artisti e intellettuali africano-americani si rendevano conto appieno dell’influenza che l’entertainment, in quanto sistema di diffusione di usi e costumi, poteva e sapeva esercitare sull’immaginario collettivo americano. Così, in un’intervista, Bert Williams poteva affermare: The way we’ve aimed for Broadway and just missed in the past several years would make you cry. (…) I used to be tempted to beg for a $15 job in a chorus just for one week so as to be able to say I’d been on Broadway once. Peraltro, il mondo dello spettacolo era tra i pochi ambiti metropolitani in cui gli africano-americani potevano sperare di accedere senza soverchie difficoltà: il mito delle grandi corporation, che aveva spinto un numero massiccio di africano-americani, soprattutto negli Stati del sud, ad abbandonare l’ambito lavorativo rurale per dirigersi verso le grandi città del Nord, si era rivelato fallace e perverso. Nel 1890 a Chicago, una città per l’80% formata da immigrati o da figli di immigrati, vivevano circa 15.000 nero-americani; nel 1915 questi ultimi erano più di 50.000, via via che, sempre più numerosi, gli africano-americani lasciavano gli Stati del sud, dove le ridotte possibilità economiche si accompagnavano a una dura oppressione sociale e politica. A conclusione della Guerra Civile molti tra i neri avevano cullato l’illusione che la terra occupata dalle piantagioni sarebbe stata suddivisa e distribuita agli ex-schiavi: Il modo migliore per badare a noi stessi è quello di ottenere la terra per coltivarla col nostro lavoro, aveva dichiarato un leader africano-americano del periodo, aggiungendo che una società libera e democratica non può esistere in nessun paese in cui tutte le terre appartengano ad una classe e siano lavorate da un’altra. Nessun partito, però, volle votare a favore del progetto di confisca dei beni dei proprietari terrieri del sud.

Di fronte alle misere prospettive offerte dal continuare a lavorare come mezzadri per i grandi proprietari, sulla loro terra e a loro vantaggio, molti uomini del sud, sia bianchi che neri, presero a dirigersi en masse verso le grandi città del nord e verso le migliori prospettive che queste parevano offrire. Tali prospettive erano, però, alla portata soprattutto della mano d’opera specializzata, laddove agli africano-americani era stato assai di rado concesso di avanzare sotto il profilo dell’istruzione. Questo handicap non si disgiungeva, ovviamente, dal peso dei pregiudizi razziali, con il risultato che ai non numerosi artigiani africano-americani specializzati -barbieri, camerieri, cuochi- veniva tolto il posto di lavoro, che, più tardi, sarebbe finito nelle mani degli immigrati bianchi. Questi ultimi, infatti, erano spesso in grado di far uso della loro pratica lavorativa anche sul più competitivo e affollato mercato americano. Gli operai specializzati di origine inglese e tedesca, al pari dei cittadini russi di origine ebrea, riuscirono non di rado a trovare un lavoro remunerativo nei vari settori industriali. E i contadini irlandesi, italiani e polacchi, tra gli altri, pur se esperti unicamente in agricoltura, vennero spesso occupati come manodopera non specializzata. In linea di massima, a tali lavoratori bianchi, non specializzati e privi di istruzione, venivano offerte possibilità occupazionali migliori che non agli africano-americani residenti al nord, con lunghi anni di esperienza urbana alle spalle, una maggiore specializzazione e un’istruzione più completa.

A quegli africano-americani che, privi di specializzazione e d’istruzione, si dirigevano in massa dalle aree rurali alle città del nord, il mercato del lavoro, nel 1900, non offriva praticamente alcuna speranza di avanzamento. A Boston, per esempio, tra i lavoratori irlandesi-americani della seconda generazione, la percentuale degli impiegati raddoppiò, rispetto a quella della generazione precedente, passando dal 12% al 24%. Per contro, tra gli immigrati neri di Boston, nello stesso settore impiegatizio, tra la prima e la seconda generazione, si registrò un aumento minimo, dal 7% al 9%.

Nei primi anni del Novecento, nella maggior parte dei quartieri a forte caratterizzazione etnica la percentuale di coloro che appartenevano a un gruppo dominante di immigrati, fossero essi irlandesi, italiani o ebrei, non superava il 60%. Gli africano-americani, viceversa, che nel 1880 vivevano sparsi nelle città del nord, furono immediatamente spinti all’interno di ghetti che, dopo il 1900, divennero omogenei al 90% e più. Sebbene la maggior parte degli uomini africano-americani, come lavoratori giornalieri, fossero confinati ai lavori meno remunerativi, e la gran parte delle donne di colore fossero impiegate esclusivamente come domestiche, la loro povertà non impedì loro di dover pagare affitti maggiori dei loro vicini bianchi, in quanto essi erano costretti a reperire un alloggio all’interno dei limiti definiti del ghetto. Nel 1910, un appartamento per lavoratori bianchi costava per sette stanze, 25 dollari, mentre sette stanze per gente di colore, 37 dollari e mezzo.

All’interno dei ghetti, in rapida espansione in tutte le maggiori città del nord, si verificò una sorta di ribaltamento della classe dirigente. Se, ad esempio, nel 1900 i leader della comunità africano-americana di Chicago erano dottori, dentisti e giornalisti, tutti fiduciosi nell’integrazione razziale, nell’arco di un decennio essi furono letteralmente sostituiti da uomini d’affari venuti su dal nulla, come Oscar De Priest, che aveva accumulato una fortuna nel settore immobiliare. Proveniente dall’Alabama, questi e un ristretto numero di uomini d’affari africano-americani, che avevano a loro volta raggiunto la ricchezza grazie agli abitanti del ghetto, avevano logicamente tutto l’interesse a che questo fosse preservato. Io ritengo che l’interesse del mio popolo dipenda dalla ricchezza del paese, dichiarò uno dei maggiori esponenti africano-americani di Chicago, e dalla classe del mondo bianco che la controlla.

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Maxwell Street in Chicago – 1908

Quando, però, durante la Prima Guerra Mondiale, la popolazione africano-americana di Chicago raddoppiò -a causa del crollo dell’immigrazione bianca e della great migration con cui 500.000 africano-americani giunsero nelle città del nord per colmare la mancanza di manodopera causata dalla guerra- l’atteggiamento subalterno adottato da questi personaggi del mondo imprenditoriale nero nei confronti della classe dirigente anglosassone non riuscì a salvarli dall’indiscriminata aggressività dei bianchi. Nel momento in cui il ghetto africano-americano iniziò a sconfinare a ovest, nei quartieri adiacenti occupati da lavoratori irlandesi e polacchi e, lungo il lato sud, in un quartiere della borghesia bianca protestante, si verificarono violenti scontri fra gruppi di cittadini che portarono a un rigido sistema di segregazione razziale, applicato ai parchi pubblici, alle spiagge, ai ristoranti e agli alberghi, ai teatri, ai negozi, e che provocò vere e proprie sollevazioni da parte degli africano-americani.

Dal 1890 al 1917 la popolazione anglo-americana aveva continuato a illudersi che le frontiere dell’industrialismo e dell’urbanizzazione avrebbero potuto sostituirsi alla frontiera geografica, ormai esaurita (la nuova frontiera americana era diventata l’Oceano Pacifico, con la sua rete di rapporti con l’Asia che tanto avrebbe affascinato anche gli intellettuali e gli artisti americani fra Ottocento e Novecento). Il fatto che l’America bianca, che aveva espresso la speranza di riuscire a controllare le masse africano-americane del mondo proprio attraverso l’industrializzazione e l’urbanizzazione di ogni continente, sembrasse incapace di controllare la popolazione nera all’interno dei propri confini era qualcosa di ben più che ironico. Uomini neri, rimanete al sud, tuonava nel 1918 il “Chicago Tribune”, offrendo pubblicamente un aiuto finanziario a tutti gli africano-americani che avessero acconsentito a far ritorno al sud, lontano da quell’etica del nord, l’etica del lavoro bianca che, secondo il quotidiano, i neri non erano in grado di assimilare.

Il mondo dello spettacolo continuava così a rimanere una sorta di oasi peculiare e sbilenca in cui, pur sfruttati, gli africano-americani potevano in qualche modo far circolare parte delle proprie tradizioni culturali, potendo persino aspirare ad eventuali successi senza urtare più di tanto determinate suscettibilità. Come affermava George Walker: “We want our folks, the Negroes, to like us. Not for the sake of the box office, but because over and behind all the money and prestige which move Williams and Walker, is a love for the race. Because we feel that, in a degree, we represent the race and every hair’s breadth of achievement we make is to its credits. For first, last, and all the time, we are Negroes” (George W. Walker, “Bert Me and Them”, in “New York Age”, 24 dicembre 1908).

Con In Dahomey venne definitivamente sancita l’aspirazione africano-americana a partecipare a una fra le più classiche espressioni del cosiddetto American Dream, tant’è che per la prima volta la stampa americana più accreditata non esitò a proporre paragoni tra gli interpreti bianchi e quelli africano-americani, e una pubblicazione come “Theater Arts” poté affermare che Williams era a vastly funnier man than any white comedian now on the American stage, notando inoltre che l’intero spettacolo era about on the same level with the average Broadway show. Lo stesso pubblico mostrò di avvertire il mutamento epocale, evitando di esprimere il rifiuto che ci si poteva aspettare nel momento in cui Broadway si apriva a fenomeni culturali sino ad allora considerati deteriori: A thundercloud has been gathering of late in the faces of the established Broadway managers. Since it was announced that Williams and Walker, with their all-negro musical comedy, In Dahomey, were booked to appear at the New York Theatre, there have been times when troubled breeders foreboded a race war. (…) [But] all went merrily last night (“New York Times”, 19 febbraio 1903).

Dopo In Dahomey, spettacoli come Abyssinia (1907) e Bandana Land riaffermarono con ulteriore vigore la validità radicalmente innovativa dell’entertainment africano-americano, di un entertainment, cioè, che nel giro di neanche un decennio avrebbe preso ad imporre la forza rivoluzionaria di una vitalità espressiva capace non solo di andare ben al di là degli schemi della cultura popolare, ma di rivolgersi creativamente ai più vasti strati di pubblico, popolare o accademico che fosse.

Spesso si dimentica, commentando generi musicali africano-americani come il blues, lo spiritual o quel fenomeno improvvisativo genericamente definito jazz, quanto la tradizione culturale africano-americana si sia imposta soprattutto attraverso l’entertainment, elevandolo a forma d’arte moderna e significativa, soprattutto facendone veicolo delle proprie istanze culturali e non. Ben prima che sulla scena si presentassero i grandi improvvisatori come Joe King Oliver o Louis Armstrong, la cultura africano-americana aveva iniziato a operare una vera e propria rivoluzione, che doveva non solo sconvolgere la cultura americana, popolare e non, del Novecento, doveva non solo estendersi a buona parte della cosiddetta musica eurocolta, doveva non solo affermarsi come uno dei fenomeni culturali più vitali e significativi di questo secolo, ma soprattutto doveva aprire la strada al fiorire delle varie forme espressive della tradizione culturale africano-americana in genere.

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Bert Williams e George Walker

Bert Williams, tra gli altri, e, soprattutto, George Walker (fortemente attivo politicamente, come la moglie Aida Overton, nella lotta per la conquista dei diritti civili) furono responsabili non solo di un mutamento epocale a livello culturale, ma anche sociale: ben prima che la black consciousness, magari rafforzata da un più solido substrato ideologico, iniziasse a diffondersi, fino a giungere alla maturazione degli ultimi tre decenni del Novecento, artisti quali Walker e Williams, avvalendosi anche della sensibilizzazione politica operata da numerose associazioni africano-americane sorte grazie al lavoro di personalità come W. E. DuBois, iniziarono dure lotte contro la segregazione, permettendo che almeno gli artisti, fra gli africano-americani, potessero godere dei più indispensabili diritti. La loro posizione pubblica era, peraltro, ambigua e complessa (come doveva evidenziare James Weldon Johnson in un testo come “The Dilemma of the Negro Author”): rivolgendosi ai bianchi in platea e agli africani in galleria (“nigger heaven”, come veniva denominata), non s’indirizzavano a un doppio pubblico, bensì a un pubblico diviso, separato, che possedeva al proprio interno idee diametralmente opposte sulla rappresentazione dell’africano-americano, della sua cultura, della sua vita. Un pubblico, perciò, che per motivazioni inconciliabili poteva, in ambedue i suoi alvei, rifiutare comunque l’interpretazione di certa tradizione che si svolgeva sulla scena: da un lato l’accettazione dello stereotipo come realtà priva di ironia, dall’altra il ribaltamento dello stesso stereotipo per smascherarne la fallacia: la funzione del black minstrelsy assumeva così una molteplicità di significati.

hqdefault (1)L”autenticità” dell’interpretazione condotta da africano-americani presso il pubblico bianco conduceva a un successo costruito, paradossalmente, sul rafforzamento degli stereotipi: la sciocca bonarietà innocua e infantile di Jim Crow si trasforma nella proliferazione di varianti dell’arrogante, violento, azzimato, chiassoso e volgare “Zip Coon”, presente in copertine di spartiti, custodie di 78 giri, pubblicazioni, manifesti, additando sempre di più gli africano-americani al pubblico ludibrio. Senza questa enfasi mediatica, forse un brano come If the Man on the Moon Were a Coon di Fred Fischer non avrebbe venduto tre milioni di copie: bastava il termine “coon” per attrarre attenzione, suscitare ilarità, creare consenso: “The colored man writes the ‘coon’ song, the colored singer sings the ‘coon’ song, the colored race is compelled to stand for the belittling and ignominy of the ‘coon’ song, but the money from the ‘coon’ song flows with ceaseless activity into the white man’s pockets.” (da un articolo apparso nel 1901 sull’Indianapolis Freemen a firma di “Tom the Tattler”). Eppure, neanche tale coltre volutamente equivoca di stereotipi riusciva più a nascondere la realtà di processo di “ri-definizione di se stessi” che il dopoguerra aveva innescato fra gli africano-americani. In un contesto così ambiguo anche la figura del “New Negro” (come era stata definita il 28 giugno 1895 in un articolo pubblicato dalla Cleveland Gazette), dell’africano-americano, cioè, che aveva saputo ottenere per sé “education, refinement and money” non sfuggiva a molteplici interpretazioni e sospetti: l’integrazione nel mondo dei bianchi non solo non garantiva equità o pacificazione o sicurezza, poteva anche essere il segnale di una resa, di una ri-definizione dopo la schiavitù non autentica ma espressione di acquiescenza a modelli artificiosi. Un bivio, quello fra assimilazione e integrazione, che più volte si era presentato, ad esempio, alla Diaspora ebraica (che, con la sua ferrea adesione alla propria tradizione, pur nel rispetto delle leggi vigenti, veniva spesso evocata come modello da parte di molti intellettuali africano-americani). Il successo degli interpreti e autori africano-americani su palcoscenici in cui si perpetuavano e si aggravavano, almeno all’apparenza, gli equivoci parodistici e sprezzanti del minstrelsy, da un lato perpetuava una “rappresentatività” negativa (soprattutto nella diffusione dell’oltraggioso ma, a ben vedere, sovversivo Zip Coon, incline al rifiuto delle convenzioni dell’establishment bianco) e metteva a repentaglio la narrazione in costruzione di una possibile integrazione, dall’altro -pur fra numerose costrizioni e limitazioni- veicolava costantemente l’immagine creativa dell’africano-americano grazie a un intrattenimento sempre più complesso e sofisticato e che presto, infatti, avrebbe assunto un’immagine capace di proiettarsi ben aldilà dei confini degli Stati Uniti. Coadiuvati anche da esponenti della società bianca particolarmente sensibili e aperti, come il celebre impresario teatrale Florenz Ziegfeld, numerosi rappresentanti dell’entertainment africano-americano -pur in un contesto così conflittuale- contribuirono, infatti, alla formazione, negli Stati Uniti, di una più matura coscienza etnica, proponendo il confronto tra l’eredità della cultura occidentale sviluppatasi nel Nuovo Mondo e la formazione sempre più rigogliosa di un frutto sincretico pienamente autoctono come quello della tradizione culturale africano-americana.

 

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Non a caso, dopo il successo ottenuto negli Stati Uniti, In Dahomey conobbe ben sette mesi di repliche a Londra ed una recita supplementare, il 23 giugno del 1904, a Buckingham Palace, per le celebrazioni del genetliaco del principe di Galles: la popolarità del cake-walk si estese a macchia d’olio, in Inghilterra e poi in Francia. Al ritorno negli Stati Uniti, la troupe percorse tutti gli Stati Uniti in una tournée di quaranta settimane che contribuì in modo determinante, nonostante la marcata ostilità di buona parte del pubblico bianco, a diffondere “ufficialmente” i nuovi sviluppi dell’entertainment africano-americano.

Quanto, in una realtà crudelmente negativa, gli artisti africano-americani avvertissero, anche ideologicamente, la loro “missione” di diffusori e innovatori della propria tradizione culturale, appare evidente all’esame della successiva produzione di Williams e Walker. Il 20 febbraio del 1906, al Majestic Theatre di New York esordiva Abyssinia, con musiche di Will Marion Cook e Bert Williams, testo di Jesse A. Shipp e versi di Alex C. Rogers e Earl C. Jones: Rastus Johnson (interpretato da George Walker), vince 15.000 dollari a una lotteria e, assieme a Jasmine Jenkins (interpretato da Williams), decide di visitare la patria degli antenati, identificata con un’Abissinia di fantasia, opulenta e fastosa (in scena vi erano veri leoni e cammelli, nonché una fragorosa cascata). L’ignoranza degli usi e costumi del luogo porta Rastus e Jasmine, dopo una serie di avventure e disavventure, al cospetto di re Menelik, accusati del furto di una preziosissima giara. Il sovrano, dopo ulteriori, tragicomici momenti di tensione, assolve e premia i due protagonisti. Gerald Bordman ha fatto notare come J. A. Shipp e Alex Rogers, autori del libretto, operassero un distinguo persino linguistico nel raffigurare in scena gli africani e gli africano-americani: i primi parlavano in un inglese correttissimo, persino aulico, laddove i secondi si esprimevano con inflessioni gergali tipiche del ghetto nero o, peggio, del minstrelsy, quasi a sottolineare come i neri d’America avessero perso, nel Nuovo Mondo, una sorta di Grazia Originale. Da Abyssinia emersero song come il celebrato Nobody (che costituirà per Bert Williams una sorta di “sigla”, The Island of By and By, Let It Alone, Here It Comes Again, Pretty Desdemone e altri ancora.

1908-bandana-land-williams-walker-1Il 3 febbraio del 1908, prodotto da Ray Comstock, andava in scena Bandana Land, ultima collaborazione tra Bert Williams e George Walker, il cui stato di salute andava declinando rapidamente; lo spettacolo, su libretto di Alex C. Rogers e Jesse A. Shipp, e musicato da Will Marion Cook, con contributi di Bert Williams, Tom Lemonier, Mord Allen, Joe Jordan, Alex Rogers, Cecil Mack, J. Leubrie Hill e Chris Smith, rappresentava la quintessenza delle storie, pur esili, abitualmente portate sul palcoscenico da Williams e Walker: Mose Blackstone (interpretato da Alex Rogers) organizza una cordata di compratori per acquistare la fattoria di Amos Simmons e rivenderne il terreno, a prezzo maggiorato, alla compagnia che deve costruire la strada ferrata su cui passerà il tram cittadino. Gli manca il capitale per organizzare l’impresa, ma viene a conoscenza che il ricco Skunkton Bowser, alle prese con la gestione di un gruppo minstrel, può contribuire. Ottenuto il finanziamento, Blackstone cede metà del terreno alla compagnia tramviaria e con l’altra metà crea un parco per la comunità nera locale, avvertendo l’azienda del tram che i cittadini neri ostacoleranno in tutti i modi il passaggio dei convogli se non venisse pagata loro una somma esorbitante per la cessione del restante terreno. All’ultimo minuto, Skunkton e il suo socio, Bud Jenkins (interpretato da George Walker) si ritirano dalla società con Simmons e gestiscono, con successo, l’affare in proprio.

Nel corso delle recite Walker fu colto da un malore e venne sostituito dalla moglie, Ada Overton Walker, che, in abiti maschili, si esibì nei numeri previsti per il marito, tra cui il suo ormai noto theme song, Bon Bon Buddy. Dallo spettacolo emersero altri song popolari come In Bandana Land, Late Hours, You IsYou Is You.

Durante la prolungata malattia di Walker, Bert Williams si esibì in Mr. Lode of Koal, al Majestic Theatre (1˚ novembre 1909): da un libretto e liriche di A. J. Shipp e Alex Rogers, con musiche di J. Rosamond Johnson e dello stesso Williams, era stata tratta una tipica vicenda minstrel, caratterizzata dai tipici nonsense cari all’attore. Mr. Lode (interpretato da Williams) sogna di naufragare su di un isola: un gruppo di rivoluzionari ha detronizzato e imprigionato il re, Big Smoke (interpretato da Matt Housley), e poiché una vecchia leggenda vuole che un giorno giunga dal mare un grande leader, il riluttante Mr. Lode si trova ad essere incoronato nuovo sovrano. I tre atti della commedia trascorrono nell’illustrazione degli innumerevoli e comici tentativi del protagonista di liberarsi da onori e oneri di un reame né voluto né apprezzato.

Privato del suo partner abituale, Williams divenne la star dell’importante circuito teatrale Keith-Orpheum, per il quale si esibivano le più affermate compagnie minstrel: nonostante fosse una celebrità a livello nazionale, il nome dell’attore, sui cartelloni, non appariva mai in primo piano. A dimostrazione della ostilità con cui ancora veniva accolto l’ingresso degli africano-americani in un mondo cui questi partecipavano, e con straordinario successo, da decenni, è esemplare il rapporto tra Williams e Florenz Ziegfeld. Nel maggio del 1910 la stampa annunciò che il celebre impresario aveva ingaggiato Williams per il suo spettacolo Follies of 1910; essendo l’unico interprete di colore, l’attore fu oggetto di un vero e proprio tentativo di boicottaggio da parte di buona parte del cast e solo l’indisponibilità di Ziegfeld a qualsiasi tipo di compromesso fu in grado di piegare la preconcetta ostilità, che non ebbe a ripetersi nonostante l’impresario tornasse ripetutamente a ingaggiare Williams per altri suoi spettacoli.

Primo africano-americano ad irrompere trionfalmente sui palcoscenici più blasonati di Broadway, Williams fece breccia anche nel muro della più severa e prevenuta critica bianca. Quando Ziegfeld’s Follies of 1910 esordì a Chicago, Constance Skinner, del “Chicago Evening American”, commentò: The principal congratulatory item is Mr. Bert Williams. Bert Williams is not ones of the Follies, he is the wisdom and wit before F. Ziegfeld ever committed a folly.

In Ziegfeld’s Follies of 1911 (Jardin de Paris, 26 novembre 1911) Williams comparve in due sketch comici, uno dei quali a fianco dell’attore comico bianco Leon Erroll, interpretando anche un song, Woodman, Woodman, Spare That Tree (da non confondersi con il quasi omonimo lavoro di Henry Russell), scritto appositamente per lui da Vincent Brian e Irving Berlin. Come scrisse “The New York World”, “It remained for that dusky vaudeville genius, Bert Williams, to make the big hit of the night. He had already been funny in Everywife but he was sidesplitting when he appeared as a ‘red cap’ to pilot an English tourist (Leon Erroll) over the almost inaccessible fastness of New York Central Station This dialogue, in which the tourist fell off a girder into the depths below, the audience nearly went into convulsions.” Ancora più esplicito il “Morning Telegraph”: “The big comedy hit of the night arrived late with Bert Williams (…) Williams capped the climax of a glorious night for himself by telling the true story of a poker game in pantomime (…) Whether serious, grotesque, or just simply funny, this dark-skinned man demonstrated again he is one of the most finished actors on the American stage…”

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L’ostilità razziale incontrata da Williams è paradigmatica e dà la misura delle difficoltà che gli artisti africano-americani dovevano affrontare per imporre la loro presenza in un ambito che, peraltro, era per natura più “aperto” della cosiddetta “società civile”. Il pubblico bianco americano si era dimostrato assai disposto ad accogliere la tradizione culturale africano-americana sino a quando le era stata proposta una versione edulcorata da interpreti bianchi. La mediazione bianca non solo rendeva il prodotto meno “minaccioso” culturalmente, evitando un contatto diretto tra il pubblico e degli interpreti di colore, permetteva inoltre di cullare l’illusione che essa in qualche modo “migliorasse” il prodotto, ribadendo ancora una volta la supremazia dei bianchi sugli africano-americani. Il lento ma sicuro affermarsi degli artisti africano-americani aveva demolito tali queste certezze, dimostrando non solo che la cultura africano-americana si poteva permettere di competere con la tradizione bianca anche in ambiti a questa tradizionalmente propri, ma che in più casi essa poteva affermare anche dei veri e propri primati.

E’ da tale confronto culturale che si fa sempre più strada, al di là delle collaterali lotte politiche portate avanti dai leader della comunità nero-americana, la presa di coscienza etnica degli africano-americani e, specularmente, lo sviluppo di una identica problematica fra quei bianchi che, dopo secoli di un illusoria supremazia imposta con la prevaricazione, erano forzosamente costretti a porsi in tutt’altro tipo di rapporto con un gruppo etnico capace di impensate risorse non solo culturali. Lo stesso Williams, uomo certamente non dedito alla protesta esteriore, mostra di aver capito appieno la portata dell’operato suo e di altri intellettuali africano-americani: “People sometimes ask me if I would not give anything to be white. I answer, in the words of the song, most emphatically “No”. How do I know what I might be if I were a white man? I might be a sandhog, burrowing away and losing my health for $8 a day. I might be a streetcar conductor at $12 or $15 a week. There is many a white man less fortunate and less well equipped than I am. In fact, I have never been able to discover that there was anything disgraceful in being a colored man. But I have often found it inconvenient – in America. (…) I am what I am, not because of what I am, but in spite of it” (“American Magazine”, Dicembre 1917). Considerazioni ancora più illuminanti se poste a confronto con quelle che lo stesso Williams faceva in una lettera scritta poco prima di morire il 4 marzo 1922 e pubblicata postuma dal quotidiano “Chicago Defender”: “I was thinking about all the honors that were showered my way at the theater. How everyone wishes to shake my hand and get an autograph. A real hero you’d naturally think. However, when I reached my hotel (in downtown Chicago) I am refused permission to ride on a passenger elevator, cannot enter the dining room for my meals and am Jim-Crowed (segregated) generally. But Bill, I’m not complaining particularly since I know this is an unbelievable custom. I am just wondering. I’d like to know when ultimate changes come and those persons I meet at the theater eliminate through education and common decency the kind that run such establishments what will happen. I wonder if the new human beings will believe such persons I am writing you about actually lived?”

Nel mentre Williams e Walker raggiungevano l’apice delle loro carriere, un altro evento veniva a favorire la diffusione della cultura musicale africano-americana, favorendo e anzi, imponendo l’allargamento del confronto fra la tradizione culturale nero-americana e la società bianca statunitense: nel 1891, George W. Johnson, un ex-schiavo di Washington incideva per la prima volta, su cilindri della Edison, un brano scritto da un autore africano-americano, The Whistling Coon, scritto nel 1888 da Sam Devere. Nel 1901, Bert Williams, primo artista di colore americano ad intraprendere una carriera discografica, incideva alcuni brani (alla fine della sua vita saranno quasi ottanta) per la Columbia Phonograph Company: per la cultura musicale africano-americana iniziava una fase estremamente importante, che in seguito, con il jazz, si sarebbe sviluppata in modo tale da rendersi determinante per l’intera cultura contemporanea statunitense. Il disco, infatti, nonostante eventuali limitazioni e barriere frapposte dall’ostilità razziale, porterà a diretto contatto la musica africano-americana con un pubblico vasto, la maggior parte del quale del tutto, o quasi, ignaro non solo della straordinaria fioritura della cultura africano-americana, ma persino della configurazione sociale che andava assumendo la comunità nera.

Grazie ai lavori incisi da protagonisti dell’entertainment africano-americano come Bert Williams -prima ancora che il ragtime e il jazz ottenessero una decisiva affermazione e una perentoria diffusione- la musica africano-americana iniziò la sua costante penetrazione all’interno della cultura americana. È grazie a un successo di Ziegfeld’s Follies of 1914 interpretato da Williams, The Darktown Poker Club (video), che, ad esempio, ottenne il primo, significativo successo Will Vodery (1885-1951). Questi, un abile compositore e arrangiatore di Philadelphia che aveva studiato al Conservatorio di Parigi, dopo avere prestato servizio -nel corso della Prima Guerra Mondiale- nella banda di un reggimento di colore, si era già distinto, in patria, scrivendo nel 1908 per i Black Patti Troubadours le musiche di A Trip to Africa (il primo lavoro di teatro musicale africano-americano ad essere presentato ad una platea interamente bianca, alla Bowery di New York), di Oyster Man, di The Man from ‘Bam (in collaborazione con Joe Jordan, 1906) ed arrangiando Bandana Land, di cui era stato anche il direttore musicale in sostituzione di Will Marion Cook. Ziegfeld, che aveva già avuto modo di apprezzarne le doti compositive, attraverso i diversi song che erano stati qua e là utilizzati nelle diverse edizioni delle Follies, lo ingaggiò come compositore e arrangiatore. Vodery, curiosamente, dovette scrivere, sino agli anni Venti, una serie piuttosto vasta di lavori a glorificazione delle ragazze bianche d’America, tema tipico delle cosiddette extravaganzas che venivano inserite fra i vari atti degli spettacoli di Ziegfeld. Fu lo stesso Vodery a scrivere le musiche per The Pink Slip (più tardi reintitolato Under the Bamboo Tree), ultimo spettacolo di Bert Williams, che morì, colto da infarto, nel corso della prima recita.

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Will Vodery

Vodery, che esercitò notevole influenza sui primi lavori del giovane Duke Ellington, fu figura assai rispettata nel campo dell’entertainment (e non solo: fu lui a incoraggiare William Grant Still nella sua carriera di compositore): capo-arrangiatore della casa editrice Stern & Marks, lavorò, primo africano-americano a farlo, anche a Hollywood, presso la Fox Films, agli albori del film sonoro. A lui, come già detto, si devono anche le musiche per lavori quali The Oyster Man (25 novembre 1907, messo in scena a Yorkville, in collaborazione con Ernest Hogan e Henry S. Creamer, e da cui furono tratti song come A Yankee Doodle Coon, The White-Wash Brigade, When Buffalo Bill and His Wild West Show First Came to Baltimore) e Plantation Revue (17 luglio 1922, al 48th Street Theatre, con Florence Mills e Shelton Brooks). Fu Vodery a arrangiare e orchestrare il primo tentativo operistico di George Gershwin, Blue Monday (135th Street), scritto per i George White’s Scandals of 1922. Altresì, egli fu l’arrangiatore di lavori come Shuffle Along (1921), Keep Shufflin’ (1928), Blackbirds of 1928, Blackbirds of 1929, Cotton Club Parade (1935), per non parlare di Show Boat, di Jerome Kern, prodotto da Ziegfeld nel 1927.

12318Se il nascente mezzo fonografico ebbe un ruolo straordinariamente rilevante nell’opera di diffusione della cultura musicale africano-americana, poco meno rilievo ebbero le tournée compiute, sia negli Stati Uniti che all’estero, da quelle compagnie itineranti che -così come in precedenza avevano fatto conoscere il minstrelsy africano-americano- contribuirono a portare il nuovo verbo della tradizione musicale africano-americana a un pubblico internazionalmente sempre più vasto: si pensi all’operato del già citato Will Marion Cook o a quello di Jim Reese Europe. Quest’ultimo, direttore musicale di lavori come The Shoo-Fly Regiment e Mr. Lode of Koal e, tra il 1913 e il 1914, direttore musicale di Irene e Vernon Castle, fu peraltro il primo direttore d’orchestra africano-americano a lasciare testimonianze discografiche. Nato a Mobile, in Alabama, nel 1881, studiò pianoforte e violino a Washington, trasferendosi, nel 1904, a New York, dove, prima di lavorare assieme a Bob Cole e ai fratelli Johnson nelle due commedie musicali poc’anzi citate, si esibì al Proctor’s Theater con i Nashville Students, partecipando poi alla tournée europea dei Tennessee Students. Nel 1910, radunando attorno a sé i migliori musicisti africano-americani di New York, dette vita alla Clef Club Orchestra e alla Tempo Club Orchestra, allo scopo precipuo di diffondere il nuovo corso della cultura musicale africano-americana. Sostenendo che gli africano-americani avevano creato a kind of symphony music that (…) is different and distinctive, Europe organizzò una serie di pubbliche manifestazioni che culminarono, nel maggio del 1912, in un concerto alla Carnegie Hall: 145 musicisti di colore, tra cui anche alcuni portoricani, si esibirono in un programma che comprendeva spiritual, brani da commedie musicali, ballabili e lavori rag.

Artisti africano-americani come Europe furono responsabili non solo della sempre maggiore diffusione della musica africano-americana, ma di veri e propri mutamenti nella storia del costume: fino a quando le innovative inflessioni ritmiche della tradizione musicale nero-americana non fecero la loro prepotente comparsa nel panorama della musica popolare americana, le incisioni fonografiche di musiche commerciali o da ballo erano affidate tradizionalmente a bande di stampo militare, come quelle, celebrate, di John Philip Sousa o di Arthur Pryor, o a gruppi para-sinfonici, come la Metropolitan Orchestra (che fungeva da compagine fissa per la Victor) o l’orchestra che Charles Adams Prince dirigeva per la Columbia. Tali gruppi, in genere composti da due cornette, trombone, oboe, flauto, tuba, percussione, due violini e una viola (cui talvolta, a seconda delle necessità, si aggiungevano un pianoforte, un violoncello o un contrabbasso o altri strumenti) eseguivano materiali non eccessivamente complessi come hesitation waltz, two-step (con varianti quali turkey trot e bunny hug), cake-walk. L’irrompere sulla scena di altre più articolate e complesse figurazioni, di composizioni -anche di autori bianchi [si pensi a Everybody’s Doin’ It (1911), Snooky Ookums (1913), Alexander’s Ragtime Band (1911) di Irving Berlin o Waiting for the Robert E. Lee (1912) di Wolfie Gilbert e Lewis Muir]- sempre più ispirate dai ritmi africano-americani, letteralmente costrinse le case discografiche (così come i responsabili di locali notturni e sale da ballo) -con il diffondersi di quella dance craze che caratterizzò buona parte del primo ventennio del Novecento negli Stati Uniti- a ingaggiare soprattutto orchestre e gruppi strumentali africano-americani, di gran lunga più adatti alla bisogna.

Nel corso di queste vicende, il destino di Jim Europe si unì a quello dei coniugi Castle, Vernon e Irene, veri e propri geniali promotori, in Europa come negli Stati Uniti, dei nuovi balli, primariamente ispirati dalla rivoluzionaria musica africano-americana.

Ballerini di straordinaria abilità, i Castle organizzarono numerose scuole di ballo, Temples of Terpsichore, Castles in the Air e Castles by the Sea, in cui addestrarono le nuove generazioni americane, specie quelle appartenenti ai ceti più abbienti, ai passi dei nuovi, popolarissimi balli: Castle walk, Castle rag, Castle rock, lame duck, Castle maxixe, half-in-half. Il loro contributo alla diffusione di taluni aspetti della cultura musicale africano-americana fu, per certi versi, inestimabile, sebbene il loro successo dipendesse soprattutto dall’aver di molto attenuato il “sapore” africano-americano dai balli che promuovevano. Accompagnava i Castle, nei loro applauditi e affollati spettacoli, la Syncopated Society Orchestra di Jim Europe, prima orchestra africano-americana a ottenere un contratto discografico: quattordici musicisti fra violini, banjo, cornetta, trombone, violoncello, contrabbasso, piano e batteria. Ed è allo stesso Europe che va attribuito il merito di introdurre la coppia di ballerini agli accenti ritmici della musica africano-americana: la diffusione di one-step e di quella variante dello schottische che è il fox trot deve al direttore d’orchestra non meno che ai Castle.

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Ford Dabney

Assieme a Ford Dabney (1883-1958), pianista dell’orchestra, Europe compose e/o arrangiò, fra gli altri, lavori come Castle Walk (1914), Castle House Rag (1914), Castle Valse Classique (1916, un adattamento di Dabney dall’Humoreske di Anton Dvórak). La sua collaborazione con la celebre coppia di ballerini si interruppe con la Prima Guerra Mondiale (nel corso della quale Vernon Castle, che era inglese, morì); Europe, nominato tenente, fu incaricato di dirigere la banda di un corpo militare di colore, il 369th Infantry Regiment, detto anche Hellfighters. Inviato in Francia, si esibì per le truppe alleate e, occasionalmente, per pubblici di sale da concerto, presentando e diffondendo in Europa la nuova musica sincopata americana. Nel corso di una trionfale esibizione alle Tuilleries si ricorda che abbia presentato, tra le altre, versioni di Memphis Blues  e di St. Louis Blues.

Ritornato in patria, Europe morì nel corso di una tournée, assassinato il 9 maggio del 1919 dal batterista dell’orchestra, Herbert Wright, irritato per alcuni sarcastici commenti che il direttore aveva fatto sul suo modo di suonare.

He was brought back to New York, and buried from St. Mark’s Methodist Episcopal Church in West 53rd St. after a parade from a Harlem undertaker’s parlor. Throngs witnessed it, and among the spectators were Col. William Hayward (commander of the 369th Regiment) and John Wanamaker, Jr. He was buried in Arlington, not in his uniform but in the famous dress clothes that he wore as a jazz-band leader, which included a white, pleated silk shirt and striped vest (da Reid Badger, A Life in Ragtime. A Biography of James Reese Europe, Oxford University Press, Oxford – New York 1995).

(continua)

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Uno dei (tanti) dimenticati della West Coast

Credo che il West Coast anni ’50 sia stato uno dei periodi del jazz più travisati e massacrati a prescindere dalla nostra critica e oggi, devo dire, in buona parte a torto. La cosa nacque, come più o meno per altre stroncature del genere, nel periodo dei famosi ideologizzati anni ’70, periodo nel quale è stato fatto strame di tutto ciò che non appariva a certe orecchie ricoperte da fette di salame e da menti occluse dalla faziosità politica, “rivoluzionario”, “impegnato”, anti “sistema imperialistico americano” e soprattutto “free”. Insomma, il jazz visto e utilizzato come strumento di battaglia politica (peraltro riportato quasi sempre a tematiche locali, del tutto esogene al contesto americano). Un modo distorto e (volutamente?) mistificatorio di leggere il jazz che sostanzialmente si è protratto nel tempo sino ai nostri giorni (per quanto sempre più sotto traccia) anche perché in gran parte la nostra critica è composta dalle stesse persone di allora, solo malamente invecchiate, incapaci di rinnovarsi, per quanto rimangano cocciutamente abbarbicate a certe stantie idee sempre più prive di riscontri nella realtà musicale (e non solo) odierna.

Se si sgombrasse il campo invece da tali distorsioni e si provasse a riascoltare la produzione musicale di quel periodo, ci si renderebbe conto di una qualità musicale che, come minimo e in buona parte, non meritava certo un approccio così pregiudizialmente negativo. Senza contare l’alto livello dimostrato da una serie di strumentisti e improvvisatori degni di assoluto rispetto. Il fatto che molti di questi oggi risultino essere dei semi o totali sconosciuti ai più è solo la conferma del danno culturale che si è riusciti a produrre in materia. La lista dei nomi che potrei produrre è particolarmente lunga anche solo citando musicisti bianchi (ma ve ne sono stati moltissimi e validissimi sulla West Coast anche tra i neri) ed evito di farla solo per brevità, sperando che i lettori più curiosi provino a ricercarli per proprio conto.

Tra questi vi è stato William Reese Perkins ( 22 luglio 1924 – 10 agosto 2003), meglio noto come Bill Perkins che è stato un eccellente sassofonista (oltre che flautista) di tipica scuola West Coast, caratterizzato, come molti dei suoi colleghi di quella scuola, da un suono levigato, fraseggio sofisticato e una preparazione tecnica e musicale di prim’ordine. Nativo di San Francisco, in California, Perkins ha iniziato a esibirsi nelle big band di Woody Herman e Jerry Wald. partecipando a diverse registrazioni per l’orchestra di Stan Kenton dal 1954 al 1965. È stato anche membro del The Tonight Show Banddal dal 1970 al 1992.  Quando le proposte concertistiche divennero inevitabilmente più scarse negli anni ’60, si propose in una carriera professionale parallela in qualità di ingegnere di registrazione.

Perkins ha una discografia più ricca e varia di quanto ci si potrebbe aspettare in prima istanza, sia nel ruolo di leader o co-leader, sia in quello di sideman. Tra i nomi citabili con cui ha lavorato si possono indicare i colleghi Al Cohn e Richie Kamuca, i contraltisti Bud Shank, Art Pepper, i trombettisti Chet Baker, Shorty Rogers, Conte Candoli, i pianisti Russ Freeman, Pete Jolly, John Lewis, Hampton Hawes, Victor Feldman, Lou Levy, Clare Fisher, Frank Strazzeri, André Previn, i big band leader Gerald Wilson, Pete Rugolo e Lalo Schifrin, i chitarristi Barney Kessell e Jim Hall e molti altri ancora.

Propongo qui qualche estratto musicale rintracciato in rete relativo alle sue collaborazioni. Buon ascolto.

 

L’elegante chitarra di Kenny Burrell

E’ con gran dispiacere che  abbiamo saputo delle recenti gravi calamità finanziarie subite dall’ottantottenne Kenny Burrell, un grande, storico chitarrista del jazz moderno ancora attivo e  dalla discografia particolarmente ricca di buoni dischi, sia in qualità di leader che in quella di sideman.

Chitarrista dotato di ottima tecnica, elegante, dalle marcate influenze bebop e blues, ma capace di creare anche atmosfere delicate, Burrell come molti altri chitarristi della sua generazione è stato influenzato dal capostipite della chitarra jazz moderna Charlie Christian, ma in realtà il suo spiccato senso del blues proviene più dall’ascolto di tipici bluesman come T-Bone Walker e Muddy Waters.

Burrell è nato a Detroit, nel Michigan. Ha iniziato a suonare la chitarra all’età di 12 anni, continuando a studiare composizione e teoria con Louis Cabara e chitarra classica con Joe Fava. Mentre studiava alla Wayne State University fece il suo debutto discografico come membro del sestetto di Dizzy Gillespie nel 1951. Durante gli anni del college, Burrell fondò il collettivo New World Music Society con altri giovani musicisti di Detroit che sarebbero diventati come lui famosi jazzisti: Pepper Adams, Donald Byrd, Elvin Jones, e Yusef Lateef. Nel 1955 sostituisce per motivi di salute Herb Ellis nel trio di Oscar Peterson, poi si trasferisce a New York nel 1956 con l’amico pianista Tommy Flanagan. Qui, nel giro di pochi mesi, Burrell registra il suo primo album come leader per la Blue Note e sia lui che Flanagan divengono ricercati come  sidemen e musicisti di studio, esibendosi con i cantanti Tony Bennett e Lena Horne e registrando con Billie Holiday, Jimmy Smith, Gene Ammons e Kenny Dorham. Dal 1957 al 1959, Burrell prende tra l’altro il ruolo che fu di Charlie Christian nella band di Benny Goodman.

Burrell ha maturato nel tempo una prolifica discografia, nella quale si possono indicare alcuni lavori particolarmente significativi. Oltre alla serie di registrazioni Blue Note anni’50, sono da citare almeno The Cats con John Coltrane (1957), Midnight Blue con Stanley Turrentine (1963), e Guitar Forms con arrangiatore Gil Evans (1965), da considerare tra i suoi vertici assoluti. Burrell riesce ad emergere anche nel ruolo di spalla di grandi improvvisatori come Sonny Rollins (in Alfie Impulse! -1966) e Stan Getz. Ha ampliato il suo percorso musicale insegnando per tutti gli anni ’70 chitarra jazz all’università in California. In particolare, nel 1978 ha iniziato a insegnare alla UCLA (avendo tra gli alunni negli anni ’90 anche un certo Kamasi Washington) un corso denominato “Ellingtonia”, esaminando la vita e le realizzazioni di Duke Ellington, diventandone un eccellente interprete chitarristico e registrando una serie di omaggi e versioni delle sue opere. Non a caso Ellington ebbe modo di definire Burrell il suo “chitarrista preferito”. 

Pur non divenendo mai una celebrità, il suo apporto alla chitarra jazz in chiave bop è da considerarsi fondamentale. Lo si può ancora oggi ascoltare in tournée con il suo trio o quartetto. Burrell ha ricevuto il premio Jazz Educator of the Year 2004 dal magazine Down Beat ed è stato nominato NEA Jazz Master 2005. Nel 2010 gli è stato conferito un Grammy Salute To Jazz Honoree.

La sua lunga carriera, corrispondente alla sua ricca discografia, proporrebbe molte cose da evidenziare. Ci limitiamo a 4 significative tracce riprese dalla rete, più un recente video filmato dove Burrell interpreta in solitaria un sentito medley ellingtoniano in cui spicca la versione di Azure. La prima traccia è tratta dal suo già citato capolavoro arrangiato da Gil Evans. Molto bella è anche la sua versione di My Favorite Things, mentre nel pezzo estratto da “Midnight Blue” si può apprezzare il suo senso del blues. Buon ascolto.

Il processo storico di diffusione della tradizione culturale africano-americana in quella americana – 2a parte

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Joseph Le Conte

Joseph Le Conte, influenzato dalle teorie dello zoologo svizzero Louis Agassiz (“The brain of the Negro is that of the imperfect brain of a seventh month’s infant in the womb of a White, cit. in Louis Menard, “Morton, Agassiz, and the Origins of Scientific Racism of the United States,” The Journal of Blacks in Higher Education 34, Winter 2001-2002, pag. 112) sosteneva la tetra teoria antropologica secondo cui gli etnologi moderni avrebbero inoppugnabilmente dimostrato che la “razza negra” sembrerebbe essere totalmente incapace di progredire in tutti gli aspetti umani essenziali: “Not only has the Negro been elevated to his present condition by contact with the white race but he is sustained in that position wholly by the same contact, and whenever that support is withdrawn he relapses again to his primitive state. (…) The Negro race as a while is certainly at present incapable of self-government and unworthy of the ballot; and their participation without distinction in public affairs can only result in disaster” (Joseph Le Conte. “The Race Problem in the South, Mnemosyne Publishing, Miami 1969, pag. 367, 376). Una teoria che non pochi americani avrebbero incondizionatamente sottoscritto anche molti decenni dopo la Guerra Civile: tale atteggiamento certamente non contribuì a facilitare né la vita degli africano-americani, né il loro inserimento nella società americana. La realtà però non era più modificabile: la guerra civile e la ricostruzione avevano trasformato gli africano-americani in cittadini in grado di muoversi liberamente nel paese. Pur se la maggior parte di essi era rimasta al sud, pur se molti continuavano a lavorare come mezzadri, non dipendevano più, da un punto di vista economico, direttamente dai bianchi. Negli anni seguenti al 1865 la rapida crescita dell’influenza della Chiesa anglicana e di quella protestante all’interno delle comunità africano-americane aveva contribuito ad espandere notevolmente le esperienze sociali e l’indipendenza di queste ultime. E perfino un sistema d’istruzione pubblica largamente deficitario aveva costituito per gli africano-americani un cambiamento rivoluzionario se confrontato con la sistematica privazione di qualsiasi forma di educazione durante la schiavitù. Inoltre, nel periodo seguente alla Guerra Civile, negli Stati del sud, -in cui viveva ancora la maggioranza della popolazione africano-americana- si era affermato un ristretto numero di uomini politici, commercianti, insegnanti, avvocati e medici africano-americani che avevano iniziato a mettere di fatto in discussione l’atteggiamento che, storicamente, i bianchi avevano adottato nei confronti della loro minoranza. Davanti a questo pericolo, Thomas E. Watson, leader populista bianco dello Stato della Georgia la cui astiosità era indirizzata anche verso ebrei e cattolici, aveva categoricamente affermato: The towns are infested with young negro men who will not work at any price. They live on the negro women,—stealing what they can from the whites. Comparatively few of these men are free from loathsome maladies. Practically none of the girls and women are chaste. The South has squandered more than $100,000,000 since the Civil War educating the blacks, but in most instances the schooling does the children no good. The average negro has no true conception of religion, of civic responsibility, of loyalty to the marriage vow, of principle of any kind. Poor child of impulse! Anybody can lead him anywhere by playing upon his credulity, his ignorance, his superstition, his sensual appetites. The mass of the race are in a lower condition to’day—in health, in morals, in physical well-being, in racial purity and strength—than they were in the days of slavery. (…) We Southern whites are the best friends the negro has got,but we know what he really is. We know where he would go to, if our sustaining hand, our compelling influence, our constant pattern and example, were not ever present, coercing him our way. Yes, sir! We know Sambo, and we like him first rate, in his place (Thomas E. Watson,Socialists and Socialism”, Press of the Jeffersonians, Thomson, Georgia 1910).

Colored_School,_by_J._A._PalmerNonostante questo atteggiamento, tuttavia era ormai impossibile tornare a imporre agli africano-americani il livello di dipendenza in cui essi erano stati costretti a vivere prima della Guerra Civile. Certe idee erano però sopravvissute, quelle stesse che nel 1826 avevano animato il pensiero di Thomas Cooper, presidente del South Carolina College (poi University of South Carolina): I do not say the blacks are a distinct race: but I have not the slightest doubt of their being an inferior variety of the human species and not capable of the same improvement as the whites. (…) the inferiority of natural intellect among the blacks cannot be denied (…) They are not capable of much mental improvement, or of literary or scientific acquirement (“Letters of Dr. Thomas Cooper, 1825-1832”, in The American Historical Review, Vol. 6, No. 4, Jul., 1901, pagg. 725-736). Peraltro, già nel 1831 e 1832 il pensiero che lo stato della Virginia potesse concedere l’emancipazione ai propri schiavi aveva suscitato aspre reazioni; un politico locale, William H. Roane, nella foga di difendere la schiavitù, si era lasciato andare (in un intervento pubblico riportato dal Richmond Enquirer il 4 febbraio 1832, cit. in Carl N. Degler, “The Other South”, Harper & Row, London 1974, p. 25) ad un parallelo allora piuttosto diffuso, quello fra africano-americani e animali: “I am not one of those who have ever revolted at the idea or practice of slavery, as many do. (…) the torch of liberty has ever burnt brightest when surrounded by the dark and filthy, yet nutritious atmosphere of slavery (…). I think slavery as much a correlative of liberty as cold is of heat (…). Nor do I believe in that Fan-faronade about the natural equality of man. I do not believe that all men are by nature equal, or that it was in the power of human art to make them so. I no more believe that the flat-nosed, wooly-headed black native of the deserts of Africa, is equal to the straight-haired white man of Europe, than I believe the stupid, scentless greyhound is equal to the noble generous dog of Newfoundland.” Un parallelo non troppo dissimile era presente anche in un pamphlet di Thomas R. Dew, Review of the Debate in the Virginia Legislature of 1831 and 1832 (Richmond, 1832), laddove si affermava che the Ethiopian cannot change his skin, nor the leopard his spots. Tali asserzioni, sull’onda di un dibattito che già da tempo infuriava in Europa (dove le idee circolanti, va detto, non erano certamente dissimili da quelle diffuse negli Stati Uniti anzi, in questi ultimi si tendeva a riportare soprattutto il parere di eminenti scienziati o letterati del Vecchio Continente), vantavano, in genere, la pretesa di una sicura scientificità. Richard H. Colfax (in “Evidence Against the View of the Abolitionists: Consisting of Physical and Moral Proofs of the Natural Inferiority of the Negroes”, James T. M. Bleakley, Publisher, 240 Hudson Street, New York 1833), per affermare che There never existed a tribe of whites who were characterized by as much grossness of intellect, listless apathy, sluggishness, and want of national and personal pride, as even the most refined Africans, citava Voltaire, Henry Home Kames, William Lawrence, mentre John Jacobus Flournoy, nel 1835, pur accettando che gli uomini di colore potessero discendere da Adamo ed Eva (era problematico discutere l’attendibilità del Genesi), sosteneva che la loro manifesta inferiorità era la logica conseguenza del peccato di Caino, riversatosi sui discendenti di Cam. Una ragione di più per allontanare gli africano-americani dal suolo patrio, trattandosi oltretutto di un gruppo etnico notoriamente dedito solo a violence and carnage (An essay on the origin, habits, &c. of the African race : incidental to the propriety of having nothing to do with Negroes : addressed to the good people of the United States).

310px-Races_and_skullsChe i neri potessero essere per natura inferiori ai bianchi era una teoria estremamente comoda per molti americani, che dello sfruttamento degli africano-americani avevano fatto un pilastro economico: per gran parte del secolo scorso ci si appellò così alla scientificità più o meno pretesa di un paleontologo come Samuel George Morton che, in Crania Americana Or, A Comparative View of the Skulls of Various Aboriginal Nations of North and South America (James Madden & Co., Leadenhall Street, London 1839), sosteneva l’ineguaglianza fra le razze, basandosi sulle diverse forme e dimensioni dei crani. Allo stesso modo, secondo una formula che doveva riscuotere particolare successo in un’America tendenzialmente portata verso un espansionismo territoriale e politico, sosteneva la superiorità assoluta del ceppo anglosassone che, inferior to no one of the Caucasian families in intellectual endowments, and possessed of indomitable courage and unbounded enterprise, it has spread its colonies widely over Asia, Africa and America; and, the mother of the Anglo-American family, it has already peopled the world with a race in no respect inferior to the parent stock. Un frenologo come Charles Caldwell (“Thoughts on the Original Unity of Mankind”, E. Bliss, New York 1830), andò persino oltre, stabilendo, sic et simpliciter, che gli anglosassoni erano the most endowed variety of the Caucasian race. Their brains are superior in size, and more perfect in figure, then the brains of any other variety. (…) hence the surpassing strength and grandeur at home, and the influence and sway over the other nations of the earth, of those who possess them. The vast and astonishing productions of art in Great Britain, her boundless resources of comfort and enjoyment in peace, and her unequalled means of defence and annoyance in war, are as literally the growth of the brains of her inhabitants, as her oaks, and elms, and ash trees are of her soil. We shall only add, that the inhabitants of the United States, being also of the best Caucasian stock (…) promise to be even more than the Britons of future ages. Da tali teorie non poteva non discendere il più fermo rifiuto dei rapporti interetnici. Come affermava un noto chirurgo del sud, Josiah C. Nott, “Naturalists have strangely overlooked the effects of mixing races, when the illustrations drawn from the crossing of animals speak so plainly — man physically is, but an animal at last, with the same physiological laws which govern others. This adulteration of blood is the reason why Egypt and the Barbary States never can again rise, until the present races are exterminated, and the Caucasian substituted. Wherever in the history of the world the inferior races have conquered and mixed in with the Caucasian, the latter have sunk into barbarism” (Two Lectures, On The Natural History Of The Caucasian And Negro Races”, Mobile, Printed by Dade and Thompson, 1844)D’altronde, intorno alla metà dell’Ottocento, l’ipotesi dell’ineguaglianze fra etnìe era, in America, un dato considerato scientificamente provato per la maggior parte della popolazione e dell’intellighentsia, così come era da considerarsi assodata l’inequivocabile superiorità del gruppo caucasico, a tal punto che vi fu chi, come John H. Evrie, un medico di New York, che, per giustificare la presenza di intellettuali ed artisti anche in altri gruppi etnici, arrivò a sostenere che, con tutta probabilità, persino Confucio era un bianco. Tali teorie, come fa notare Reginald Hornsman in “Race and Destiny: The Origins of American Racial Anglo-Saxonism” (Harvard University Press, 1981), risultavano empiricamente utili per una nazione che si apprestava non solo a strappare altri territori agli indiani pellerossa, ma ad estendere i propri confini nei riguardi di altri stati, come il Messico: la predestinazione dei bianchi al dominio (come affermava ancora Josiah C. Nott: History, tradition, monuments, osteological remains, every literary record and scientific induction, all show that races have occupied substantially the same zones or provinces from time immemorial. Since the discovery of the mariner’s compass, mankind have been more distributed in their primitive seats ; and, with the increasing facilities of communication by land and sea, it is impossible to predict what changes coming ages may bring forth. The Caucasian races, which have always been the representatives of civilization, are those alone that have extended over and colonized all parts of the globe; and much of this is the work of the last three hundred years. The Creator has implanted in this group of races an instinct that, in spite of themselves, drives them through all difficulties to carry out their great mission of civilizing the earth. It is not reason or philanthropy which urges them on, but it is destiny. When we see great divisions of the human family increasing in numbers, spreading in all directions, encroaching by degrees upon all other races wherever they can live and prosper, and gradually supplanting inferior types, is it not reasonable to conclude that they are fulfilling a law of nature.”, da “The negroes in negroland; the negroes in America; and negroes generally. Also, the several races of white men, considered as the involuntary and predestined supplanters of the black races. A compilation by Hinton Rowan Helper, A Rational Republican”, S. Low, Son, & C., 1867) portava inevitabilmente alla giustificazione non solo della schiavitù o della segregazione, ma persino del genocidio. Né, d’altronde, come abbiamo già visto, gli abolizionisti di prima della Guerra Civile o i sostenitori della causa indiana erano meno convinti della esistenza di fondamentali ineguaglianze tra etnìe: più semplicemente, più pacificamente ma non meno sprezzantemente l’istruzione ed il graduale e prudente processo di assimilazione erano i loro sostituti dello sterminio fisico. Un periodico come la “DeBow’s Review” di New Orleans poteva dichiarare nel febbraio del 1854, in un articolo attribuito a Louisa Susannah Cheves McCord: The antagonism of races is working itself out in every instance where two races are put in collision by the quicker or slower extinction of the inferior and feebler race. (…) The negro till the end of time will still be a negro, and the Indian still an Indian. Cultivation and association with the superior race produce only injury to the inferior one. Their part in this mysterious world-drama has been played, and, like the Individual, the race must cease to exist.

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Walter Scott

La cultura americana dell’Ottocento aveva subito in parte il fascino di certe teorie del Romanticismo europeo: autori come Walter Scott e Thomas Carlyle, specie negli Stati del sud, beneficiarono di un successo che lasciò delle tracce non solamente letterarie. L’esaltazione del passato storico inglese da parte di Scott in romanzi come Ivanhoe rafforzò in molti cittadini del sud ancora legati alla passiva imitazione dei modelli europei la convinzione di discendere da un ceppo etnico, quello anglosassone, certamente superiore. Carlyle provocò un effetto analogo, così come non va sottovalutata l’influenza di quegli americani che -come Bancroft, Longfellow, Parker, Reynolds e Calvert– dai loro studi in Germania portarono con sé il culto nazionalistico del Volk, la riscoperta delle saghe popolari, l’esaltazione della cupa ma possente mitologia nordica, il senso di supremazia del lignaggio celta-anglo-sassone. Un autore già citato come William Gilmore Simms, attento lettore di Scott e fautore del primato dei bianchi sulle altre etnìe, nel 1849 sosteneva che dalla aristocrazia britannica era nata “the most splendid race of men in the world”. Sull’ondata emotiva suscitata dall’epica romantica e nazionalista europea, affermava che War is the greatest element of modern civilization, and our destiny is conquest (Simms to Hammond, June 4, 1847, in Oliphant, ed., Letters of Simms, II, 322); non stupisce, perciò, che in una lettera del 5 aprile 1853 indirizzata al ministro della Marina John P. Kennedy sostenesse che “Negro Slavery is one of the greatest of moral goods & blessings, and that slavery in all ages had been found the greatest and most admirable agent of Civilization” (Simms to John P. Kennedy, April 5, 1852, in ibid., III, 174). L’esaltazione violenta della “missione divina” di cui era incaricato il ceppo etnico anglosassone si sovrappone facilmente alla “missione” di cui, in quel momento storico, si sentiva investita l’America, nazione giovane, violenta e desiderosa di espandersi nonché di trovare giustificazioni etiche al proprio espansionismo. Giustificazioni etiche riscontrabili nel lavoro di uno scrittore del sud come William Alexander Caruthers: sebbene fondamentalmente un non-violento e fautore persino dell’abolizione della schiavitù, questi -influenzato anch’egli dalle opere di Walter Scott- in Knights of the Horse-Shoe esalta that Anglo-Saxon race which was and is destined to appropriate such a large portion of the Globe to themselves, and to disseminate their laws, their language, and their religion, over such countless millions (cit. in R. Horsrman, ibid. pag. 168).

Ancora anni dopo la Guerra Civile, secondo le convenzioni culturali vigenti all’interno della società bianca, si pensava che dietro ogni uomo di colore indipendente si nascondesse un potenziale stupratore. Il leader politico e governatore del Mississipi, il Democratico James Kimble Vardaman (che durante la campagna elettorale aveva dichiarato: “If it is necessary every Negro in the state will be lynched; it will be done to maintain white supremacy”), il 4 febbraio 1904, opponendosi alla pubblica istruzione per le minoranze africano-americane dichiarava: “The race question is one of the most serious problems which confront the civilization of the present century. (…) In the solution of this problem we must recognize in the very outset what Thomas Jefferson recognized a hundred years ago and what Abraham Lincoln indorsed fifty years later, that the nigger cannot live in the same country with the white man on terms of social or political equality. It is one of the impossible things. One of the other of the races will rule. They will not mix. Another thing must be done—the truth must be told about these matters and the nigger given to understand just what is expected of him and what will be done for him. I am very much in favor of protecting the nigger in the pursuit of happiness and the full enjoyment of the products of his labor. I believe in being honest in all business dealing with him as I believe in being candid in the discussion of his political and civil rights.

I am opposed to the nigger’s voting, it matters not what his advertised moral and mental qualifications may be. I am just as much opposed to Booker Washington as I am to voting by the cocoanut-headed, chocolate colored typical little coon, Andy Dotson, who blacks my shoes every morning. Neither one is fit to perform the supreme functions of citizenship. (…) It is to this prejudice we are indebted for the purity of the Anglo-Saxon race—the master race of the world. We are indebted to it for the literature of the English-speaking people, for all the great discoveries in science, for the incomparable original plan of the government under which we live—in a word, all the glories which crown and glorify the civilization of the twentieth century. But it matters little what I may think or others may say, that prejudice will live as long as the Anglo-Saxon race retains its virility, its genius for government, and its unconquerable will to rule. When it shall cease to exist, then, indeed, will the scepter of world-rulership pass to other hands, and the glorious achievements of the “heir of all the ages” shall crumble and fall, and over it all will drift the Sahara sands of oblivion. The absolute domination by the white race means race purity. It means order, good government, progress, and general prosperity both for the nigger and white man. But when the nigger is taken into partnership in the government of the country, demoralization, retrogression, and decay ensue—just as surely as the night follows the day. (…) I want to do what is best for both races. I am the nigger’s best friend. But I am friendly to him as a nigger whom I expect to live, act, and die as a nigger”. Concetti non diversi venivano comunque espressi da molti politici del sud nei confronti degli ebrei, cui venivano rimproverati rapporti non conflittuali con gli africano-americani perché simili fra di loro, spinti dall’incontenibile erotismo provocato in loro dalle donne bianche.

Jim-Crow-okIn tale clima, destinato peraltro a peggiorare drammaticamente con l’avvento della segregazione e delle leggi Jim Crow, la fine della Guerra Civile permise la progressiva diffusione di quella tradizione africano-americana che, unica, sembrava interessare e appassionare i bianchi e che, soprattutto, permetteva agli africano-americani di identificarsi e caratterizzarsi senza apparentemente subire forme di repressione. Gli africano-americani poterono per la prima volta e seppur limitatamente riappropriarsi di quei modelli culturali che erano stati distorti e persino sviliti dal minstrelsy bianco. La radicalizzazione del confronto fra bianchi e africano-americani non permetteva più l’intervento di “intermediari” che varcavano in più direzioni il confine fra i gruppi etnici: le due comunità si riappropriavano della loro identità e si confrontavano senza più finzione: non vi era più possibilità, dunque, per ambigui bianchi travestiti da africano-americani (“The newly derived modernism promoted the idea of ‘authentic’ African Americans on stage as opposed to white. . minstrel imitations in black face”, da David Krasner, “ ‘The Mirror Up to Nature’: Modernist Aesthetics and RacialAuthenticity in African American Theatre, 1895-1900.Resistance, Parody, and Double Consciousness in African American Theatre, 1895-1910. St. Martin’s Press, New York 1997, pag. 120). I discendenti degli schiavi africani non erano più bonarie caricature lontane in un limbo fra realtà e illusione: essi esistevano, in carne ed ossa, erano vicini, erano riconoscibili senza bisogno di qualcuno che li “recitasse”. Anzi, questa volta toccava a loro fare la caricatura di altri (della dura pronuncia yiddish degli ebrei mitteleuropei, dell’ubriachezza degli irlandesi), non solo il gioco perverso della caricatura di sé stessi, in cui all’attore e al musicista africano-americano si chiedeva di estremizzare, di essere ancora più manifestamente africano-americano, di essere iper-africano-americano, di essere un africano-americano al quadrato. Anche un organizzatore bianco come Haverly riconosceva: A Negro can play Negro peculiarities much more satisfactorily than the white “artist”, who with burnt cork is at best a base imitator (cit. in Shelly Eversley, “The Real Negro: The Question of Authenticity in Twentieth-Century African American Literature”, Routledge 2004, pag. 10). E gli africano-americani non mancavano di sottolineare la loro “autenticità”, pubblicizzandola ed enfatizzandola; Lew Johnson, un impresario africano-americano che gestì una propria compagnia di minstrel per oltre venticinque anni, cambiò più volte il nome della “troupe” per, di volta in volta, esaltarne le origini dalle piantagioni e la “negritudine” e adeguarsi ai tempi: nel 1871 era “Lew Johnson’s Plantation Minstrels”, nel 1875 era diventato “Plantation Minstrel Slave Troupe”, nel 1877 “Lew Johnson’s Original Tennessee Jubilee Singers”, nel 1881 “Lew Johnson’s Combination”, nel 1886 “The Black Baby Boy Minstrels”, finalmente nel 1890 “Refined Colored Minstrels and Electric Brass Band” (da Robert C. Toll, “Blacking Up: The Minstrel Show in Nineteenth-Century America. Oxford University Press, New York 1974, pag. 220). Come ebbe a scrivere il periodico di New York, “Clipper” (Clipper, 24 luglio 1880): Negroes depicted plantation life with greater fidelity than any “poor white trash” with corked faces can do. Ma di cosa si trattasse tale “greater fidelity” è difficile dire, poiché il pubblico bianco non aveva alcuna reale cognizione dell’autentica vita degli africano-americani nelle piantagioni o nei primi ghetti urbani che iniziavano a delinearsi, la “fedeltà” che veniva lodata era, dunque, in rapporto a ciò che i bianchi reputavano fosse reale nella vita degli africano-americani così come la immaginavano loro.

Minstrel Show Song BookC’è da chiedersi, perciò, in cosa consistesse l’”autenticità” del minstrelsy africano-americano, a parte il fatto che a essere in scena erano autentici africano-americani e non delle loro parodie, per quanto l’aggettivo “Ethiopian” che spesso connotava i loro spettacoli evocasse un esotismo oleografico e un’ignoranza manifesta a proposito della diversità fra le culture e tradizioni africane: l’immaginario collettivo bianco stava, d’altronde, subendo una trasformazione, con il trauma della Guerra Civile e il sovvertimento della vita nelle piantagioni degli Stati del sud; l’africano-americano-bambino, bonario, innocuo, di ottusa fanciullezza, felice di essere un oggetto nelle mani rassicuranti dei padroni bianchi stava per essere sostituito dall’africano-americano libero, senza controllo, infido, violento, libidinoso, infoiato e selvaggio. Dalle discrepanze fra vera e immaginaria “negritudine” emergono stereotipi, incomprensioni, abbagli, illusioni, pregiudizi e dicotomie ulteriori fra esperienze autentiche e esperienze illusorie della stessa “negritudine” (di volta in volta esaltata, denigrata, apprezzata, disprezzata: dalla negritudine degli schiavi alla “blackness” dei ‘gangsta’ rapper vi è un vallo popolato da contraddizioni e mutevoli definizioni e di alternanza di poteri contrattuali all’interno del sistema sociale) ma anche della “whiteness”, della ”bianchitudine”: la macroscopia parodistica della negritudine attuata dal minstrelsy bianco americano implica un’accentuazione e una iper-valutazione positiva non meno macroscopica della “bianchitudine” dell’interprete, che viene propositalmente accentuata dall’eccessiva e grottesca sottolineatura dei tratti intesi come caratteristici di un’alterità. Il risultato finale dello spettacolo a sfondo razziale come il minstrelsy è la decostruzione del valore di “etnia” come tratto identitario, che si tratti di bianchi o di africano-americani: l’alterità viene così a essere misurata attraverso il delinearsi di gerarchie artificiose che soprattutto delimitano in modo repressivo lo spazio concesso a minoranze identificate come “inferiori”. Annota J. Martin Favor: “Performed authenticity carries its own destruction in its very makeup. Although center and margin may sanction specific discourses as authentic, the drive toward the depiction of racial difference actually, through its status as repetitious, discursive act, demonstrates the constructed nature of racial difference, thereby calling into question (…) notions of authenticity” (J. Martin Favor, “Authentic Blackness: The Folk in the New Negro Movement”, Duke University Press, Durham 1999, pag. 142).

Negli Stati Uniti emersi dalla Guerra Civile si apprestava perciò ad andare in scena l’”autenticità razziale”, con tutto il suo carico di conflitti e di ambiguità: una cultura -quella bianca- che si reputava dominante, si separava drasticamente da quella che reputava inferiore, ma al contempo proprio su di essa costruiva le fondamenta della propria modernità e del proprio futuro. Come scrive Kimberly Benston: “Blackness, in fact, emerges (…) as a term of multiple, often conflicting, implications which, taken together, signal black America’s effort to articulate its own conditions of possibility. At one moment, blackness may signify a reified essence posited as the end of a revolutionary ‘metalanguage’ projecting the community toward ‘something not included here’; at another moment, blackness may indicate a self-interpreting process which simultaneously ‘makes and unmakes’ black identity in the ceaseless flux of historical change” (Kimberly Benston, “Performing Blackness: Enactments of African-American Modernism”, Routledge, New York 2000, pagg. 3-4).

Così come di compagnie teatrali africano-americane si ha notizia sin dal 1821, quando William Brown crea a New York la African Company, di compagnie di minstrel africane-americane si conosce l’esistenza sin dal 1855, ma bisogna aspettare il 1865, con i Georgia Minstrels lanciati dall’agenzia di spettacoli Brooker & Clayton, perché il fenomeno si inserisca definitivamente nel già attivissimo e ben organizzato show-business americano.

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Charles Hicks

Visto il successo ottenuto dai Georgia Minstrels (i giornali elogiavano entusiasticamente the genuine plantation darkies, descritti come great delineators of genuine darky life in the South), Charles Hicks, impresario di colore appartenente alla Brooker & Clayton, fonda i Georgia Slave Troupe Minstrels (un loro successo fu la filastrocca “Why does a chicken cross a road?) e i Georgia Slave Brothers. La carriera di Hicks è esplicativa di come fosse ben difficile, per un africano-americano, organizzare o gestire una propria compagnia. Come fa notare Arnold Shaw, by the early 1870s, whites owned the most successful black minstrel companies (Arnold Shaw, “Black Popular Music in America: From the Spirituals, Minstrels, and Ragtime to Soul, Disco, and Hip-Hop”, Schirmer Reference, New York 1986, pag. 97) e, nonostante le attrazioni di tali spettacoli dipendessero pressoché esclusivamente dalla presenza degli interpreti africano-americani, Negroes had to struggle to retain ownership of any companies at all. Hicks, nel 1870, dopo avere gestito diverse compagnie, tutte di breve quanto effimera esistenza, riuscì con il suo socio Bob Height ad organizzare per uno dei suoi gruppi, gli “Hicks and Height’s Georgia Minstrels, una tournée in Inghilterra e in Germania. Al suo ritorno negli Stati Uniti, lavorò per i “Slave Troupe of Georgia Minstrels” di Charles Callender e per i “Georgia Minstrels” di Sprague & Blodgette. Nel 1877 riuscì a strappare una compagnia africano-americana dalle mani degli impresari bianchi Jack H. Haverly e Tom Maguire, e con essa, ribattezzata “Hick’s Georgia Minstrels” si imbarcò per una tournée di tre anni in Australia. Nel 1881, di nuovo negli Stati Uniti, cercò ancora una volta di conquistare delle compagnie africano-americane dalle mani di organizzatori bianchi come Charles Callender e Gustave e Charles Frohman, ma senza risultato. Nel 1885 gestì una compagnia per conto di Billy Kersands, il più apprezzato minstrel comico africano-americano. Ancora una volta cercò di organizzare un proprio circuito, in società con un altro attivo imprenditore teatrale di colore, A. D. Sawyer, ma senza risultato. Si imbarcò perciò con un’altra compagnia per una nuova e prolungata tournée in Australia e Nuova Zelanda. Eccellente attore, nonché brillante ma sfortunato organizzatore, Hicks morì nel 1902 a Surabaya, dove era in un’altra tournée con ancora una compagnia minstrel.

Il manageriato bianco sfruttò intensivamente il minstrelsy africano-americano che, rispetto a quello bianco, si presentava con presunti crismi di originalità e attraeva il pubblico più vasto, sia quello africano-americano (in genere appartenente ai ceti meno abbienti, in quanto l’emergente borghesia africano-americana, da poco faticosamente formatasi, disdegnava un tipo di spettacoli che reputava degradante), sia quello bianco. Il già citato Charles Callender, proprietario di una taverna, nel 1872 avviò tale nuova attività impresariale, acquistando i diritti di una compagnia integrata (cioè, composta di interpreti sia bianchi che africano-americani), la “Slave Troupe of Georgia Minstrels” guidata da Sam Hague e da poco tornata da una tournée in Inghilterra. Charles Hicks venne ingaggiato come organizzatore, mentre tra gli interpreti del gruppo, ribattezzato “Callender’s Original Georgia Minstrels”, si contavano attori comici come Billy Kersands, Sam Lucas, Pete Devonear e Bob Height (spesso paragonato a un attore del calibro di Bert Williams). Il successo giunse immediato e Callender si trovò ad essere considerato fra i più importanti impresari teatrali in America, nonostante la concorrenza di almeno altre 27 compagnie minstrel di colore; ciononostante, nel 1878 egli vendette i suoi Georgia Minstrels a J. H. Haverly: gli spettacoli dei suoi Haverly’s Colored Minstrels portarono in scena (più che altro) immaginarie scene della vita nelle piantagioni (i cosiddetti portrayals of plantation life), utilizzando oltre 100 fra interpreti ed esecutori (venivano infatti chiamati anche Black 100 o Black One Hundred) ed ottenendo un cospicuo successo sia negli Stati Uniti che in Inghilterra, dove si esibirono nel 1881, subito dopo una non meno apprezzata tournée di un gruppo minstrel bianco, i Mastodons, anch’essi appartenenti alla scuderia di Haverly. Quest’ultimo, non essendo un altrettanto abile amministratore, fu costretto a cedere la propria attività a due tycoon del mondo dello spettacolo, i fratelli Gustave e Charles Frohman (passati alla storia anche come apprezzati produttori di spettacoli a Broadway) che, nel frattempo, avevano acquistato anche una nuova compagnia organizzata da Charles Callender: i gruppi di quest’ultimo e di Haverly vennero perciò fusi in un’unica troupe, i Callender’s Consolidated Colored Minstrels, definiti, nei manifesti pubblicitari, The Pick of the Earth’s Colored Talent. I loro spettacoli, sontuosi e movimentati, veri e propri predecessori dei non meno celebri floor-show di locali come il futuro Cotton Club, erano talmente richiesti e apprezzati da costringere gli organizzatori a formare, nel 1882, ben tre compagnie itineranti con lo stesso nome.

77_300x300_Front_Color-NAA causa di una struttura organizzativa interamente in mano a bianchi, anche il minstrelsy africano-americano fu costretto a focalizzare i propri spettacoli entro un’ottica fatta di banali stereotipi. Il loro successo, oltre a far circolare velocemente ed intensamente determinati modelli spettacolari e culturali africano-americani ben più di quanto potesse fare il minstrelsy bianco, dimostrò, pur fra molteplici ambiguità e contraddizioni, quanto gli entertainer di colore potessero venire apprezzati, stimolando nel mercato dello show-business una domanda crescente i cui profitti, però, venivano interamente assorbiti dal manageriato bianco. Come ebbe a scrivere W. C. Handy (in “Father of the Blues”, 1941), il celebre compositore africano-americano, per oltre un decennio direttore e cornetta solista dei Mahara’s Minstrels: It goes without saying that minstrels were a disreputable lot in the eyes of uppercrust Negroes, but it was also true that all the best black talent -the composers, the singers, the musicians, the speakers, the stage performers- the Minstrel Shows got them all. Dal minstrelsy africano-americano, l’unica forma di spettacolo cui gli africano-americani poterono accedere per quasi cinque decadi, dovevano emergere -attraverso le ramificazioni del vaudeville, dei medicine show e dei tent-show- alcuni fra i più significativi talenti della tradizione culturale africano-americana oltre allo stesso Handy: Bessie Smith e Ma Raney, Jelly Roll Morton e Eubie Blake, Bert Williams, Moms Mabley, Pigmeat Markham, Bill “Bojangles” Robinson, Josephine Baker, Stepin Fetchit.

Il più apprezzato (e più pagato, per quanto percepisse poco meno di un decimo rispetto alle paghe degli attori e musicisti bianchi) minstrel africano-americano era Billy Kersands, che suscitava entusiasmo ballando e, al contempo, tenendo ferma nella bocca (di dimensioni, pare, fuori del comune) una tazza con relativo piattino (un “numero” che riscosse particolare successo anche nella tournée inglese dell’Haverly’s Carnival of Genuine Colored Minstrels). Un altro “successo” di Kersands consisteva nel tenere due palle da biliardo in bocca, riuscendo a cantare. Non meno applaudita era una sua interpretazione di “Old Folks at Home” eseguita in 6/8, nonché la tipica “Essence of Old Virginny” di Bryant ballata senza muovere i piedi: a tal proposito, aldilà di certa mortificante clownerie che oggi sarebbe inaccettabile, di Kersands bisogna ricordare soprattutto il contributo dato allo sviluppo della danza americana grazie alle sue coreografie non solo per la Essence of Old Virginny (un’anticipazione del cosiddetto “soft-shoe”) ma anche per una danza come il “buck-and-wing”.

Altrettanto corteggiati erano Wallace King, conosciuto come il “Sweet Singing Tenor” della troupe di Callender del 1882 e virtuosi del banjo come i canadesi di origine caraibica James e George Bohee (ambedue estremamente apprezzati e popolari in Inghilterra, dove si trasferirono gestendo il Gardenia Club e rendendo popolari molte fra le loro composizioni: The Darkey’s Wedding, The Darkey’s Patrol, The Yellow Kid’s Patrol, Bohemian Gallop, The Darkey’s Dream, The Darkey’s Awakening, Medley of Airs, Restless March, March in C, Hunter’s March, Niagara March), il già citato Horace Weston o “Good Old” Sam Devere (di cui la stampa affermava che riuscisse a produrre, con il suo strumento, a veritable Niagara of titillating music, cit. in Russell Sanjek, “American Popular Music and Its Business: The First Four Hundred Years”, Oxford University Press, 1988, pag. 277), autore di pagine quali Butterfly Dude, Annie Who Plays the Banjo, That Sweet Scented Handsome Young Man, Riding on the Elevated Railroad, When I Had But Fifty Cents, Our Hired Girl, Dar’s a Lock on de Chicken Coop Door.

lucas_samUn altro entertainer particolarmente applaudito era Sam Lucas, che James Weldon Johnson, in “Black Manhattan” (1930), ricordò come The Grand Old Man of the Negro Stage. Di professione barbiere, Lucas svelò i suoi vasti talenti sui palcoscenici minstrel (fece parte dei Callender’s Jubilee Minstrels e degli Haverly’s European Minstrels), dimostrando ben presto di possedere anche le doti di attore drammatico, il che gli permise di lavorare con successo, assieme alle ben note Hyers Sisters (Anna Madah e Emma Louise, fra le prime grandi interpreti del teatro musicale africano-americano, assieme a Pauline Elizabeth Hopkins e Joseph Bradford, affrontarono in molti lavori le problematiche razziali e il peso della schiavitù senza più vincolarsi ai modelli del minstrelsy, esponendo una narrativa della vita e delle condizioni delle minoranze africano-americane affatto diversa da quella allora corrente), anche in drammi musicali come Out of Bondage (1875) e The Underground Railroad (o Peculiar Sam, 1879), opere in cui le iperboli ridicole del minstrelsy crollavano per mettere a nudo umane vicende di indicibile, repressa amarezza. Autore anche di song di successo (tra gli altri, De Day I was Sot Free, Shivering and Shaking Out in the Cold, gli spiritual I’se Gwine in de Valley  e Put on My Long White Robe, nonché il popolarissimo Carve Dat Possum), fu scelto per interpretare il ruolo principale, quello di Tom ovviamente, nella riduzione teatrale, a cura di Pauline Elizabeth Hopkins, di Uncle Tom’s Cabin, andata in scena nel 1878. Tra il 1890 ed il 1891 fu tra gli interpreti di Creole Show, una pièce comica scritta dall’impresario bianco Sam T. Jack e che in qualche modo prelude alla futura commedia musicale africano-americana. Pochi anni dopo partecipò a A Trip to Coontown (1898, musiche, testi e versi di Bob Cole e Billy Johnson), primo esempio di commedia musicale africano-americana a distaccarsi interamente dai moduli del minstrelsy. Lucas fu anche fra gli interpreti principali della versione cinematografica del 1914, per la regia di William Robert Daly, di Uncle Tom’s Cabin, primo africano-americano ad avere un ruolo cinematografico da protagonista (nella pellicola, con Marie Eline, Irving Cummings, Theresa Michelena, Roy Applegate, Paul Scardon, Boots Wall, Fern Andra, i ruoli di Topsy e di Eliza erano, infatti, recitati da attori bianchi travestiti da africano-americani).

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Gertrude “Ma” Raney

Il minstrelsy africano-americano, sebbene dovesse soggiacere alla richiesta di quegli stereotipi con cui il pubblico bianco identificava la popolazione africano-americana, si dimostrò una notevolissima fucina di talenti anche nel caso di artisti poi sfociati in altri ambiti: si pensi alla già citata Gertrude “Ma” Raney, organizzatrice di proprie troupe nonché cantante dei Rabbit Foot Minstrels, gruppo con cui si esibiva agli esordi Bessie Smith. Si trattò certamente, rispetto al minstrelsy bianco, di un fenomeno di minor durata (data anche l’ovvia ostilità della emergente classe intellettuale nera e ad una sempre maggiore coscienza civile degli africano-americani): intorno al 1870 erano in attività poco più di cinquanta compagnie minstrel africane-americane. Dieci anni dopo se ne contavano poco più di trenta. Nel 1895 erano rimaste solo tre troupe di rilievo (peraltro gestite interamente da bianchi): i McCabe, Young & Gray’s Pavilion Minstrels, i Richard & Pringle’s Georgia Minstrels e gli Hicks & Sawyer Consolidated Minstrels.

E’ dal minstrelsy africano-americano, dalla possibilità di esperienze professionali che esso seppe in qualche modo offrire, che emersero i primi, notevoli song-writer nero-americani. Molti fra i lavori di questi ultimi beneficiarono della pubblicazione da parte di case editrici gestite da bianchi, a conferma che -tramite il cosiddetto entertainment l’influenza culturale africano-americana era un dato di fatto, sebbene certamente non riconosciuto in forma ufficiale né esposto in modo necessariamente postivo. La sua influenza iniziava comunque ad espandersi sempre di più, ponendo a continuo confronto il pubblico bianco con i frutti della cultura e dell’ingegno nero-americani.

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James A. Bland

Un buon esempio di tale nuovo sviluppo ci è dato dall’opera di James A. Bland, un autore che in vita fu paragonato, non a sproposito, a Stephen Foster e John Philip Sousa. Figlio di un avvocato di Washington appartenente alla buona borghesia nera, Bland studiò alla Howard University, che lasciò presto -dopo avere assistito a degli spettacoli di George Primrose per lavorare con alcune compagnie minstrel minori, prima di approdare alla Callender’s Original Georgia Troupe. Acquisita una buona esperienza, si trasferì a Boston nel 1875, lavorando sia come interprete che impresario di spettacoli minstrel ma, soprattutto, componendo lavori che vennero immediatamente acquistati e pubblicati da John F. Perry, un editore già affermato (era stato socio della White, Smith & Perry) che da poco si era messo in proprio. E’ del 1876 uno dei migliori lavori di Bland, quel Carry Me Back to Old Virginny che, spesso erroneamente attribuito a Stephen Foster, era stato scritto perché venisse eseguito da una troupe come gli Original Black Diamonds. Negli anni a seguire Bland (anche per compagnie come i Bohee Brothers Minstrels o gli Sprague’s Georgia Minstrels) scrisse più di 700 lavori, la maggior parte dei quali pubblicati da alcune fra le più importanti case editrici bianche del settore: non si trattava solo di song adatti al repertorio minstrel, ma anche di eleganti ballad in cui ben di rado era riscontrabile il processo di africanizzazione dell’inglese tipico del minstrelsy. Tra il 1879 ed il 1880 vennero pubblicati: Oh! Dem Golden Slippers, In the Morning by the Bright Light, In the Evening by the Moonlight (un successo degli Sprague’s Georgia Minstrels), De Golden Wedding, Close Dem Windows; dello spartito del primo, in poco meno di un anno ne vennero pubblicate 100.000 copie, rendendo Bland un beniamino non solo del pubblico americano (sia bianco che africano-americano), ma anche di quello inglese, presso il quale il compositore ed interprete si esibì nel 1882 assieme all’Haverly’s Carnival of Genuine Colored Minstrels. Tale il successo, che Bland decise di trasferirsi in Gran Bretagna, rimanendovi quasi vent’anni, acclamato come the Prince of Negro Songwriters, insignito della Command Performances dalla regina Vittoria, ed incassando una vera fortuna (circa $10.000 all’anno, escludendo le royalties della vendita di spartiti) ben presto sperperata, il che lo costrinse ad un ritorno negli Stati Uniti, dove ormai il minstrelsy africano-americano si stava lentamente estinguendo: nonostante ingaggi con il W. C. Cleveland Colored Minstrel Carnival e con i Black Patti’s Trobadours (gruppo impegnato soprattutto nel vaudeville), il successo di cui aveva goduto non si rinnovò, costringendolo a guadagnarsi da vivere come impiegato in un piccolo ufficio di Washington. Morì a Philadelphia il 5 maggio del 1911 nel più completo anonimato, sepolto in una non meno anonima tomba a Merion, sempre in Pennsylvania. Per uno dei tanti paradossi del destino, nel 1940 lo stato della Virginia, certamente non noto per la sua tolleranza razziale, decise di adottare Carry Me Back to Old Virginny (reintitolato Carry Me Back to Old Virginia, depurandolo perciò della sua eredità minstrel) come proprio inno (sostituito con Shenandoah nel 2006), forse ignorando che l’autore fosse un africano-americano o trascurando tutti i cliché nostalgici riferiti all’epoca di Jim Crow presenti nel testo:

Carry me back to old Virginny

There’s where the cotton and corn and taters grow

There’s where the birds warble sweet in the spring-time

There’s where this old darkey’s heart am long’d to go

There’s where I labored so hard for old Massa

Day after day in the field of yellow corn;

No place on earth do I love more sincerely

Than old Virginny, the state where I was born

Carry me back to old Virginny

There’s where the cotton and the corn and taters grow;

There’s where the birds warble sweet in the spring-time

There’s where this old darkey’s heart am long’d to go

Carry me back to old Virginny

There let me live till I wither and decay

Long by the old Dismal Swamp have I wandered

There’s where this old darkey’s life will pass away

Massa and Missis have long since gone before me

Soon we will meet on that bright and golden shore

There we’ll be happy and free from all sorrow

There’s where we’ll meet and we’ll never part no more

Carry me back to old Virginny

There’s where the cotton and the corn and taters grow;

There’s where the birds warble sweet in the spring-time

There’s where this old darkey’s heart am long’d to go

Con Bland assistiamo ad un’evoluzione peculiare della cultura popolare africano-americana: si tratta, in effetti, del primo song-writer nero professionale, con una produzione anche stilisticamente omogenea e particolarmente attenta al gusto dell’epoca, che egli incontra sacrificando, peraltro, parte della sua “négritude”, almeno a livello ideologico. Come ha scritto Robert C. Toll, his nostalgic old darkies expressed great love for their masters and mistresses, his plantation songs were free from antislavery protests and from praise of freedom; his religious songs contained many stereotyped images of flashy dressers and of overindulgent parties; and his Northern Negroes strutted, sang, danced, and had flapping ears, huge feet and gaping mouths (Robert C. Toll, “Blacking Up: The Minstrel Show in Nineteenth-Century America”, Oxford University Press, New York 1974).

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Stephen Foster

Il suo successo presso il pubblico bianco risiedeva probabilmente nella capacità di far proprie certe tematiche che sino allora erano state tipiche del minstrelsy bianco di qualità: il suo approccio, in effetti, non era dissimile da quello di Stephen Foster, cui Bland si avvicina per lirismo e grazia melodica, non possedendone però l’originalità d’ispirazione. Quest’ultima viene però compensata da una ben maggiore idiomaticità: il prodotto musicale che egli offriva alle platee bianche non soffriva di particolari mediazioni (salvo quelle che la prudenza poteva dettate di fronte all’odio razziale latente), veniva semplicemente adattato, non reperito, né estrapolato, da fonti esogene. Il materiale usato dal compositore non era alieno alla propria formazione culturale, il che non succedeva nel caso di Foster, che non di rado poneva il proprio innegabile talento al servizio di una cultura presa temporaneamente in prestito. Sebbene con tutte le cautele, i rimandi, i giochi a specchio, le storture, le ambiguità ed i mimetismi del caso Bland, così come buona parte del minstrelsy africano-americano, mostrava l’africano-americano per quello che in quel momento poteva dimostrare di essere, almeno culturalmente: il successo che egli ottenne è la dimostrazione più chiara di come, nonostante le barriere interposte da un razzismo duro e roccioso, la tradizione culturale africano-americana riuscisse a farsi strada attraverso strati sociali in genere inquinati da forti pregiudizi. L’irrompere sulla scena di autori come Bland dimostra come ormai gli africano-americani non avessero più bisogno di mediatori per diffondere i propri modelli: date certe condizioni storiche e sociali, uomini come Foster erano, in precedenza, indispensabili. Con Bland le platee bianche, seppure in modo ideologicamente inconscio, erano disposte ad assorbire non più modelli derivati, ma quelli che venivano reputati, più o meno realmente o adeguatamente, originali e originarî. Talmente disposte che, al ritorno dall’Inghilterra, Bland si trovò a vivere in un mondo che non era più il suo, che era mutato con grande velocità: l’Ethiopian business caro a Stephen Foster, le plantation song di Will Hays o Charles A. White, la darky music dei minstrel show erano scomparsi per lasciare il posto ai coon song, in cui la figura pre-bellica parodistica dell’africano-americano rurale era stata sostituita da quella, non meno derisoria, dell’africano-americano urbanizzato, che, infido, rancoroso e libidinoso, scimmiottava i modi della classe media bianca e non mancava di esibire tratti anche violenti, minacciosi e volgari (come annota Robert C. Toll: “Besides continuing minstrel stereotypes of blacks as watermelon- and chicken-eating mindless fools, these new ‘coon songs’ emphasized grotesque physical caricatures of big-lipped, pop-eyed black people and added the menacing image of razor-toting, violent black men. These lyrics almost made the romanticized plantation stereotypes seem good” , da Robert C. Toll, “On With the Show: The First Century of Show Business in America”, Oxford University Press, New York 1976, pag 118). Tale cambiamento coincideva, non casualmente, con l’evoluzione che la figura dell’africano-americano subiva agli occhi della società bianca: con la fine della Guerra Civile si esauriva la tipologia dello schiavo. Sebbene nella realtà ciò spesso non coincidesse, dal punto di vista legale perlomeno l’individuo africano-americano era un cittadino libero: questo nuovo ruolo non poteva non modificare certi assetti che, sebbene del tutto collaterali, rimanevano comunque il mezzo di penetrazione più efficace di cui disponevano gli africano-americani per diffondere e far accettare le proprie tradizioni culturali. Fino alle prime decadi del Novecento, i bianchi americani conobbero e appresero i valori culturali africano-americani pressoché esclusivamente tramite la musica e l’entertainment. Con la fine della schiavitù e, dunque, con la fine di un intrattenimento come quello minstrel, fondamentalmente basato proprio sulla schiavitù e i contesti che essa produceva, gli africano-americani iniziarono ad imporsi anche senza le mediazioni consolidatesi nel frattempo, pur dovendo ancora accettare molteplici compromessi: sui palcoscenici bianchi gli africano-americani erano costantemente oggetto di parodia, il loro ruolo era spesso non dissimile da quello dei giullari e, ovviamente, non vi era possibilità che essi venissero presentati in altro modo. Il successo degli intrattenitori africano-americani è stato e sta spesso nello svilimento della propria comunità, il che non si rivela, peraltro, un particolare handicap: sin dalla nascita la cultura africano-americana, al di là della capacità di (seppure frammentata) perpetuazione di determinati dati culturali derivanti dall’eredità africana, ha mostrato spiccatissima abilità nella trasformazione a propria immagine di dati fondamentalmente esogeni e, perciò, ha mostrato di sapersi adattare con straordinaria rapidità. Dal processo apparentemente autodistruttivo dello svilimento per scopi comici dei propri valori tradizionali gli interpreti africano-americani seppero ricavare un elemento che non mancò di favorire il loro successo, cioè uno spiccato e obliquo senso dell’umorismo (che molti, peraltro, avevano già riscontrato fra gli schiavi). Tale tratto, abbinato a quell’allusività linguistica che, sin dai tempi della schiavitù, aveva permesso agli africano-americani di dialogare fra di loro senza il rischio di venire compresi dai padroni, portò non poche platee bianche ad applaudire atteggiamenti, spettacoli, eloqui, testi ironicamente corrosivi nei loro confronti.

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Gussie Lord Davis

In tale realtà vi erano delle eccezioni, ed un song-writer fondamentalmente sentimentale come Gussie Lord Davis ne è la prova. E’ anche la conferma dell’accettazione, da parte del pubblico bianco, di altre forme espressive africano-americane e, soprattutto, dell’ingresso degli africano-americani anche in altri campi espressivi, come quello della parlor-music e dell’intrattenimento sociale, in genere strettamente riservati ai bianchi. Rispetto ad un autore come Bland, Davis portò ad estreme conseguenze l’abbandono dei modelli minstrel ed è forse questa la causa del suo grande successo all’epoca (venne definito dalla stampa the most popular author and composer the race has produced), così come del posteriore oblìo in cui precipitarono i suoi lavori, troppo legati agli schemi, definitivamente superati, della romanza da salotto. Nato (nel 1863) e cresciuto a Cincinnati, Davis pubblicò a proprie spese, nel 1881, il suo primo lavoro, “(We Sat Beneath the Maple on the Hill, scritto nel 1880. Non avendo ricevuta un’adeguata educazione musicale, cercò di entrare al Nelson Musical College, dove non fu accettato in quanto africano-americano; fu comunque trovato un compromesso, ed egli poté usufruire di lezioni private presso la scuola con James E. Stewart (un compositore cui si devono pagine sentimentali, peraltro apprezzate all’epoca, come: Only to See Her Face Again, Cricket on the Hearth, Jenny, the Flower of Kildare) lavorandovi in cambio come uomo di fatica, a 15 dollari al mese. Nel frattempo continuò la sua attività di compositore: diversi suoi lavori, come Goodbye, Old Home, Goodbye, The Court House in the Sky e, soprattutto, The Light House by the Sea, suo primo successo, vengono pubblicati da un editore locale bianco, George Propheter, Jr., che lo incoraggia, nel 1887, a trasferirsi a New York dove, nel frattempo, è stata aperta una filiale della casa editrice. Legato in esclusiva a Propheter, Davis scrive e pubblica, negli anni a seguire, oltre 300 lavori, fra plantation song, coon song, descriptive song, ballate sentimentali. Durante la “coon song craze” compone lavori di ottima levatura, come That Strange Coon (1895), The Coon That I Suspected (1895), If I Only Could Blot Out the Past (1896),

I’m the Father of a Little Black Coon (1897), Nigger, You Won’t Go (1898), My Creole Sue (1898), Only a Nigger Baby (1898) e There’d Never Been No Trouble If They Kidnapped a Coon (1899), My Little Belle Creole (1900). Essi rappresentano però un aspetto marginale della produzione dell’autore che, in un’intervista del 1888 al “New York Evening Sun”, afferma, infatti che the day of Negro and jubilee songs è ormai finito, e che tra i refined people ormai altro non si chiede se non waltz song. L’annotazione è interessante a più livelli: da un lato abbiamo un compositore africano-americano che guarda con occhio attento alle fluttuazioni del mercato musicale: nonostante in quel periodo impazzino già i coon song e il cake-walk, egli sa bene con quale disgusto le classi più abbienti e la giovanissima aristocrazia americane avessero accolto una voga smaccatamente ispirata alla e dalla cultura africano-americana. Nel suo cammino verso una definitiva accettazione come africano-americano, Davis preferisce -atteggiamento peraltro storicamente tipico della borghesia africano-americana- sacrificare il proprio retaggio culturale e porre al servizio dei refined people il suo indubbio talento musicale. Allo stesso tempo egli nega fiducia allo stesso retaggio, reputandolo incapace di rinnovarsi e di imporsi ulteriormente: i giorni dei Negro song sono definitivamente tramontati, non resta che prenderne atto e rivolgersi perciò ai gusti delle classi dominanti. Di queste ultime Davis sarà, infatti, un beniamino, dimostrando di conoscerne assai bene le esigenze sociali; parlando perciò dell’accettazione di un song presso la alta società, in cui sono molte le donne a praticare la musica a scopo di intrattenimento sociale, così si esprime: A woman buys it and sings it at home. She cannot sing a minstrel or Negro song in the parlor, and refined people would not allow it in the house (…) Love and mother songs are the taking songs. A tale tipo di pubblico, dalla lacrima -per così dire- “facile” ed in cerca di emozioni “pure” e distaccate dal divertimento grossier della massa, il compositore dedica buona parte del proprio lavoro; si succedono così, con costante successo, waltz song come Fatal Wedding (1893), Irene, Goodnight (da non confondersi con Goodnight, Irene, composizione posteriore di Hudie Ledbetter), Don’t Move Mother’s Picture (1894), Send Back the Picture and the Ring (che vinse nel 1895 il secondo premio in un concorso lanciato dal periodico “New York World” per le migliori dieci canzoni dell’anno secondo il voto dei lettori; Davis -che ricevette 500 dollari assieme al premio- fu prescelto assieme a James Thornton, Charles Graham, Felix McGlennon, Charles K. Harris, Harry Dann, Percy Gaunt, Raymond Moore, Joe Flynn e Charles B. Ward), Down in Poverty Road (interpretato nel 1895 da una cantante bianca, Bonnie Thornton) e, soprattutto, In the Baggage Coach Ahead (https://www.youtube.com/watch?v=_yWWTrF6a4I) che -eseguita inizialmente da un minstrel africano-americano come Billy Johnson e poi portato al definitivo successo da una cantante bianca come Imogene Comer (definita, assai poco femminilmente, the female baritone)- venderà, in spartito, oltre un milione di copie. Autore purtroppo dalla vita brevissima, Davies morì nell’ottobre del 1899, poco dopo avere scritto una commedia musicale come A Hot Old Time in Dixie, portata al successo dall’attore africano-americano Tom McIntosh.

000 hoganAd un altro autore africano-americano, Ernest Hogan (pseudonimo di Ernest Reuben Crowder) si deve forse il maggiore successo dell’era dei cosiddetti coon song: All Coons Look Alike to Me (https://www.youtube.com/watch?v=bn7te36y9vI&t=43s), del 1896. Nato nel 1859 a Bowling Green, nel Kentucky, Hogan iniziò a godere di una iniziale notorietà come interprete dei Richard & Pringle’s Georgia Minstrels, prima di ottenere un ruolo primario nei già citati Black Patti’s Troubadours, per i quali doveva scrivere “All Coons Look Alike to Me”. Nel 1898 abbandonò la troupe di Black Patti per esibirsi, dopo una serie di applaudite recite teatrali allo Hammerstein’s Victoria Theater, al Casino Roof Garden di Broadway in Clorindy, or the Origin of the Cakewalk, prima opera sincopata africano-americana, scritta da Paul Lawrence Dunbar, su musica di Will Marion Cook e presentata il 5 luglio del 1898: 26 interpreti tutti africano-americani, tra cui -naturalmente- Hogan, di fronte ad una platea di bianchi plaudenti, costruirono il successo di cinque composizioni: Darktown Is Out Tonight, Jump Back, Honey, Hottest Coon in Dixie, Who Dat Say Chicken in Dis Crowd? e That’s How the Cakewalk’s Done.

Mentre Clorindy veniva incorporata in un altro lavoro di Dunbar e Cook, A Senegambian Carnival, interpretato da Bert Williams e George Walker, Hogan si esibiva, con autentici trionfi, in Australia e alle Hawaii, al seguito dei Curtis’s Afro-American Minstrels. Con Billy McLain, suo partner nelle recite all’estero, fondò una compagnia stabile, la Original Smart Set Company, con cui presentò una serie di spettacoli, creando il personaggio di George Washington Bullion. Ritornò al teatro musicale con una nuova commedia di Paul Lawrence Dunbar e Will Marion Cook (che nel frattempo aveva anche scritto Jes Like White Folks): Uncle Eph’s Christmas. Tra il 1905 ed il 1906 ottenne il ruolo principale, quello di unbleached American, in Rufus Rastus (in cui rifiutò di accentuare con il trucco le proprie caratteristiche etniche. Tra l’altro, va fatto notare che nello stesso lavoro -nel corso dei dialoghi- egli fece uso di un intercalare che doveva essere successivamente ripreso dal clarinettista e entertainer Ted Lewis: Is everybody happy?), per la cui produzione scrisse, assieme a Tom Lemonier e Joe Jordan, le musiche. Morì nel 1907, nel corso delle prime recite di The Oyster Man, commedia musicale di Will Vodery.

L’opera di Hogan aprì una vera e propria breccia per la musica popolare africano-americana nel pubblico bianco, senza peraltro dover ricorrere ad una esagerata quanto usuale diluizione dei contenuti musicali, come dimostra lo straordinario successo ottenuto da un lavoro come All Coons Look Alike to Me. Pubblicato nello stesso anno di successi come My Gal Is a High-Born Lady di Barney Fagan, Mister Johnson, Turn Me Loose di Ben R. Harney (che avremo modo di affrontare in un altro capitolo – https://www.youtube.com/watch?v=QGfyp1GzBIk) e I’se Your Nigger if You Wants Me, Liza Jane di Paul Dresser, tale song perpetuò il proprio successo presso le platee bianche pure in anni posteriori, grazie anche all’arrangiamento in chiave ragtime scritto da Max Hoffman (il “coon song”, come vedremo in altro capitolo, appartiene peraltro a un ampio periodo di transizione strumentale fra marcia, two-step, cakewalk e ragtime) ed ottenendo una fama internazionale. Ciononostante, Hogan fu ben poco amato dagli stessi africano-americani, nonostante le sue straordinarie doti di interprete, per l’uso spregiudicato che di un termine peggiorativo come coon egli aveva fatto nel suo lavoro più noto. In origine, in realtà, il song altro non faceva che narrare la storia di una donna che, trovato un amante più ricco e generoso, lasciava il precedente amore commentando sprezzante: All Coons Look Alike to Me.

1. Talk about a coon a-having trouble
I think I have enough of ma own
It’s all about ma Lucy Janey Stubbles
And she has caused my heart to mourn
Thar’s another coon barber from Virginia
In soci’ty he’s the leader of the day
And now ma honey gal is gwine to quit me
Yes she’s gone and drove this coon away
She’d no excuse, to turn me loose
I’ve been abused, I’m all confused
Cause these words she did say

Chorus:
All coons look alike to me
I’ve got another beau, you see
And he’s just as good to me
As you, nig! ever tried to be
He spends his money free
I know we can’t agree
So, I don’t like you no how
All coons look alike to me

2. Never said a word to hurt her feelings
I always bou’t her presents by the score
And now my brain with sorrow am a-reeling
Cause she won’t accept them any more
If I treated her wrong she may have loved me
Like all the rest she’s gone and let me down
If I’m lucky I’m a-gwine to catch my policy
And win my sweet thing way from town
For I’m worried, Yes, I’m desp’rate
I’ve been Jonahed, and I’ll get dang’rous
If these words she says to me

Il ritornello divenne tra i bianchi una sorta di motto razzista e, come ricorda l’editore Edward B. Marks (“They All Sang: From Tony Pastor to Rudy Vallée, As Told to Abbott J. Liebling by Edward B. Marks ”, Viking Press, pag. 91), “the refrain became a fighting phrase all over New York. Whistled by a white man, it was construed as a personal insult. Rosamond Johnson relates that he saw two men thrown off a ferry boat in a row over the tune. Hogan became an object of censure among all the Civil Service intelligentsia, and he died haunted by the awful crime he had unwittingly committed against the race.”

(continua)

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Un popolare torch song: Cry Me A River

Proseguiamo con la periodica proposta di uno standard del jazz ascoltato in diverse versioni. Lo scopo principale, in qualche modo didattico e divulgativo, è quello di evidenziare come non sia possibile apprezzare la qualità di una improvvisazione su standard se non si conosce, non solo musicalmente, l’origine tematica sulla quale si basa il jazzista (o il cantante) di turno che lo interpreta.

Cry Me a River – popolare canzone scritta, musica e liriche, da Arthur Hamilton e pubblicata per la prima volta nel 1953, ma resa celebre da Julie London nel 1955 – non rientra a stretto rigore nel cosiddetto Great American Songbook (secondo Alec Wilder che ne è stato uno studioso definendone l’ambito, le canzoni da considerare dovrebbero essere quelle scritte grosso modo prima dell’avvento del rock&roll, cioè intorno al 1950). Il tema rientra più precisamente in quelle canzoni definite col termine torch song, intendendo con quel termine una canzone d’amore nella quale l’interprete affronta il tema di un amore non ricambiato o perduto, o di un amore nel quale uno dei due amanti è ignaro dell’esistenza dell’altro, oppure uno dei due amanti è partito, o ancora una relazione rovinata da un intrigo romantico, o da “alimentare la fiamma di un amore non corrisposto”. Il termine deriva dal modo di dire in inglese to carry a torch for someoneLa canzone risulta discretamente battuta da diversi jazzisti e cantanti di fama internazionale.

Tra le versioni vocali rintracciate in rete indichiamo:

Dinah WashingtonElla FitzgeraldSam CookeRay CharlesBarbra StreisandNatalie ColeDiane KrallMichale Bublé.

Tra quelle strumentali evidenziamo:

Ray Bryant; Ben Webster; Sonny StittDexter GordonRed Holloway/Jack McDuffRay Brown/Gene HarrisBrad Mehldau; Gwilym Simcock.

Ne proponiamo esplicitamente alcune che ci sono parse significative anche se ce ne sono diverse altre molto qualitative (Ella Fitzgerald e Brad Mehldau su tutte). Buon ascolto.

Progresso o conservazione?

9788845267338_0_200_0_0Personalmente sono arrivato alla conclusione, anche grazie alle indirette conferme ricevute dalla lettura dello splendido libro di Alex Ross sulla musica del Novecento, che chi si è data la patente di “progressismo” in ambito di musica improvvisata sia in realtà l’esatto opposto di quel che racconta e dice di essere, ossia, il massimo della conservazione e della reazione. Dietro all’ostentazione di una maschera di apparente approccio moderno alla musica si cela piuttosto uno scoperto tentativo di minimizzare il contributo afro-americano e oscurarne, in particolare, la preponderanza del fattore ritmico (più in generale, la vera e indiscutibile rivoluzione musicale dell’ultimo secolo, peraltro ben presente anche in un pilastro della musica del Novecento come Igor Stravinskij).

1513712047340_Igor_StravinskyVi è perciò stata, e vi è tutt’ora, una deformata narrazione di una fasulla modernità che tende a negare tale rivoluzione e guarda ancora ansiosamente alla vecchia Europa e alla grandezza (indubbia, ma passata) della sua cultura, in una forma ambigua di revanscismo culturale dietro alla quale si nasconde in realtà la paura (se non la fondata certezza) di aver progressivamente perso il proprio primato culturale. Cosa che peraltro è ormai evidente anche in altri ambiti, come quello politico-economico (che poi, a pensarci bene, è l’effetto del declino culturale). E non è un caso che a tale declino si associno oggi nel Vecchio Continente preoccupanti sintomi reazionari (forse solo sopiti?) come il rifiuto per la diversità e l’alterità, l’incapacità di gestire i flussi migratori, il ritorno di una forte spinta antisemita e più in generale razzista, oltre allo sfondare di nazionalismi e sovranismi vari che hanno probabilissima origine dalla suddetta paura e dal terrore di dover affrontare uno spiazzante mondo che è totalmente e rapidamente cambiato. In fondo, in piccolo e in modo analogo, è avvenuta la stessa cosa nel racconto che da tempo viene da noi proposto intorno al jazz e alla musica improvvisata ed è ben curioso che chi opera in codesto modo si dichiari di impostazione politica e culturale progressista e di Sinistra. Che sia invece proprio codesta (vecchia) Sinistra l’elemento, se non più reazionario, il più conservatore presente oggi in Europa e nel nostro paese? Una mia idea me la sono già fatta. Lascio a ciascuno dei lettori la propria riflessione.

Riccardo Facchi

Il processo storico di diffusione della tradizione culturale africano-americana in quella americana – 1a parte

Quando si è formato il jazz? Quali sono le sue fonti? Da dove trae origine e con quali modalità si è progressivamente formato il complesso e ramificato processo linguistico che ha dato luogo al jazz e alla sua prassi creativa ed esecutiva? E più estensivamente, quando e in che modo la cultura, non solo musicale, africana-americana ha cominciato a penetrare e poi a diffondersi nella dominante cultura bianca americana? In conseguenza di ciò, ha ancora un senso oggi la ricerca spasmodica di una precisa data o di un preciso evento da assegnare alla nascita del jazz?

Il musicologo Gianni M. Gualberto sta da tempo scrivendo un libro nel quale cerca di rintracciare e descrivere il complesso quadro storico, sociale e cultrale che sin dai primi decenni dell’Ottocento americano ha portato progressivamente la cultura africana-americana a emergere sino a penetrare e diffondersi nel contesto sociale e culturale americano. Gualberto ci ha fatto l’onore di consegnarci una bozza di un capitolo sull’argomento per una prima pubblicazione sul nostro blog. Si tratta di uno scritto di notevole ricchezza argomentale (circa 72 cartelle) che pertanto richiederà la divisione in almeno 3 o 4 parti, anche per alleggerire la lettura che, per varie ragioni, è sempre difficoltosa da esercitare per lunghi tempi in rete. Speriamo di fare cosa gradita ai nostri lettori.

Buona lettura

Riccardo Facchi


97f69993b3eb184acaeb9a6f08b50e38Come ebbe a scrivere James Weldon Johnson in “Black Manhattan” (1930), “minstrelsy was, on the whole, a caricature of Negro life, and it fixed a stage tradition which has not yet been broken. It fixed the tradition of the Negro as only an irresponsible, happy-go-lucky, wide grinning, loud laughing, shuffling, banjo-playing, singing, dancing sort of being. Nevertheless, the companies did provide stage training and theatrical experience for a large number of coloured men (…) which, at the time, could not have been acquired from any other source” (James Weldon Johnson, “Black Manhattan”, DaCapo Press, New York 1991, p.93). Egli allude a un altro aspetto trascurato del rovescio della medaglia del fenomeno minstrelsy, cioè la formazione di un minstrelsy africano-americano che non solo aiutò a diffondere ulteriormente la sempre più articolata e sviluppata cultura musicale africano-americana portandola più accentuatamente all’attenzione del pubblico bianco, ma ebbe anche l’effetto di formare nuove e più preparate schiere di attori, interpreti ed esecutori africano-americani, diventando il primo manifesto e riconosciuto contributo africano-americano alla storia del teatro e dello spettacolo americano. Tale riflesso della vicenda si lega inestricabilmente ad una serie di fatti storici tra i quali, naturalmente, il più importante è lo scoppio della Guerra Civile, e si può ben dire che questo sia, in effetti, il primo momento in cui i bianchi americani prendono realmente coscienza dell’esistenza di un macrocosmo (non solo) culturale rimasto loro ignoto sino ad allora. La Guerra americana costituì inevitabilmente un momento cruciale nel confronto fra la tradizione culturale africano-americana e quella bianca, sebbene nella prima fase del conflitto né Lincoln né alcun altro politico di spicco dell’Unione mostrassero particolare indulgenza nei confronti delle teorie abolizioniste. “Il mio obiettivo di fondo, in questo conflitto, è la salvezza dell’Unione, -annunciò Lincoln nel 1862- se io riuscissi a portare a termine questa operazione senza liberare alcuno schiavo, lo farei, così come libererei tutti gli schiavi, o soltanto una parte di essi, se una delle due alternative mi consentisse di raggiungere quello scopo.” (“If there be those who would not save the Union unless they could at the same time save Slavery, I do not agree with them. If there be those who would not save the Union unless they could at the same time destroy Slavery, I do not agree with them. My paramount object in this struggle is to save the Union, and is not either to save or destroy Slavery. If I could save the Union without freeing any slave, I would do it, and if I could save it by freeing all the slaves, I would do it, and if I could save it by freeing some and leaving others alone, I would also do that. What I do about Slavery and the colored race, I do because I believe it helps to save this Union, and what I forbear, I forbear because I do not believe it would help to save the Union.”, da “A Letter From President Lincoln.; Reply to Horace Greeley. Slavery and the Union The Restoration of the Union the Paramount Object”, New York Times, 24 agosto 1862, pag. 1).

220px-Abraham_Lincoln_O-116_by_Gardner,_1865-cropNell’autunno del 1862, sull’onda della sofferta vittoria unionista ad Antietam, tale posizione subì un radicale cambiamento e Lincoln diffuse un proclama (“Proclama di Emancipazione”) in cui si annunciava l’intenzione, a partire dal 1° gennaio del 1863, di liberare tutti gli schiavi che si trovavano nelle aree confederate. Ciò, secondo il presidente, avrebbe senza dubbio accorciato i tempi per una definitiva vittoria, visto che in tal modo si iniziava a scardinare il più solido pilastro della società sudista: “Without slavery the rebellion could never have existed; -sostenne- without slavery it could not continue” (State of the Union 1862 – 1 dicembre 1862). La prima stesura del proclama invitava gli Stati del sud a rientrare nell’Unione previa l’emancipazione pressoché forzata di tutti gli schiavi, in contropartita dell’assicurazione della fine del conflitto. In quell’occasione Lincoln confermò anche la sua disponibilità a risarcire le perdite economiche che i proprietari avrebbero subito a causa della liberazione degli schiavi. Il Proclama di Emancipazione vero e proprio, conseguente allo schema preliminare, comprendeva esclusivamente i territori che facevano parte della Confederazione (“Arkansas, Texas, Louisiana (except the parishes of St. Bernard, Palquemines, Jefferson, St. John, St. Charles, St. James, Ascension, Assumption, Terrebone, Lafourche, St. Mary, St. Martin, and Orleans, including the city of New Orleans), Mississippi, Alabama, Florida, Georgia, South Carolina, North Carolina, and Virginia (except the forty-eight counties designated as West Virginia, and also the counties of Berkeley, Accomac, Morthhampton, Elizabeth City, York, Princess Anne, and Norfolk, including the cities of Norfolk and Portsmouth , and which excepted parts are for the present left precisely as if this proclamation were not issued) e non investiva il problema della schiavitù negli Stati lealisti di confine né in quelle aree del sud che, come New Orleans, erano sotto il controllo federale. “We show our sympathy with slavery by emancipating slaves where we cannot reach them and holding them in bondage where we can set them free, commentò sarcasticamente il Segretario di Stato, William Seward. L’abolizione della schiavitù era vista non come indispensabile ma come giustificazione per un conflitto che costava più di tre milioni di dollari al giorno e, soprattutto, costava migliaia di vite: We must have some compensation for the blood and treasure which we have been forced to spend, this we find in the abolition of slavery.”, ragionava il direttore del Catholic Telegraph (“Catholic Telegraph, in Ohio State Journal, 19 dicembre 1863, p. 2. Vedi Charles Royster, The Destructive War: William Tecumseh Sherman, Stonewall Jackson, and the Americans”, New York, Vintage Books, 1993, pagg. 260–64). L’abolizionismo veniva così ad emergere come conseguenza logica di un’ostilità nei confronti dei sudisti. Come ebbe a chiosare un commentatore di St. Louis, con un certo cinico realismo: Our soldiers take the slave, because they hate the slaveholder, but not because they love the negro ([Charles L. Bernays] a Montgomery Blair, 17 agosto 1863. Vedi Joseph Allan Frank, With Ballot and Bayonet: The Political Socialization of American Civil War Soldiers (University of Georgia Press, Athens 1998, pagg. 67–70).

Nel suo primo discorso inaugurale, Lincoln aveva sottolineato la propria disponibilità ad accettare un tredicesimo emendamento alla Costituzione che garantisse il permanere della schiavitù negli Stati del sud; per rafforzare il suo proclama, egli si adoperò perché venisse approvato un tredicesimo emendamento modificato, che prevedesse l’abolizione della schiavitù negli Stati appartenenti alla Confederazione. Il Congresso, tuttavia, egemonizzato dai repubblicani, e tendenzialmente più radicale del presidente, andò aldilà dell’approvazione di tale richiesta, varando e approvando un provvedimento che proibiva la schiavitù in tutto il territorio degli Stati Uniti. Ratificato nel dicembre del 1865, otto mesi dopo la morte di Lincoln, questo emendamento rappresentò una radicale alterazione della Costituzione emanata nel 1789. Il Proclama di Emancipazione, introdotto come una misura d’emergenza, provocò un repentino e consistente cambiamento delle operazioni militari. Fin dallo scoppio delle ostilità, l’ala più progressista del partito repubblicano, insieme a gruppi di africano-americani liberi, aveva esercitato una costante pressione sul presidente, affinché questi consentisse l’arruolamento anche agli uomini di colore.

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Frederick Douglass

L’ex-schiavo Frederick Douglass aveva preso posizione su quest’argomento:Let the slaves and free colored people be called into service, and formed into a liberating army, to march into the South and raise the banner of Emancipation among the slaves. (…) We have no hesitation in saying that ten thousand black soldiers might be raised in the next thirty days to march upon the South. One black regiment alone would be, in such a war, the full equal of two white ones. The very fact of color in this case would be more terrible than powder and balls. The slaves would learn more as to the nature of the conflict from the presence of one such regiment, than from a thousand preachers. Every consideration of justice, humanity and sound policy confirms the wisdom of calling upon black men just now to take up arms in behalf of their country. (…) We are ready and would go, counting ourselves happy in being permitted to serve and suffer for the cause of freedom and free institutions” (How To End The War, Douglass’ Monthly, maggio 1861).

31_EMANCIPATIONedit L’eventualità che si procedesse all’armamento di truppe africano-americane (che pure avevano partecipato alla Guerra d’Indipendenza e alla Guerra del 1812) e che formalmente si consentisse loro di usare la violenza nei confronti dei bianchi allarmò i conservatori nordisti (che agivano in un contesto culturale che continuava a giudicare i discendenti degli schiavi inferiori e inaffidabili). Cosicché, quando un ristretto gruppo di volontari africano-americani iniziò privatamente un periodo di addestramento a New York City, il capo della polizia ne ordinò l’immediato scioglimento, senza contare che, nello stesso Proclama di Emancipazione, Lincoln aveva invitato gli schiavi che erano stati liberati ad astenersi da qualsiasi tipo di violenza, se non per necessità di autodifesa (“And I hereby enjoin upon the people so declared to be free to abstain from all violence, unless in necessary self-defence; and I recommend to them that, in all case when allowed, they labor faithfully for reasonable wages”). Al tempo stesso, tuttavia, quello stesso documento consentiva l’arruolamento di uomini di colore “per rafforzare guarnigioni, caserme, avamposti e (…) per munire navi di qualsiasi tipo.” (“And I further declare and make known that such persons of suitable condition will be received into the armed service of the United States to garrison forts, positions, stations, and other places, and to man vessels of all sorts in said service”). Ma la decisione di utilizzare soldati africano-americani, così come la stessa emancipazione, dette un’impronta radicalmente diversa al conflitto: Among thinking men the impression is becoming daily more general, that the coming man for whom we have been looking…is the negro emancipated, armed, instructed and drilled”, scriveva un corrispondente da Nashville (“Granite” alla Cincinnati Gazette, 15 novembre 1863, ripubblicato in Daily Journal, Indianapolis, 24 novembre 1863).

Nonostante i vertici militari continuassero a dimostrarsi scettici circa l’efficienza delle truppe africano-americane -dubitando specialmente della loro capacità di sopportare la tensione e l’impatto del combattimento- l’immissione di reggimenti composti da africano-americani avrebbe costituito un elemento in grado di abbreviare la durata della guerra e, quindi, anche di evitare un ulteriore sacrificio di uomini, a fronte peraltro di un vistoso calo nell’arruolamento di volontari bianchi. Nel maggio 1863, di fronte a un crescente numero di volontari africano-americani, sospinti dalla speranza di acquisire la cittadinanza (come aveva scritto Douglass: “Once let the black man get upon his person the brass letter, U.S., let him get an eagle on his button, and a musket on his shoulder and bullets in his pocket, there is no power on earth that can deny that he has earned the right to citizenship”) si istituì il Bureau of Colored Troops. Alla fine della Guerra Civile, 179.000 africano-americani (fra i quali 80 ufficiali), il 10% delle forze unioniste, avevano prestato servizio nell’Esercito, altri 19.000 nella Marina: 40.000 di questi erano morti, quasi 30.000 per infezioni e malattie. Falegnami, cappellani, cuochi, guardie, operai, infermieri, ricognitori, spie, timonieri, chirurghi, carrettieri africano-americani contribuirono allo sforzo bellico, cui parteciparono anche molte donne come infermiere e esploratrici: memorabile il caso di Harriet Tubman, arruolata nei servizi di ricognizione nel 2d South Carolina Volunteers.

Nonostante l’entusiasmo e le numerose prove di valore offerte sul campo dai soldati di colore (che conquistarono molti alla causa dell’abolizionismo), permase tuttavia un generale senso di sfiducia per questi alleati, in genere scomodi, cui venivano riservati il trattamento peggiore e le operazioni più rischiose. Nella marina, ad esempio, i volontari neri non potevano ottenere altra qualifica se non quella di mozzo e la loro paga (così come nell’esercito), per quasi tutta la durata del conflitto, rimase largamente inferiore a quella dei marinai bianchi. Tuttavia l’arruolamento di soldati africano-americani, e, fatto ancora più significativo, la loro abilità nell’uso delle armi, costituì un precedente molto importante allorché, negli anni seguenti all’emancipazione, si affacciò il problema di estendere la cittadinanza anche agli africano-americani.

Nel marzo del 1864, in occasione della partenza di un reggimento “colored” da New York, si ebbe un esempio tangibile delle trasformazioni che stavano prendendo piede in quel periodo. Fra il 13 e il 16 luglio dell’anno precedente una violenta manifestazione, organizzata da cittadini di origine irlandese per protestare contro le nuove leggi di arruolamento nell’esercito federale (e che riguardavano tutti i maschi fra 20 e 35 anni d’età tutti i maschi celibi fra i 35 e i 45), aveva attaccato la popolazione africano-americana, sospettata di prestarsi a essere usata per sostituire a basso costo la manodopera bianca grazie al Proclama di Emancipazione. Soltanto dopo quattro giorni terminarono i cosiddetti “Draft Riots”, durante i quali i dimostranti continuarono a controllare la piazza saccheggiando i negozi, dando alle fiamme ciò che capitava e abbandonandosi a linciaggi (a fronte di cifre ufficiali che elencarono 119 vittime, si pensa che circa 1200 cittadini africano-americani venissero uccisi e oltre 3000 perdessero la casa negli incendi e negli atti di vandalismo), si riuscì a ristabilire l’ordine nelle strade cittadine, grazie all’utilizzazione di 4000 uomini delle truppe dell’Unione, reduce dalla battaglia di Gettysburg, e perciò già collaudate, formate in gran parte da riservisti. A meno di un anno dall’episodio, il “New York Times”, il 6 marzo 1864, pubblicò un servizio sulla parata di addio di un corpo di soldati africano-americani:

The scene of yesterday was one which marks an era of progress in the political and social history of New-York. A thousand men, with black skins, and clad and equipped with the uniforms and arms of the United States Government, marched from their camp through the most aristocratic and busy streets, received a grand ovation at the hands of the wealthiest and most respectable ladies and gentlemen of New-York, and then moved down Broadway to the steamer which bears them to their destination — all amid the enthusiastic cheers, the encouraging plaudits, the waving handkerchiefs, the showering bouquets, and other approving manifestations of a hundred thousand of the most loyal of our people. (…)

In the month of July last the homes of these people were burned and pillaged by an infuriated political mob; they and their families were hunted down and murdered in the public streets of this city; and the force and majesty of the law were powerless to protect them. Seven brief months have passed, and a thousand of these despised and persecuted men march through the City in the honorable garb of United States soldiers, in vindication of their own manhood, and with the approval of a countless multitude — in effect saving from inevitable and distasteful conscription the same number of those who hunted their persons and destroyed their homes during those days of humiliation and disgrace. This is noble vengeance — a vengeance taught by Him who commanded, “Love them that hate you; do good to them that persecute you.”

The Twentieth Regiment United States Colored Troops received a grand reception at the hands of the New-York Union League Club and the citizens of New-York. …

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Ciononostante, la progressiva integrazione degli africano-americani creava dinamiche conflittuali e poneva un problema di identità nazionale a tutti i livelli (già nei dibattiti al Congresso del Marzo e dell’Aprile 1862 l’opinione generale veniva chiaramente espressa dal Senatore Garrett Davis del Kentucky: “The negroes that are now liberated, and that remain in this city, will become a sore and a burden and a charge upon the white population”). Con la Guerra Civile gli africano-americani ottengono la possibilità di accedere alla società americana attraverso un percorso che, per quanto tortuoso e accidentato, doveva permettere la progressiva ma definitiva penetrazione di larga parte della tradizione africano-americana nei substrati della cultura americana. Prima della Guerra Civile ci aveva già pensato l’arte africano-americana dell’intrattenimento a porre il problema della propria esistenza e del significato di essa. Ancora nel 1862, in fin dei conti, un presidente come Lincoln quando parlava di una famiglia nazionale composta di un solo popolo unito alludeva implicitamente ad una società esclusivamente bianca: “A nation may be said to consist of its territory, its people, and its laws. The territory is the only part which is of certain durability. “One generation passeth away and another generation cometh, but the earth abideth forever.” It is of the first importance to duly consider and estimate this ever-enduring part. That portion of the earth’s surface which is owned and inhabited by the people of the United States is well adapted to be the home of one national family, and it is not well adapted for two or more. Its vast extent and its variety of climate and productions are of advantage in this age for one people, whatever they might have been in former ages. Steam, telegraphs, and intelligence have brought these to be an advantageous combination for one united people” (State of the Union 1862 – 1 dicembre 1862).

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Thomas Jefferson

Così come Thomas Jefferson che a suo tempo aveva cullato l’illusione di portare a compimento un’espansione senza colpe o sconvolgimenti, anche Lincoln continuò a sperare in un volontario esodo di africano-americani dagli Stati Uniti (come affermò già al suo primo dibattito con Stephen A. Douglas, il 21 agosto 1858: “My first impulse would be to free all the slaves, and send them to Liberia,-to their own native land. But a moment’s reflection would convince me, that whatever of high hope, (as I think there is) there may be in this, in the long run, its sudden execution is impossible. If they were all landed there in a day, they would all perish in the next ten days; and there are not surplus shipping and surplus money enough in the world to carry them there in many times ten days”). L’impegno con cui egli sostenne la causa dell’emancipazione dipendeva non poco, infatti, dalla sua convinzione di poter proporre un progetto di colonizzazione secondo il quale gli africano-americani -schiavi o uomini liberi che fossero- avrebbero fatto ritorno in Africa o avrebbero accettato di trasferirsi in un contesto geografico diverso (si pensò, appunto, alla Liberia e, successivamente, ad Haiti e al Chiriquí, nella New Grenada, in un territorio che oggi corrisponderebbe al Panama) e, presumibilmente, a loro più congeniale; tale idea fu illustrata anche a cinque leader (John F. Cook Jr., Benjamin McCoy, Edward M.Thomas, John T. Costin, Cornelius Clark) della comunità africana-americana in un incontro alla Casa Bianca il 14 agosto 1862: “You and we are different races. We have between us a broader difference than exists between almost any other two races. Whether it is right or wrong I need not discuss, but this physical difference is a great disadvantage to us both, as I think your race suffer very greatly, many of them by living among us, while ours suffer from your presence. In a word we suffer on each side. If this is admitted, it affords a reason at least why we should be separated.” Pur esprimendo questo suo impegno nei confronti dell’America bianca, Lincoln non si dichiarò mai apertamente ostile all’istituzione della schiavitù. Diversamente da Jefferson, che vi vedeva un male necessario, Lincoln certamente considerava lo stato di servitù coatta degli africano-americani come la maggior ingiustizia mai inflitta ad alcun popolo. E nonostante nel 1861, pur di preservare l’Unione, si fosse dichiarato disposto ad accettare la schiavitù negli Stati del sud, egli riteneva che quella fosse una proposta politicamente praticabile ma non socialmente necessaria. “One section of our country believes slavery is right, and ought to be extended, affermò nel corso del suo primo Discorso inaugurale il 4 marzo 1861, while the other believes it is wrong, and ought not to be extended.” Ma, per quanto contrastata, la decisione con cui Lincoln si schierò a favore dell’emancipazione non fu dettata da una sua conversione ideologica, bensì dallo sviluppo degli eventi.

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Stephen A.Douglas

Per quanto l’atteggiamento di Lincoln sulla schiavitù al sud avesse subìto un cambiamento, la sua posizione sul problema dei rapporti tra etnìe rimase fondamentalmente ambigua. “I will say then that I am not, nor ever have been, in favor of bringing about in any way the social and political equality of the white and black races, aveva affermato Lincoln il 18 settembre 1858, nel corso di uno fra i suoi dibattiti con Stephen A. Douglas. E davanti a un pubblico plaudente, aveva continuato: “I will say in addition to this that there is a physical difference between the white and black races which I believe will forever forbid the two races living together on terms of social and political equality. And inasmuch as they cannot so live, while they do remain together there must be the position of superior and inferior, and I as much as any other man am in favor of having the superior position assigned to the white race. I say upon this occasion I do not perceive that because the white man is to have the superior position the negro should be denied everything. I do not understand that because I do not want a negro woman for a slave I must necessarily want her for a wife. My understanding is that I can just let her alone. I am now in my fiftieth year, and I certainly never had a black woman for either a slave or a wife. So it seems to me quite possible for us to get along without making either slaves or wives of negroes. I will add to this that I have never seen, to my knowledge, a man, woman, or child who was in favor of producing a perfect equality, social and political, between negroes and white men.” Una volta eletto presidente, come abbiamo visto, Lincoln ribadì questi suoi sentimenti, sperando di convincere gli africano-americani ad abbandonare il territorio degli Stati Uniti: “But for your race among us there could not be war, although many men engaged on either side do not care for you one way or the other. Nevertheless, I repeat, without the institution of Slavery and the colored race as a basis, the war could not have an existence. It is better for us both, therefore, to be separated.” La questione, d’altronde, non era certo nuova. La preoccupazione di operare una selezione di natura razziale non fu soltanto un problema degli Stati del sud: molti fra i cittadini più eminenti del nord espressero, negli anni precedenti alla Guerra di Secessione, il timore che il giardino dell’Eden americano potesse venire inquinato nella sua purezza dall’immissione di etnìe “inferiori”. Non casualmente, nel decennio che precedette la Guerra Civile molti fra gli Stati del nord vietarono l’accesso agli africano-americani liberi, peraltro più difficili da controllare data la loro maggiore mobilità. Fondamentalmente, tali misure legislative erano dettate dal giustificato timore che l’immissione sul mercato di manodopera africano-americana, meno remunerata di quella bianca, avrebbe scatenato dei meccanismi di competizione economica. Ma ancor più radicato era il secolare pregiudizio nutrito nei confronti della popolazione nera. Francis P. Blair, uno degli esponenti più in vista del partito repubblicano, dichiarato antischiavista, affermò nel 1858: “It is certainly the wish of every patriot that all within the limits of our Union should be homogeneous in race and of our own blood.” Non a caso, un sistema per eliminare l’influenza degli africano-americani in America era stato individuato nel loro ritorno in Africa, tanto che, nei primi decenni del secolo, era sorto un movimento per la sua colonizzazione. Questo progetto, inteso come una soluzione in grado di porre fine alla schiavitù degli africano-americani, si riprometteva anche di risolvere -o, più precisamente, accettava l’implicita impossibilità di risolvere- il problema razziale in America. Secondo questo progetto, anziché essere lasciati liberi di rimanere nelle vicinanze dei loro ex-padroni, gli schiavi, una volta emancipati, sarebbero stati trasportati in una località remota, in Africa o altrove. Nel 1817, coloro che si battevano per la selettività della razza bianca dettero origine alla Società Americana per la Colonizzazione (per l’esattezza, American Society for Colonizing the Free People of Colour of the United States): un’organizzazione “filantropica” i cui obiettivi consistevano nell’istituzione di un fondo per il parziale rimborso dei proprietari che si fossero privati dei loro schiavi, e nel rapido rimpatrio di questi ultimi in Africa. Questo movimento ironicamente raccolse i maggiori consensi tra le fila dei protestanti più ortodossi, dal momento che questi videro negli africano-americani gli elementi potenzialmente più adatti ad operare una conversione al cristianesimo su vasta scala degli infedeli africani.

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Liberia

Dopo che nel 1822 era stata fondata ad hoc la Repubblica della Liberia, tuttavia, solo dodicimila africano-americani fecero ritorno in Africa. Dal 1830 in poi l’interesse per questo processo di colonizzazione andò progressivamente scemando soprattutto a causa della crescente influenza dell’opposizione abolizionista (che nel giornale “Liberator”, diretto da William Lloyd Garrison, aveva la sua voce più diffusa), che faceva perno sulla convinzione che il popolo americano sarebbe certamente riuscito a risolvere al suo interno il problema del razzismo. Ma un’altra causa determinante per il fallimento del progetto di colonizzazione fu la ferma opposizione con cui la comunità degli africano-americani liberi lo respinse. Un esponente di questo schieramento affermò: I colonialisti vogliono che noi accettiamo di recarci in Liberia; ma se non accettiamo possiamo anche andare all’Inferno. Fu sulla base di questa resistenza, cui dettero voce molti leader africano-americani, che il progetto di colonizzazione fallì.

Col rafforzarsi del movimento abolizionista durante il decennio 1850-60, la classe politica bianca tornò a vedere nel progetto di colonizzazione l’unica alternativa realistica per evitare un vero e proprio conflitto interetnico. Il costante aumento dell’odio razziale riuscì, in alcuni casi, a convincere alcuni strati della popolazione africano-americana che la colonizzazione avrebbe alla fine potuto costituire un vantaggio per il proprio popolo. Un fautore di quest’ultima ipotesi giustificò in questo modo la sua posizione: non possiamo fare a meno di ottenere una nazionalità, e io sono disposto a recarmi ovunque pur di riuscire a divenire parte di un popolo indipendente. L’idea della colonizzazione e della emigrazione forzata continuò ad apparire come un’alternativa praticabile per risolvere i problemi ormai strutturali di quella società bi-etnica, fin nel periodo della Guerra Civile. Ma la partecipazione degli africano-americani alle fasi del conflitto, cui fece eco una rinnovata tensione verso il perfezionismo morale, sembrò suggerire di nuovo che si sarebbe potuto giungere a stabilire una situazione di armonia fra le due etnìe. Tra i bianchi, inoltre, permaneva l’illusoria speranza che gli africano-americani avrebbero, prima o poi, potuto decidere volontariamente di far ritorno al loro ambiente d’origine, in Africa. Il West, quel magico territorio colonizzato grazie all’apporto congiunto del nord e del sud, sarebbe, in questo caso, riuscito a mantenere una sua omogeneità etnica, e, con essa, anche la sua purezza. D’altronde, non va dimenticato che lo stesso timore che alcuni gruppi considerati indesiderabili potessero, con la loro semplice presenza, contaminare la cultura dominante costituì un alibi di cui si servì la maggioranza per perseguitare ed isolare anche alcune componenti della cultura bianca reputate devianti: il destino che accomunò in gran parte africano-americani, nativi e messicani doveva estendersi persino a sette religiose, come quella, ad esempio, dei mormoni.

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Henry Highland Garnett

Nonostante una forte opposizione all’interno della comunque divisa comunità africano-americana, alcune frange separatiste capeggiate da Henry Highland Garnett colsero l’occasione per sottrarsi al razzismo americano ed emigrarono ad Haiti (cogliendo peraltro un suggerimento già evidenziato nel District of Columbia Compensated Emancipation Act del 16 aprile 1862, in cui si proponeva un incentivo economico per l’africano-americano liberato che avesse deciso di trasferirsi altrove, in Liberia o Haiti: “Sec. 11. And be it further enacted, That the sum of one hundred thousand dollars, out of any money in the Treasury not otherwise appropriated, is hereby appropriated, to be expended under the direction of the President of the United States, to aid in the colonization and settlement of such free persons of African descent now residing in said District, including those to be liberated by this act, as may desire to emigrate to the Republics of Hayti or Liberia, or such other country beyond the limits of the United States as the President may determine: Provided, The expenditure for this purpose shall not exceed one hundred dollars for each emigrant”). Altri africano-americani, facendo uso del sostegno finanziario del governo federale, si stabilirono a Panama e nelle isole dei Caraibi. Poiché entrambi questi esperimenti si dimostrarono comunque inattuabili (nelle nuove terre gli africano-americani subirono maltrattamenti, vennero sfruttati come forza lavoro a basso prezzo e fu loro riservata dai locali un’accoglienza prevalentemente ostile), Lincoln fu costretto a ripensare del tutto il suo progetto. Il 13 marzo 1864, egli s’adoprò a cercare di ridefinire la “famiglia nazionale”, nella quale fino ad allora aveva incluso solo soggetti bianchi; in una lettera privata inviata a Michael Hahn, governatore del ricostituito Stato della Louisiana, suggeriva che ad alcuni africano-americani venisse garantito il diritto di voto: “I barely suggest for your private consideration, whether some of the colored people may not be let in—as, for instance, the very intelligent, and especially those who have fought gallantly in our ranks. They would probably help, in some trying time to come, to keep the jewel of liberty within the family of freedom.”

Uno dei tanti risultati della Guerra Civile, con l’abolizione della schiavitù e la libertà di movimento concessa almeno ufficialmente agli africano-americani, fu la libera circolazione delle fonti originali di quelle musiche così tanto amate e copiate dai bianchi per il loro intrattenimento.

Grazie agli effetti della Guerra Civile l’America bianca fu quasi inevitabilmente portata a confrontarsi con la tradizione culturale africano-americana (di cui l’intrattenimento musicale era allora di gran lunga il frutto più frequentato) e con i suoi esponenti, senza più necessariamente la mediazione di intermediari quali i minstrel. Il ruolo di questi ultimi si fece perciò culturalmente marginale di fronte all’avanzata di quel Nord che entrò in diretto contatto con la tradizione articolata dagli schiavi delle piantagioni degli Stati del Sud. Sino ad allora, in vaste aree, specie quelle urbane, degli Stati Uniti, la conoscenza del patrimonio culturale africano-americano era inesistente o basata su cognizioni del tutto inesatte.

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Dena J. Epstein

Dena J. Epstein, seppure succintamente, offre un quadro preciso ed interessante dei rapporti che esistevano tra l’America bianca e la cultura africano-americana subito prima e subito dopo la Guerra Civile: se il primo effetto di tale processo fu, specie nel corso del conflitto, la maggior diffusione della musica religiosa africano-americana (con tutte le sue future ramificazioni), non meno significativa fu -cessate le ostilità- la comparsa del minstrelsy africano-americano. Apparizione che non emerse dal nulla: una forte coesione ed una più marcata omogeneità culturale si fecero notare tra gli africano-americani già all’inizio dell’Ottocento, indicativamente con l’abolizione della tratta degli schiavi nel 1808. In realtà, i nuovi sviluppi meccanici nella raccolta del cotone (risale agli anni fra il 1792 ed il 1794 l’invenzione del cotton gin, una sgranatrice di cotone, dello yankee Eli Whitney), con la necessità di sempre più numerosa immissione di manodopera, resero la nuova legislazione sull’abolizione del commercio di schiavi, ottenuta dagli sforzi congiunti di attivisti africano-americani ed abolizionisti bianchi, del tutto inefficace. Nel 1800 vivevano in territorio americano poco più di un milione di africano-americani, di cui circa 200.000 erano liberi e concentrati soprattutto negli Stati del nord; all’inizio della Guerra Civile il loro numero era salito a poco meno di quattro milioni e mezzo di cui si calcola che poco più di cinquecentomila fossero liberi. Non tutti lavoravano nelle piantagioni, dove la loro funzione si era resa meno richiesta con l’immissione di manodopera bianca a bassi costi e con lo sfruttamento sempre più intensivo del lavoro minorile: in città come Washington, Baltimora, Charleston, Mobile, New Orleans, Philadelphia esistevano vaste comunità di africano-americani impegnati nei più svariati mestieri, soprattutto come lavoranti a cottimo, giornalieri e come operai nelle fabbriche. Fino a quando la Guerra Civile non rese impossibile evitare certe realtà, gran parte della popolazione degli Stati del Nord preferì ignorare la tragedia della schiavitù, nonostante l’operato delle sempre più numerose organizzazioni abolizioniste. D’altronde, a scaricare la coscienza di troppo gravosi pesi ci pensava proprio il minstrelsy bianco, con le sue accondiscendenti immagini di africano-americani bonari, tutto sommato felici in piantagioni ritratte secondo dei canoni arcadici e affatto distaccati dalla realtà (un’illusione nostalgica, dettata dallo scontro con la dura realtà, in cui cadde persino un artista africano-americano come Edwin Harleston e che avrebbe caratterizzato certo ambiguo e obliquo sense of humor di un testo del 1880 come “Uncle Remus: His Songs and His Sayingsdi Joel Chandler Harris): era il mondo variamente dipinto e ritratto in più epoche e luoghi da Agostino Brunias, George Robertson, Alcide Dessalines d’Orbigny, John Rose, da William Aiken Walker, Winslow Homer, Frank Buchser, Felix Octavius Carr “F. O. C.” Darley, Howard Helmick, Edwin Austin Abbey, Edward Winsor Kemble e romanticizzato sentimentalmente negli scritti di Margaret Junkin Preston. E’ pur vero che, per quanto drammatica, la situazione dei lavoratori africano-americani negli Stati del nord non poteva essere paragonata a quella degli schiavi che lavoravano nelle piantagioni degli Stati del sud. L’imprenditoria, stimolata dai notevoli profitti derivanti dalla coltivazione del cotone, aveva determinato in tali zone l’applicazione fortemente rigida del sistema schiavista. Nonostante alcuni personaggi del periodo rivoluzionario, come ad esempio Thomas Jefferson, avessero prevista la graduale scomparsa della schiavitù, la generazione di cui facevano parte Andrew Jackson e Abraham Lincoln si trovò in presenza, invece, di un’espansione del sistema di sfruttamento basato sulla servitù ereditaria a vita. In numerose occasioni gli apologeti sudisti affermarono che nelle piantagioni gli schiavi vivevano in condizioni migliori di quelle riservate ai lavoratori industriali africano-americani del nord, come si evinceva dalle visioni idilliche e sentimentaleggianti della vita nell’iconico mondo della piantagione evocate nei romanzi di John Pendleton Kennedy (“Swallow Barn”), William Gilmore Simms (“The Golden Christmas”), Caroline Lee Hentz (“The Planter’s Northern Bride”), V. G. Cowdin (“Ellen; or, The Fanatic’s Daughter”), Philip J. Cozans (“Little Eva: The Flower of the South”), Mary Henderson Eastman (“Aunt Phillis’s Cabin: or, Southern Life As It Is”), Martha Haines Butt (“Antifanaticism: A Tale of the South”), G. M. Flanders (“The Ebony Idol”), Sarah Josepha Hale (“Liberia: or, Mr. Peyton’s Experiments”), Charles Jacobs Peterson (“The Cabin and Parlor: or, Slaves and Masters”) e altri ancora, come, successivamente, Thomas Nelson Page.

Anche se tale rivendicazione si fosse rivelata attendibile, ancorché basata su pretesti di natura esclusivamente materiale, essa avrebbe comunque investito un aspetto marginale e non avrebbe alterato la sostanza morale del problema, che era avvertito anche nello stesso Sud, come si evince da una diversa produzione letteraria e saggistica in cui il problema della schiavitù emerge pure come artata “terra di nessuno” fra le classi agiate dei proprietari terrieri e un vasto proletariato rurale e sub-urbano bianco, che nella schiavitù, con tutte le sue perversioni sociali collaterali (molti abolizionisti, ad esempio, aspiravano alla fine della schiavitù come mezzo sicuro e necessario per riuscire a non dipendere dagli africano-americani e poterli così allontanare dal territorio degli Stati Uniti), ha il suo più pericoloso concorrente. Inquietudini affiorano già nel 1824 in un apprezzabile testo di George Tucker come “The Valley of the Shenandoah”, laddove si descrive la schiavitù degli africano-americani come una schiavitù morale per tutti gli americani, un inquinamento costante della quotidianità che connota negativamente la “diversità” orgogliosamente voluta e dichiarata del Sud rispetto al Nord.

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Mary Boykin Chesnut

Non poca letteratura femminile dell’epoca descrive con forte senso di disagio non solo la inferiore posizione della donna nella società sudista (come scrisse Mary Boykin Chesnut nel suo straordinario diario, “there is no slave, after all, like a wife”, in Mary Boykin Chesnut and Catherine Clinton, Mary Chesnut’s Diary (Penguin Books, New York 2011, pag. 59), soprattutto presso le classi meno abbienti, ma anche i soprusi cui erano esposte le donne africano-americane da parte dei proprietari e commercianti di schiavi e delle loro famiglie, vittime, come i loro stessi uomini, delle fantasie e le frustrazioni erotiche di una mascolinità repressa e impaurita: uno squisito racconto come “Zafferano” di Lafcadio Hearn descrive con clinica acutezza il rapporto delle donne del Sud, bianche o africano-americane, con il dominio di un ossessivo e insicuro eteropatriarcato, che per vie traverse e sottili non manca di emergere, a ben vedere, in un’opera scultorea densa di un complesso americanismo quale “Forever Free” di Edmonia Lewis e che latita nei romanzi di Augusta Jane Evans, come “Beulah” e “Macaria” (in cui anzi si esalta la femminilità del Sud, il sostegno delle donne alle proprie famiglie, l’indifferenza nei confronti della schiavitù e l’aspra ostilità nei confronti dell’Unione). Gli scritti di Sarah Moore Grimké (Epistle to the Clergy of the Southern States, 1836) e Angelina Emily Grimké (Appeal to the Christian Women of the South, 1836), quelli, originalissimi, di Phoebe Yates Pember (l’esperienza della solida, alta borghesia ebraica, simpatizzante nei confronti dell’abolizionismo e estranea, se non ostile, all’imprenditoria delle piantagioni, in pagine dalle quali scaturisce la sensibilità acuta di chi, come donna e ebrea, nel contesto del Sud, sa di essere minoranza con una ristretta mobilità sociale), i diari di Sarah Morgan Dawson, Kate Stone, Cornelia Peake McDonald, i materiali raccolti dalle lettere e scritti inediti di Mary Berkley Minor Blackford (Mine Eyes Have Seen the Glory, 1954) offrono il ritratto di un nervo scoperto, di un’agonia morale non più sopportabile nella scissione fra difesa delle proprie tradizioni e la schiavitù che, invece, le avvelena e inquina sempre di più.

La diffusione e lo sviluppo raggiunti dalle fabbriche tessili in Inghilterra e nel nord-est degli Stati Uniti negli ultimi decenni del XVIII secolo avevano generato un notevole aumento della domanda di cotone grezzo. Tuttavia, i proprietari delle piantagioni del sud non riuscirono a trarre vasti profitti dai loro raccolti se non a partire all’incirca dal 1793, anno in cui il già citato Eli Whitney mise a punto il suo cotton gin, una macchina grazie alla quale le operazioni di cardatura del cotone venivano enormemente facilitate. Questa innovazione rivoluzionò in pochi anni l’economia sudista, consentendo una massiccia produzione di materia prima da destinare all’esportazione.

Con l’aumentare delle esportazioni di cotone verso l’Europa si riversò negli Stati Uniti un cospicuo flusso di capitali, che venivano però in gran parte trattenuti dal sistema commerciale del Nord e reinvestiti in altri settori industriali. Per dare un’idea di quanto importante fosse questo scambio, basterà ricordare che le variazioni della produzione di cotone provocarono consistenti ripercussioni sui mercati finanziari di tutto il mondo e che proprio tale fenomeno fu la causa principale di profonde crisi del sistema bancario, come ad esempio quella del 1837. Fu, dunque, proprio il cotone prodotto nel Sud, a fornire gran parte delle risorse per il grande sviluppo economico americano del XIX secolo. Esso, assieme alla canna da zucchero, consentiva significativi guadagni ai piantatori che operavano lungo i confini sudoccidentali, dall’Alabama alla Louisiana, dal Mississipi all’Arkansas o al Texas. Nel vecchio Sud agricolo, dove l’erosione del suolo aveva indebolito i terreni, i grandi proprietari terrieri convertirono la loro produzione in grano e avena, riuscendo in tal modo ad accumulare ingenti guadagni. Il successo del sistema economico basato sulla piantagione dipendeva, come quello del complesso industriale del Nord, da una gestione efficiente della forza lavoro. L’espansione produttiva del cotone contribuì perciò in maniera determinante a frenare le aspirazioni emancipazioniste che avevano animato personaggi come Jefferson, portando, al contrario, ad un rafforzamento della tratta degli schiavi. E proprio in occasione dell’azione del Congresso che nel 1808, come detto poc’anzi, vietò costituzionalmente la tratta degli africano-americani, i maggiori proprietari di piantagioni presero a trasferirsi verso ovest portando con sé i loro schiavi, sperando di poter incrementare i loro profitti grazie al loro lavoro e al loro prezzo di mercato. Le realtà economiche, con i loro profitti, contribuirono al declino del tratto umanitario e liberale, espressione della rivoluzione americana. Sebbene Thomas Jefferson avesse apertamente criticato il sistema schiavista, la maggior parte dei suoi concittadini, soprattutto in seguito al rivolta degli schiavi di Santo Domingo del 1793, si allontanò dall’egualitarismo che aveva caratterizzato il suo pensiero. Nel 1800, il pericolo di una ribellione si fece assai più concreto: si scoprì con terrore l’esistenza di una cospirazione tra gli schiavi di Richmond, in Virginia, organizzata da un presunto “profeta” di nome Gabriel Prosser (in realtà, uno schiavo, di nome Gabriel, di proprietà di tale Prosser). I padroni giustiziarono gli schiavi che avevano preso parte alla cospirazione e, per prevenire ulteriori disordini, fra il 1805 e il 1832, gli Stati del sud, in particolare in Virginia, approvarono una serie di nuove leggi che limitavano ancor più gravemente la mobilità di tutti gli africano-americani, schiavi o uomini liberi che fossero: gli schiavi non potevano viaggiare o allontanarsi dalla proprietà in cui erano forzati al lavoro senza l’esplicito permesso del padrone; agli schiavi era fatto divieto di reagire in qualsiasi modo o per qualsiasi motivo nei confronti di un bianco; i bianchi potevano esercitare qualsiasi autorità o diritto sulla loro “proprietà” (gli schiavi); agli africano-americani era fatto assoluto divieto di portare armi di qualsiasi tipo; agli schiavi era fatto divieto di associarsi ad altri, bianchi che fossero o africano-americani; nessuno schiavo poteva imparare a leggere o scrivere; gli schiavi non potevano praticare la loro religione e se aderivano alla religione cristiana non potevano avvalersi di predicatori che non fossero bianchi; se liberati, gli africano-americani avevano l’obbligo di abbandonare il territorio entro un determinato periodo di tempo; dopo l’emancipazione gli ex-schiavi erano obbligati a trasferirsi in Liberia. Oltre a indicare l’alto livello di potere raggiunto dalla classe dei padroni, queste decisioni misero chiaramente in luce anche i timori che serpeggiavano tra i suoi membri.

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Come sistema economico la schiavitù continuò a prosperare, nonostante il ripetersi di rivolte (circa duecentocinquanta, non poche delle quali organizzate, soprattutto negli ultimi anni prima del Proclama di Emancipazione, con la collaborazione delle associazioni abolizioniste). Nelle piantagioni di dimensioni più piccole gli schiavi vivevano e lavoravano a contatto diretto con i loro padroni, subendone o meno la personalità. Ma la maggior parte degli africano-americani viveva all’interno di fondi di vaste dimensioni e abitava nei quartieri destinati esclusivamente agli schiavi. Dall’alba al tramonto, sotto il controllo di guardiani bianchi o di capisquadra africano-americani, essi erano costretti a produrre con la stessa efficienza richiesta ai lavoratori dell’industria. Anche il proprietario di schiavi più esigente, tuttavia, doveva in qualche modo venire incontro alle necessità dei suoi lavoratori, pena il sabotaggio della routine di lavoro. La fuga -anche se per soli pochi giorni- interrompeva i ritmi di lavoro abituali, così come tutta una serie di sotterfugi, forme di sabotaggio, che andavano dal fingersi malati a forme di automutilazione, dagli incendi “accidentali” alla distruzione degli attrezzi o delle macchine da lavoro, ad un comportamento manifestamente e passivamente ostile. Queste forme di resistenza al sistema della piantagione, estremamente diffuse, rivelano il naturale livello di insoddisfazione che regnava tra gli schiavi neri, il loro costante rifiuto verso il sistema delle piantagioni e l’incessante sforzo di affermare valori umani. Alcuni schiavi, occasionalmente, riuscirono anche a raggiungere un certo livello di indipendenza, pur costretti a rimanere parte del sistema; questa possibilità, come già detto, era consentita a chi, specializzatosi in un particolare lavoro manuale, riusciva a svolgere la propria attività nelle città vicine o in piantagioni circostanti, grazie a una crescente richiesta di manodopera di qualità. Oltre ad offrire una remunerazione economica, queste condizioni favorevoli consentivano soprattutto di ottenere una “frattura” psicologica dalla traumatica disciplina imposta dal lavoro in piantagione. La coesione culturale fra gli africano-americani fu perciò uno dei frutti più significativi della violenta politica di coercizione da parte dell’America bianca; quando, dopo il 1865, gli africano-americani poterono partecipare più attivamente alla vita della nazione che li aveva schiavizzati, la loro immediata compattezza e omogeneità culturale apparve la derivazione di una brutale selezione operata dal sistema, talvolta operata sotto le mentite spoglie di un emancipazionismo di facciata.

La comparsa del minstrelsy africano-americano si pose perciò in un momento storico del tutto particolare: da un lato gli africano-americani avevano raggiunto un più solido grado di consapevolezza culturale, se non ideologica. Un grado comunque sufficiente a permettere un’iniziale riappropriazione delle proprie radici culturali e che, con la maggiore libertà di movimento ottenuta in seguito alla Guerra Civile, facilitò la loro maggiore diffusione. E’ in questo periodo che si venne a delineare con maggior vigore quello strettissimo rapporto, in continuo sviluppo, tra Storia e Memoria che caratterizza l’intera cultura africano-americana permettendone, tra l’altro, la costante reinvenzione, la costante riproposizione sotto vesti all’apparenza perennemente mutevoli.

Come fa notare Dena J. Epstein, al momento della comparsa del minstrelsy africano-americano (cui si accompagna, su di un altro piano, la rigogliosa fioritura della musica religiosa africano-americana) il pubblico bianco americano non aveva un’idea esatta del patrimonio rappresentato dalla tradizione musicale africano-americana: la percezione che ne aveva, se pur già sufficientemente diffusa, era mediata radicalmente dal minstrelsy bianco che, pur contribuendo a porre in contatto la popolazione bianca con la produzione artistica degli schiavi e dei loro discendenti, ne offriva una visione irrimediabilmente spuria e distorta: il “minstrel” bianco ofriva al suo pubblico l’opportunità di godere dei frutti (la musica, l’umorismo, la teatralità, l’esotismo) della vita degli africano-americani senza dover patirne gli aspetti negativi: la violenza, lo sfruttamento, la brutalità, la segregazione, i linciaggi.

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Fredrika Bremer

Non era perciò casuale quanto affermava la scrittrice svedese Fredrika Bremer in una lettera scritta da Columbia, nel South Carolina, il 25 maggio 1850: “After this, another young negro, who was not so evangelical as the rest, came and sang with his banjo several of the negro songs universally known and sung in the South by the negro people, whose product they are, and in the Northern States by persons of all classes, because they are extremely popular. The music of these songs is melodious, naive, and full of rhythmical life and the deepest, tenderest sentiment. Many of the songs remind me of Haydn’s and Mozart’s simple, artless melodies; for example, “Rosa Lee,” “Qh, Susannah,” “Dearest May,” “Carry Me Back to Old Virginny,” “Uncle Ned,” and “Mary Blane,” all of which are full of the most touching pathos, both in words and melody. The words, however, are frequently inferior to the music; they are often childish, and contain many repetitions both of phrases and imagery; but frequently, amid all this, expressions and turns of thought which are in the highest degree poetical, and with bold and happy transitions, such as we find in the oldest songs of our Northern people. These negro songs are also not uncommonly ballads, or, more properly, little romances, which contain descriptions of their love affairs and their simple life’s fate. There is no imagination, no gloomy background, rich with saga or legend, as in our songs ; but, on the other hand, much sentiment, and a nai’ve and often humorous seizing upon the moment and its circumstances. These songs have been made on the road; during the journeyings of the slaves; upon the rivers, as they paddled their canoes along or steered the raft down the stream; and, in particular, at the corn-huskings, which are to the negroes what the harvest-home is to our peasants, and at which they sing impromptu whatever is uppermost in their hearts or in their brain. Yes, all these songs are peculiarly improvisations, which have- taken root in the mind of the people, and are listened to and sung to the whites, who, possessed of a knowledge of music, have caught and noted them down. And this improvisation goes forward every day. People hear new songs continually; they are the offspring of nature and of accident, produced from the joys and the sorrows of a child-like race. The rhyme comes as it may, sometimes clumsily, sometimes no rhyme at all, sometimes most wonderfully fresh and perfect; the rhythm is excellent, and the descriptions have local coloring and distinctiveness. Alabama, Louisiana, Tennessee, Carolina, “Old Virginny,” all the melodious names of the Southern States and places there, the abodes of the slaves, are introduced into their songs, as well as their love histories, and give a local interest and coloring not only to the song, but to the state and to the place which they sing about. Thus these songs are like flowers and fragrance from the negro life in those states like flowers cast upon the waves of the river, and borne hither and thither by the wind like fragrance from the flowers of the wilderness in their summer life, because there is no bitterness, no gloomy spirit in these songs. They are the offspring of life’s summer day, and bear witness to this. And if bitterness and the condition of slavery were to cease forever in the free land of the United States, these songs would still live, and bear witness to the light of life, even as the phosphorescent beam of the fire-fly shines, though the glow-worm may be crushed…” (America of the Fifties: Letters of Fredrika, Bremer, Selected and edited by Adolph B. Benson, New York – The American-Scandinavian Foundation. London: Humphrey Milford, Oxford University Press 1924, pagg. 141-143)

Inutile aggiungere che, al contrario di quanto pensa ed asserisce la Bremer, i lavori citati -salvo uno- non erano africano-americani, ma appartenevano al repertorio dei minstrel bianchi, come era facile peraltro capire dalla citazione di alcune ben note pagine di Stephen Foster. E’ ovvio che la situazione sin qui descritta rientrava in un quadro general-generico, in cui non mancavano eccezioni, se non altro per il fascino che manifestamente la musica degli africano-americani esercitava sugli ascoltatori bianchi. A ciò si aggiunga che la diffusione del multi-sincretismo che venivasi via via formando negli Stati Uniti si avvaleva anche del più facile accesso agli strumenti musicali occidentali, grazie alla maggior utilizzazione di manodopera africano-americana nell’ambito dei lavori cosiddetti domestici. Già intorno al 1812 si calcola che nelle più grandi città americane non vi fosse casa medio o alto-borghese in cui mancasse uno strumento, clavicembalo, fortepiano, violino, clarinetto, flauto o chitarra che fosse: gli africano-americani, cui era concesso il permesso di familiarizzarsi con detti strumenti, non mancavano di far valere quelle doti che ormai venivano riconosciute come spiccate e che essi non esibivano soltanto entro il proprio peculiare ambito culturale, ma anche nella crescente e diffusa frquentazione del repertorio popolare bianco e, occasionalmente, del repertorio accademico. Per rendersi conto dell’entità di tale sviluppo basti esaminare i programmi della “Philadelphia Library Company of Coloured Persons”, fondata nel 1833: essi annunciavano un numero cospicuo di concerti, seminari, conferenze e dibattiti. A conferma di tale realtà, una pubblicazione del 1841, “Sketches of the Higher Classes of Coloured Society in Philadelphia, by a Southerner, si diffondeva nel sottolineare quanto, fra gli africano-americani, si nutrisse “universal love of European and white American music e come esso fosse cultivated to some extent -vocal and instrumental- by all.” Sempre a Philadelphia (città che tradizionalmente ospitava ed ospita ancora una vasta comunità africano-americana), fra il 1820 ed il 1830 circa, alcuni fra i più importanti editori musicali, quali Willig, Blake, Klemm e Bacon, pubblicarono numerosi lavori (soprattutto quickstep e marce) di James Hemmenway (1800-1849), un barbiere africano-americano di spiccate doti come compositore (di lui si ricordano lavori come The Philadelphia Hop Waltz  o General Lafayette’s Trumpet March and Quick Step) e, peraltro, direttore di una piccola orchestra (come altri artisti africano-americani coevi quali Aaron J. R. Conner, Edward D. Roland e Isaac Hazzard a Philadelphia, Justin Holland a Cincinnati, William Brady e Walter Craig a New York, Henry F. Williams a Boston o J. W. Postlewaite a St. Louis, quest’ultimo autore nel 1852 di una marcia –St. Louis Greys Quick Step– che anticipava, nelle sezioni a sedici battute, le strutture del ragtime) che si esibiva abitualmente in svariate occasioni e festività sia per la comunità bianca che per quella africano-americana. Hemmenway aveva fatto inoltre parte di una fra le prime e più apprezzate bande africane-americane, quella di Matthew “Matt” Black, formatasi nel 1813. Dello stesso gruppo probabilmente faceva parte anche Francis “Frank” Johnson, che doveva diventare uno fra i più apprezzati cornettisti e direttori di banda degli Stati Uniti, e del quale Hemmenway divenne il sostituto.

Music_Masters_7029_YJohnson era probabilmente un meticcio: nato nel 1792 aveva dimostrato un notevole quanto precoce talento musicale, all’inizio sviluppato da autodidatta e poi, di fronte all’evidenza di una predisposizione affatto fuori del comune, affidato ad insegnanti sia bianchi che africano-americani. Fino al 1820 egli si esibì, e con successo, soprattutto come violinista, pubblicando nel 1818 le sue prime composizioni, raccolte sotto il titolo “A Collection of New Cotillions” (ed in cui spicca una pagina sapida come Philadelphia Firemen’s Cotillion). Nel 1821 fondò la “Coloured Black Band”, in cui si esibiva come direttore e cornettista, affiancato da ottavino, tamburo basso e grancassa. Nel giro di pochi anni il gruppo si ingrandì sino ad includere almeno venticinque strumentisti, spesso integrati da un nutrito gruppo d’archi, avvalendosi inoltre della partecipazione di apprezzati musicisti come i fratelli William e Joseph Appo o come il già citato A. J. R. Conner (autore di lavori come Victoria Galop, “Evergreen Polka, “The Mallet (or Stop) Waltz, “Valse a Cinq Temps; quest’ultimo, appartenente al genere del cosiddetto five step, è interessante per l’uso -originale per l’epoca- del tempo in 5/4). Intorno al 1820 l’orchestra di Johnson venne ingaggiata persino dai Philadelphia State Fencibles, un gruppo sociale bianco da cui non pochi soci si dimisero per protesta; inutilmente, però, perché la novità rappresentata dalle musiche di derivazione africano-americana eseguite dal complesso fu così ben accetta da spingere altri gruppi sociali o club bianchi ad utilizzare orchestre di africano-americani per le proprie manifestazioni spettacolari. Non solo, ma le musiche scritte da Johnson per tali occasioni venivano regolarmente pubblicate e poste in vendita dai principali editori musicali bianchi. Nel 1824 la “military band” di Johnson, composta da dieci musicisti, tutti africano-americani liberi (Joseph G. Anderson, Aaron J. R. Conner, Isaac Hazzard, James Hemmenway, William e Joseph Appo, due fratelli di cognome Newton e Edward De Roland) partecipò a Philadelphia, con notevole successo, ad una opulenta produzione al The Circus (oggi Walnut Street Theatre) di un esotico melodramma equestre coloniale inglese presentato a Londra un anno prima, Cataract of the Ganges: or, the Rajah’s Daughter di William Thomas Montcrieff. Lo spettacolo, sontuoso per costumi e scenografie, era dedicato alla politica inglese in India e alla lotta all’infanticidio femminile: le musiche di scena erano state scritte dallo stesso Johnson (che ottenne un personale successo per la March in the Cataract of the Ganges), un fatto del tutto fuori del comune per un artista africano-americano e che stava a dimostrare come la tradizione musicale africano-americana non solo stesse penetrando nella cultura americana, non solo riuscisse a infrangere le dinamiche repressive di natura razziale ma si ponesse come rappresentante primaria della nascente società africano-americana. A tal punto si diffuse la fama del musicista che nel 1839 il “Detroit Free Press” affermò: It may be said without fear of contradiction, that as a composer or musician, he stands without rival in the States. Ogni estate l’orchestra di Johnson, superate le iniziali quanto prevedibili proteste di parte della popolazione bianca, si esibiva con straordinario successo a Saratoga Springs, nello stato di New York, dove l’alta borghesia newyorkese trascorreva l’estate al riparo della calura. Nonostante molti musicisti bianchi rifiutassero di riconoscere la maestria strumentale di Johnson (cui veniva opposto il talento di Richard Willis, direttore della banda militare dell’Accademia di West Point e, probabilmente, il maestro dello stesso Johnson), la sua orchestra venne a costituire una fra le più apprezzate e richieste attrazioni dall’alta borghesia bianca non solo di New York, ma anche di Detroit, Buffalo e Toronto, un fenomeno che peraltro ha a lungo contraddistinto anche i primi decenni di storia del jazz, quando nei locali di Harlem si accalcavano i bianchi più benestanti, così ben descritti da Carl Van Vechten.

Nel 1837, con i fondi raccolti nel corso di un gala cui parteciparono le massime autorità cittadine, Johnson e il suo complesso (la Philadelphia Military Band con William Appo, Aaron J. R. Conner, Edward Roland, Francis Seymour) si imbarcarono per un’applaudita tournée inglese, nel corso della quale si esibirono in una sala di Regent Street a Londra e per la regina Vittoria, da poco ascesa al tronco, cui venne dedicata la già menzionata Victoria Gallop. Nel 1838 Johnson fece ritorno negli Stati Uniti, nelle cui metropoli settentrionali si esibì nel corso di un’applaudita tournée. Nel corso delle sue esibizioni in Europa aveva avuto modo di conoscere ed apprezzare la musica di Johann Strauss, che introdusse negli Stati Uniti; inoltre, a Parigi aveva assistito ai cosiddetti promenade concerts, in cui un’orchestra si esibiva in un repertorio prevalentemente popolare per un pubblico non obbligatoriamente assiso, intento anche ad altre attività di natura sociale. Johnson riversò tale idea in quelli che a Philadelphia presto divennero conosciuti come Johnson’s Promenade Concerts, tenuti regolarmente da fine dicembre a fine febbraio, tre volte a settimana, dal 1838 al 1844, anno della morte del musicista. Nel corso di tali esibizioni, tra i 2000 e 3000 astanti pagavano venticinque cent a testa per ascoltare musiche di Balfe, Bellini, Boïeldieu, Strauss, Auber, Meyerbeer e di autori africano-americani come i già citati James Hemmenway, William Appo e A. J. R. Conner, come Edward Roland, James Brady, Isaac Hazzard e, naturalmente, Johnson. Quest’ultimo, il 23 dicembre del 1843, diresse quello che Eileen Southern ha giustamente definito Philadelphia’s first integrated concert -undoubtedly the first in the United States, in cui taluni fra i più noti musicisti bianchi della città si unirono all’orchestra di Johnson nel corso della presentazione di un Grand Concert of Vocal and Instrumental Music. In precedenza lo stesso Johnson aveva diretto la propria compagine e i 150 membri della Colored Choral Society of Philadelphia in un oratorio presentato in alcune chiese protestanti bianche e in altre appartenenti alla African Presbyterian Church.

Stewarts_1884Aug-SepDopo la morte del fondatore (autore anche di composizioni chiaramente ispirate da problematiche sociali e razziali come Recognition March on the Independence of Haiti e The Grave of the Slave), l’orchestra, pur senza lo stesso successo, continuò la propria attività sotto la guida di A. J. R. Conner, assieme a William Appo, Peter O’Fake, Henry R. Williams e i banjoisti Justin Holland e Horace Weston. William (1808-19 gennaio1880) e Joseph Appo, due eccellenti musicisti e cantanti, lavorarono con i migliori complessi musicali di Philadelphia, come la Walnut Street Orchestra, Baltimore e New York; Peter O’Fake, flautista e chitarrista (in origine era barbiere) di Newark nel New Jersey, oltre a lavorare fino a circa il 1850 con l’orchestra di Johnson (per poi diventare fra i più apprezzati insegnanti di musica nella sua città natale, nonché impresario e direttore della “Celebrated Cotillion Band”), si era dimostrato così abile da meritarsi un posto nell’orchestra di Louis Antoine Jullien, direttore d’orchestra e compositore francese, editore ed eccellente press-agent di se stesso, organizzatore dei primi grandi concerti popolari in Inghilterra e negli Stati Uniti, in cui si esibiva a capo di un’apprezzata orchestra che eseguiva e talvolta rielaborava i grandi classici sinfonici europei per quel pubblico che di solito veniva escluso dagli eventi culturali; Henry F. Williams, violinista, cornettista e compositore nato nel 1813, proveniente da una famiglia della nascente borghesia africano-americana di Boston e diplomatosi al New England Conservatory, dopo l’esperienza con l’orchestra di Johnson, tornò nella propria città ad insegnare e comporre (alcuni suoi lavori vennero pubblicati da Oliver Ditson). Nel 1872 fece parte dell’orchestra di oltre 2000 strumentisti creata ed organizzata da Patrick Gilmore appositamente per il “World’s Peace Jubilee” a Boston; Horace Weston, nato nel 1825 da un insegnante di musica del Connecticut, divenne uno fra i più apprezzati banjoisti americani e un protagonista del mondo del minstrelsy africano-americano: dopo la Guerra di Secessione entrò a far parte di uno storico gruppo minstrel africano-americano, i “Georgia Minstrels”, con cui si esibì anche in Europa. Strumentista virtuoso e compositore sofisticato (come provano composizioni quali Horace Weston’s Home Sweet Home, Horace Weston’s New Schottische, Horace Weston’s Old-Time Jig, The Egyptian Fandango, Weston’s Great Minor Jig), fu fra le principali attrazioni della versione teatrale di “Uncle Tom’s Cabin”; Justin Holland, nato nel 1819 in Virginia e morto nel 1886 a Cleveland, chitarrista di eccezionale rilievo, grazie al suo straordinario talento poté studiare all’Oberlin College di Boston, stabilendosi poi a Cleveland, dove lavorò per molti anni come insegnante e come arrangiatore per l’editore musicale Brainard, ottenendo fama nazionale anche come attivista per i diritti civili.

Al di là dei singoli talenti, già prima della Guerra Civile era possibile riscontrare un’incrementata attività pubblica da parte di artisti africano-americani: marching-band come la Sam Dixon’s Brass Band di Newburgh, New York (nota anche per l’uniforme dei suoi componenti: giacche rosse e pantaloni gialli), la già citata Hazzard Band di Philadelphia (la più apprezzata compagine di colore dopo quella diretta da Frank Johnson), la Virginia’s Richmond Blues Brass Band, la Robert’s Band, la Scioto Valley Brass Band, la Union Valley Brass Band, queste ultime tre dell’Ohio, confermavano quanto avrebbe affermato l'”American Art Journal”: … forty years ago nearly every regimental band in New York was composed of black musicians (“American Art Journal” n. 39, 19 maggio 1883, cit. in Dena J. Epstein, “Sinful Tunes and Spirituals: Black Folk Music to the Civil War”, University of Illinois Press, Urbana 1977, pag. 160).

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Thomas Wiggins Bethune

La situazione era certamente diversa negli Stati del sud, dove un musicista africano-americano per poter godere della pur minima possibilità di emergere professionalmente doveva essere forzosamente di straordinario livello, essendo egli la negazione vivente del mito propagandato che gli uomini di colore fossero poco più di minorati mentali. Ciononostante, molti reggimenti militari bianchi utilizzavano musicisti neri per le loro bande e taluni artisti africano-americani poterono godere di una certa fama, come Thomas Wiggins Bethune o Thomas GreeneWiggins Bethune (il cui cognome derivava dal colonnello James Bethune, che lo aveva acquistato assieme alla madre nel 1849, in Georgia, per lavorare nelle proprie piantagioni), pianista cieco di ottima tecnica e di eccezionale memoria (pare conoscesse oltre 7000 composizioni, di cui non poche erano sue, come Battle of Manassas, del 1861) che, fino alla morte, nel 1909, si esibì in tutti gli Stati Uniti, come Blind Tom Bethune, interpretando sia il repertorio popolare che quello colto: le sue doti musicali fuori del comune non gli vennero mai pienamente riconosciute: essendo un africano-americano e, perciò, per definizione, inferiore e incapace di talento, le sue qualità di autore e interprete passarono per le manifestazioni di un “idiot savant” miracolosamente “invasato” dal Signore o da misteriose, inusitate e sconosciute forze psichiche.

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Elizabeth Taylor Greenfield

Elizabeth Taylor Greenfield, detta “The Black Swan (“il Cigno Nero”), dotata di un talento certamente più “tradizionale” di quello di Bethune, fu invece la prima cantante africano-americana ad avere riconoscimenti sia nazionali che internazionali. Nata nel 1809 nel Mississipi e portata a Philadelphia ancora bambina, vi venne adottata da una famiglia quacchera di nome Greenfield. Dotata di uno spiccato talento musicale, ricevette un’istruzione in grado di permetterle di affinare le proprie doti. Iniziò a cantare professionalmente assai tardi, nel 1851, esibendosi soprattutto negli Stati del nord, per sole platee bianche, con programmi che comprendevano brani di Händel, Donizetti e Bellini. Nel 1853, pur tra svariate peripezie (venne praticamente truffata dal proprio agente), si esibì in Inghilterra, grazie anche all’interessamento di Harriet Beecher Stowe (che era a Londra sull’onda del successo ottenuto da “Uncle’s Tom Cabin), ottenendo grandi successi. Il suo ritorno fu certamente meno trionfale: negli Stati Uniti erano ancora pochi i sostenitori di una cantante di colore che poteva gareggiare in bravura con la bianca, ed allora popolarissima, Jenny Lind. La Greenfield si ritirò perciò dalle scene, dedicandosi -peraltro con non minore successo- all’insegnamento ed allevando così una promettente, nuova generazione di cantanti africano-americani.

(continua)

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Warren Vaché & Henry Allen swingano su Limehouse Blues

Un po’ di classico jazz mainstream da proporre ogni tanto non guasta, specie se a proporlo sono due maestri del genere quali il trombettista, cornettista e flicornista Warren Vaché (nato il 21 febbraio 1951 a Rahway, nel New Jersey) e il sassofonista tenore Harry Allen (nato il 12 ottobre 1966 a Washington, DC).

Vaché proviene da una famiglia di musicisti, con il padre che era un contrabbassista jazz e il fratello Allan anch’egli musicista, e spesso lo si ritrova in coppia con Scott Hamilton, altro eccellente sassofonista di analoga scuola mainstream.

Allen invece fu riconosciuto già al liceo come un talento eccezionale in grado di suonare nello stile di tenori come Coleman Hawkins, Ben Webster e Flip Phillips, ma anche risentendo dell’influenza timbrica di Stan Getz. E’ riconosciuto come uno dei migliori esponenti odierni del tenore swing, dotato di un fraseggio fluido e di eccellente tecnica strumentale. Lo si può riscontrare in questa splendida versione di Limehouse Blues che ho rintracciaro in rete e che merita senz’altro un attebto ascolto.

Buon fine settimana

Bennie Moten e le origini dello stile a riff di Kansas City

Benjamin ” Bennie ” Moten (13 novembre 1894 – 2 aprile 1935) è stato un un pianista e un big band leader sin dagli albori del jazz orchestrale, nato e cresciuto a Kansas City, Missouri. Ha diretto la Kansas City Orchestra, la più importante delle orchestre regionali a fortissima base blues attive nel Midwest negli anni ’20 e ha contribuito a sviluppare lo stile a riff che sarebbe arrivato a definire molte delle big band degli anni ’30, con particolare riferimento a quella di Count Basie.

Moten ha iniziato a fare musica fin dalla tenera età e si è formato come pianista riunendo altri musicisti in una band. Le sue prime registrazioni furono fatte per la OKeh  nel settembre 1923 e furono interpretazioni in stile New Orleans con una forte impronta ragtime, ancora molto popolare nella zona.

Moten firmò un contratto per la Victor Records nel 1926, nelle cui registrazioni si coglie una certa influenza del sound orchestrale di Fletcher Henderson, ma con un senso del ritmo più “hard”, approccio molto popolare a Kansas City. La band continuò ad essere una delle orchestre più famose dell’etichetta fino al 1930. La loro canzone Kansas City Shuffle fu registrata durante questo periodo.

Una delle più celebri canzoni registrate per Victor dall’orchestra fu South, nel 1928, (che a sua volta era un remake della prima versione su OKeh della fine del 1924), tanto che rimase a lungo in catalogo, diventando un grosso successo negli anni ’40. Nel 1928 il pianismo di Moten mostrava influenze dal boogie woogie, ma la vera svolta ritmica nella sua orchestra (e non solo) arrivò nel 1929, con la presenza di nuovi elementi del calibro di  Count BasieWalter Page, Oran ‘Hot Lips’ Page e Jimmy Rushing come cantante. Le linee di basso di Walter Page hanno dato alla musica una impronta completamente nuova, più moderna, rispetto alla classica scansione dell’epoca in 2/4 dettata usualmente dalla tuba, creando insieme a Basie quel caratteristico sound che per decenni ha poi caratterizzato le big band del Conte e, più in generale, l’eccitante approccio ritmico delle orchestre dello Swing.

Tra le molte tracce di valore che si potrebbero citare realizzate dall’orchestra, oltre a quelle già indicate, si possono aggiungere Toby, Prince of Wails, il celeberrimo Moten Swing  e New Orleans con la presenza del cantato di Jimmy Rushing.