La Bellezza Nera narrata in musica dal Duca

Credo che l’importanza di una figura musicale come quella di Duke Ellington non sia stata ancora compresa a fondo, specie tra i tanti jazzofili dell’ultima ora che pensano di poter comprendere il jazz saltando a pié pari il periodo del jazz pre be-bop. Al di là del fatto che si sta parlando di una figura trasversale agli stili e praticamente senza tempo, occorre persino precisare che la sua collocazione in ambito esclusivamente jazzistico, per quanto importante, gli stia stretta. Ellington è uno dei massimi geni musicali comparsi nella musica americana e del Novecento, ben oltre perciò l’ambito jazzistico.

Tra i tanti diversi aspetti del musicista, big band leader e compositore rivestiti dal Duca, uno dei più trascurati o sottostimati per molto tempo è stato quello di pianista. Strumentista di chiara derivazione e influenza “stride”, Ellington risulta molto raramente in incisioni non orchestrali o in combo, e si è concentrato raramente (ma anche splendidamente) in incisioni in trio e meno ancora in piano solo, accelerando in tale veste nell’ultimo suo periodo di carriera. Una delle prime occasioni in piano solo, si rintraccia in un paio di incisioni della fine anni ’20. Tra queste, mio fratello Edoardo si è focalizzato su Black Beauty, caratterizzata da una raffinata melodia, tipica dello stile ellingtoniano. Riporto di seguito la breve presentazione di Edoardo.

R.F.

“Black Beauty” è una composizione jazz del 1928 di Duke Ellington. la composizione è nata come un pezzo per pianoforte solista che Ellington suonava al Cotton Club alla fine degli intermezzi, poco prima che i membri della sua band tornassero sul palco. Dopo aver orchestrato e inciso il brano nel marzo dello stesso anno, ha deciso di intitolare il pezzo “Black Beauty” dedicandolo alla cantante, ballerina e comica Florence Mills, morta l’anno precedente. Sei mesi dopo il Duca registrò questa versione in piano solo, che ritengo sia un capolavoro di sintesi espressiva. Buon ascolto.

Edoardo Facchi

Cialtronerie jazz e la democrazia della rete

E’ ufficiale: in un paese sempre più marginale politicamente ed economicamente, provinciale oltre ogni dire, tendente al degrado sociale, culturale e intellettuale ormai quasi irreversibile, alla continua, spasmodica ricerca di “eccellenze” vere, presunte o false che siano, il vento reazionario messo in atto da un sovranismo e nazionalismo cialtrone che ci pervade da tempo pare aver colpito anche il mondo del jazz italiano, probabilmente senza la consapevolezza di molti. E si badi bene, non si sta parlando di certi incolti elettori della Meloni o di Salvini, che almeno hanno la giustificazione di fregarsene del jazz (e della “musica di negher“, come direbbe un valligiano leghista delle mie parti assolutamente assente di nozioni sul tema, in fondo sbagliando molto meno di certa sedicente musicologia nostrana) ma proprio di gente che si dichiara “di Sinistra” dai tempi di Matusalemme e dice di acculturarsi in materia.

A scadenza ormai periodica sui social qualche estimatore del Renzo Arbore in versione jazzista e musicologo de noantri riprende il tormentone della presunta italianità del jazz.

Certe manipolazioni storiche e culturali che prendono piede e si cercano di fare in questo paese sul tema da troppo tempo, paiono persino simili a fenomeni come il negazionismo, o il terrapiattismo, che cercano non a caso di costruire fantomatiche tesi scientifiche a sostegno raccattate da stravaganti personaggi in cerca di visibilità che si spacciano per “esperti”. Tra l’altro, al di là del risibile merito della questione posta, vi è un evidente errore di impostazione nel metodo di ricerca (si fa per dire…), ovvero, si parte da una idea e si cercano nella realtà storica solo ed esclusivamente i fatti che la confermino, arrivando cioè alla fine ad una deduzione apparentemente coerente, ma che dà della realtà solo una sua rappresentazione. Non è la stessa cosa, ovviamente, anche se bisogna ammettere che viviamo in una epoca in cui le rappresentazioni della realtà sono considerate esse stesse realtà. Un errore che uno scienziato o un ricercatore autentico non farebbe MAI, ma che è tipico di un certo approccio ideologico non a caso associabile a chi è cresciuto imbevuto della cosiddetta “cultura di Sinistra”, peraltro malamente masticata.

Vogliamo dire una buona volta che l’idea della “italianità del jazz” è una delle cose più prive di senso (per non dire imbecilli) che si siano mai lette intorno al jazz in questo paese? E non stiamo certo parlando di poche fesserie dette storicamente sul tema. Pare evidente che, più in generale, non si abbia la minima nozione dei requisiti del processo formativo ed evolutivo di un linguaggio, men che meno quello messo in atto dal jazz nel corso della sua ormai lunga storia.

Che ci sia stata anche la presenza della cultura italiana e ci siano stati tanti italo-americani che abbiano dato un contributo di rilievo al jazz, nessuno lo ha mai negato, è un dato di fatto, ma significa poco o nulla, specie se si vogliono sottendere e divulgare subliminalmente agli ignari tesi a dir poco sbilenche sulla presunta proprietà italiana del jazz. Se è per questo – lasciando perdere il maggioritario contributo degli afro-americani al jazz che è indiscutibile – la percentuale, ad esempio, di musicisti di origine ebrea e della relativa cultura presenti nella storia del jazz sino ai giorni nostri è incomparabilmente superiore a quella italiana e l’elenco oltre ad essere lungo mostra nomi di primissimo rilievo. Eppure non si sono mai lette certe teorie revansciste. E che dire della componente “latin” presente sin dalle origini e seconda forse solo a quella afro-americana? Se poi si utilizza il dilettante e marginale (definito giustamente da Joachim Ernest Berendt nel suo Libro del Jazz in possesso “del suono di un trombettista da circo”) Nick La Rocca e la relativa emigrazione italiana negli Stati Uniti avvenuta tra fine Ottocento e inizio Novecento per datare la nascita del jazz, oltre a far sorridere, si fa un errore ancora più grossolano. Solo chi non conosce la storia degli eventi legati alla complessa formazione di un linguaggio come il jazz può partire da quella circostanza. Men che meno ha valore la considerazione del primo disco jazz registrato dalla O.D.J.B. di La Rocca, datato 1917: il jazz si stava già formando in precedenza e ben si sa che negli studi di registrazione non potevano entrare formazioni “nere” già ben attive all’epoca, per evidenti problemi razziali. Peraltro, occorrerebbe constatare anche che “italo-americano” non significa automaticamente “italiano”, specie se lo si è da diverse generazioni, poiché l’italo-americano ha già risentito dell’influsso di un ambiente diverso rispetto all’originario e di culture “altre”. Se chiedete oggi ad un afro-americano se si sente americano o africano, sapete bene come potrà rispondervi.

L’Italia e la sua cultura hanno dato un loro contributo alla formazione del jazz. Punto. Non vi è altro da aggiungere o dedurre, poiché in un processo non lineare come quello di una formazione di un linguaggio la somma dei contributi non spiega il tutto, senza contare gli imprescindibili condizionamenti dall’ambiente sociale, culturale e persino climatico-geografico in cui viene a formarsi il linguaggio. Tanto per essere chiari: la miscellanea degli stessi ingredienti se fosse stata presente in Europa (ma non è comunque stato così) avrebbe dato vita a qualcosa forse di analogo ma certamente diverso.

Parlare di “italianità del jazz” è come, per fare un esempio eclatante, parlare di “messicanità” della pizza napoletana, in quanto l’ingrediente pomodoro ha origine da quelle parti. Se vogliamo far sbellicare dalle risate i pizzaioli napoletani, facciamo pure, ma la cosa è assolutamente priva di senso. Questo è il genere di operazione che purtroppo si sta facendo col jazz, una operazione che, ovviamente, fuori dai nostri confini non viene minimamente presa sul serio.

Riccardo Facchi

Il jazz e gli spinelli…

Spinelli. Il termine “Muggles“, titolo di questo strepitoso brano, si riferisce all’uso della parola medesima come termine gergale tra i musicisti jazz degli anni ’20 e ’30 per “sigarette di marijuana”, che all’epoca era legale nella maggior parte degli stati americani. Pare che Louis Armstrong sia stato un utente entusiasta della stessa. Al d la di questo pettegolezzo, il brano è considerato una pietra miliare del jazz classico. Stavolta però i protagonisti sono due. Oltre la mirabile tromba di Satchmo qui è lo stile pianistico percussivo e originalissimo del grande Earl “Fatha” Hines, il tanto declamato “trumpet style” (cioè stile-tromba), per indicare l’incedere della parte solistica di piano simile agli assoli di tromba per intensità e scelta delle note. Già ben più celebrati critici hanno scritto fiumi di parole su questo brano, Gunther Schuller per tutti. Al di là di ciò, basta chiudere gli occhi e ascoltare per sentire tutta la magia allucinogena di questa sublime musica.

La formazione:Louis Armstrong (tromba)/ Fred Robinson (trombone)/ Jimmy Strong (clarinetto)/ Earl Hines (piano)/ Mancy Carr (banjo)/ Zutty Singleton (batteria) // Chicago, 7 dicembre 1928 // OKEH

Edoardo Facchi

I colori cangianti della musica di Mingus

Se dovessi ancora oggi indicare ad un neofita un singolo nome, una figura massimamente rappresentativa di cosa sia il jazz e cosa lo differenzi da tutti gli altri generi musicali, probabilmente alla fine indicherei ancora il nome di Charles Mingus e per varie ragioni, non solo strettamente musicali.

Un autentico emblema di questa musica per quel che mi riguarda, molto più rappresentativo degli acclamati e iper inflazionati Miles Davis e John Coltrane. Lo dico a chiare lettere, per quanto ami i due nomi appena fatti, non meno del contrabbassista di Nogales, la complessità, l’ampia visione, la ricchezza e il contenuto espressivo della musica di Mingus non hanno paragoni, se non forse risalendo al suo massimo referente, ossia Duke Ellington. Credo cioè che per essere completamente compresa essa richieda conoscenze jazzistiche (e della relativa, articolata, tradizione culturale) molto più profonde e ciò forse spiega una certa attuale trascuratezza nella valutazione della sua opera.

Non è un caso che buona parte degli appassionati e della critica attuale, per lo più proveniente dagli anni giovanili dal mondo del rock, propendano più per citare spesso Coltrane e Davis piuttosto che Mingus. In un certo senso il percorso dal rock alla musica dei due grandi è in qualche modo più logico e naturale, ma di fatto non esaurisce il livello di conoscenze che bisogna coltivare per comprendere anche la musica di Mingus, che è un vero e proprio caleidoscopio di umori e influenze culturali, ricchissima di riferimenti che vanno anche oltre le radici del blues della church music, di New Orleans, di Duke Ellington e tanto altro ancora, sconfinando in abbondanza nelle culture latine (da noi inspiegabilmente trattate con sufficienza, se non proprio snobbate), quella messicana in particolare, e ovviamente anche nei grandi compositori accademici del Novecento, da lui affrontati sin dal livello formativo.

Dal mio personale punto di vista, la musica di Mingus esprime l’essenza stessa del jazz, in cui tradizione e innovazione, composizione e improvvisazione, complessità e arditezza nelle dinamiche scelte strutturali convivono perfettamente, il tutto condito con una capacità espressiva e comunicativa che ha pochi eguali. Musica che non risulta mai datata e che ad ogni ascolto permette di scoprire sempre qualche nuovo dettaglio precedentemente sfuggito, qualche angolo nascosto.

Per meglio rappresentare in musica questo articolato concetto appena espresso, credo che la scelta di un brano come Orange Was The Color of Her Dress, Then Silk Blue sia quanto mai adeguata. Di questo lungo brano di particolare complessità e sofisticazione strutturale, Mingus ne ha dato parecchie versioni, tutte molto belle e mai esattamente uguali nel loro sviluppo esecutivo. Pur essendo un brano concepito per una band, la sua prima incisione discografica, se non erro, risale a una versione in solo piano registrata nel giugno 1963 per l’album Mingus Plays Piano, per poi darlo abbondantemente in pasto al suo gruppo in tante eccellenti versioni live del suo celebre tour europeo primaverile dell’anno successivo, affrontato con il sestetto/quintetto con Eric Dolphy. Tuttavia, a mio parere la sua versione migliore e più ardita, o comunque quella che spiega meglio di tutte i concetti su espressi, è forse contenuta in Changes Two, del 1974.

Questa versione contiene una tale varietà di situazioni, di cambi di metro e di ritmo, di umori, di influenze e di citazioni inserite con grande coerenza musicale, credo difficili da riscontrare in tutta la discografia jazz. Il tutto “raccontato” (perché di un vero racconto in musica si tratta) nel giro di una quindicina di minuti. Ci sono momenti di improvvisazione libera e collettiva, di swing indiavolato, di strepitose sezioni in ritmi latin (il Messico compare con insistenza nella musica di Mingus) e persino funk. Si citano direttamente o indirettamente atmosfere ellingtoniane (si noti in particolare la ricchezza quasi orchestrale nella gestione del quintetto che ne rende “pieno” il suono complessivo), accennando al contrabbasso il Lover Man di Charlie Parker. Insomma, vi si rileva in sintesi quasi l’intera storia del jazz. E che dire delle prestazioni individuali? Don Pullen ispirato e in forma smagliante (pianista inspiegabilmente sottostimato), la voce sassofonistica intensa e massimamente espressiva di George Adams, in cui si colgono le influenze di un Ben Webster, via Archie Shepp, ma anche un timbro strumentale prossimo a un Pharoah Sanders, il tutto modellato in un suono personale e sempre riconoscibilissimo. Non si può poi non lodare l’intesa e l’affiatamento raggiunto dal gruppo condotto magistralmente dal telepatico rapporto tra Mingus e Dannie Richmond che coordinano da par loro il “traffico” ritmico e metrico imposto dalla ardita concezione strutturale del pezzo. Una delizia per le orecchie e per lo spirito. Un capolavoro assoluto.

Riccardo Facchi

Ornette Coleman in solo – Jazztage, Berlin, 1971

Nel giorno in cui ci viene comunicata la scomparsa di uno delle figure più rappresentative del pianismo jazz dell’ultimo mezzo secolo (considerando anche l’ambito compositivo) come Stanley Cowell, voglio proporvi una autentica rarità riguardante uno dei massimi geni della storia del jazz, ossia Ornette Coleman che si esibisce in solo.

Ritengo Coleman di importanza pari, se non superiore, a figure normalmente oggi più acclamate, come Miles Davis e John Coltrane, soprattutto in termini di influenza, vasta e duratura, in materia di musica improvvisata. Senza trascurare le sue doti di superbo compositore, il cui book di temi è già stato affrontato e consacrato da una pluralità di jazzisti e improvvisatori delle generazioni coeve e successive sparsi in tutto il mondo.

Quello che pareva alla sua comparsa a fine anni ’50 un rivoluzionario e un innovatore senza precedenti, oggi è diventato un classico e peraltro, se si approfondisce l’ascolto della discografia, la sua musica non si è mai realmente discostata dalla profonde e solide radici proprie della tradizione musicale africana-americana, fatta di spiccatissimo senso del blues, della melodia e del ritmo, certamente rivisti sotto una chiave interpretativa più aperta e rinnovata. Non a caso e in questo senso, Coleman ha influenzato anche moltissimi musicisti bianchi, sia americani che europei, ma direi persino in termini universali.

Questo video di una ventina di minuti rintracciato in rete, lo fa apprezzare in solo, inizialmente persino al pianoforte, e coglie perfettamente la chiarezza improvvisativa e la portata linguistica del suo innovativo modo di improvvisare, la cui modernità non pare minimamente attenuarsi nel tempo. Buon ascolto e buon fine settimana.

Dippermouth Blues o Sugar Foot Stomp?

l blues della bocca da mestolo. Le registrazioni della Creole Jazz Band di King Oliver del 1923 sono pietre miliari del jazz. Il luogo delle incisioni è Chicago, ma lo stile musicale è in perfetto stile New Orleans, caratterizzato dalla combinata e simultanea improvvisazione di tutti i fiati (improvvisazione polifonica), senza che nessuno degli strumenti sia prevalente sull’altro. Il brano è il famosissimo Dippermouth Blues, il cui autore ufficiale è il band leader Joe Oliver detto “King” in quanto ritenuto il migliore trombettista di New Orleans del periodo. In realtà il titolo suggerisce che il vero autore del brano sia Louis Armstrong, dato che uno dei suoi nomignoli era proprio “Dipper Mouth” per la sua abitudine di dissetarsi prelevando acqua da un secchio con un mestolo. Ai tempi Louis poco più che ventenne e seconda tromba della band era già il dichiarato pupillo del leader. Il successo di questo brano andò oltre i suoi tempi per sconfinare nel decennio successivo, quello dell’era dello Swing, grazie ad una nuova versione completamente riarrangiata da Fletcher Henderson nel 1925 sotto il nome di Sugar Foot Stomp, che, ripreso da Benny Goodman negli anni ’30, fu uno dei suoi più famosi successi.

La formazione: King Oliver,Louis Armstrong (cornetta) / Honoré Dutrey (trombone) / Johnny Dodds (clarinetto) / Lil Hardin (piano) / Johnny St.Cyr (banjo) / Warren “Baby” Dodds (batteria) // Chicago, 8 aprile, 1923. Buon ascolto.

Edoardo Facchi

Un battuto standard di Alec Wilder

Moon and Sand è una canzone scritta nel 1941 che ho imparato a conoscere solo quando lo Standard Trio di Keith Jarrett ne eseguì una meravigliosa versione in Standards, vol. 2, ma che gode e godeva già di versioni, sia vocali che strumentali, discretamente numerose, molte delle quali di tutto rispetto. Il tema è attribuito nella sua completezza a ben 3 autori, precisamente Alec Wilder e Mortimer Palitz per le musiche e William Engvick per i testi.

Tra i maestri del songbook americano, Wilder è meno frequentato rispetto a nomi come Porter o Gershwin, ma le sue melodie sono caratterizzate da un umore malinconico che le rende speciali, come in questo caso, e risultano molto apprezzate dai musicisti. Dello stesso anno di pubblicazione, è rintracciabile la versione di Xavier Cugat, considerato uno fra gli artisti che hanno maggiormente influenzato con sonorità latino-americane la musica popolare degli Stati Uniti. Non a caso il brano è preso a tempo di bossa.

Tra le versioni strumentali alcune notevoli suggeriamo quelle di Keith Jarrett, Chet Baker, Kenny Burrell (1 , 2 e 3), Fred Hersch, Caribbean Jazz Project, Steve Kahn, Ellis Larkins, Roland Hanna, Roy Haynes, Frank Strazzeri, Bill Perkins- James Clay, Marian McPartland, Richard Wyands, Tom Harrell & Jacky Terrasson, John Hicks, Eddie Higgins, Dave Liebman, Eddie Bert, Bobo Stenson, Rich Perry, Dave Wilson, Vladimie Shafranov, Stefano Battaglia.

Tra quelle cantate (non eccezionali a dire il vero): Janis Siegel&Fred Hersch, Miranda Sage, Daria, Tracy Vignati, Eileen Farrell.

Metto in evidenza quella di Kenny Burrell arrangiata da Gil Evans da par suo, quella di Keith Jarrett, di cui già accennato, e una curiosa eseguita all’arpa. Buon approfondimento di ascolto.

Count Basie Big Band – live 1962

L’edizione dell’orchestra di Count Basie formatasi dal 1952 in poi, dopo che si era manifestata a cavallo tra fine anni ’40 e inizio ’50 una crisi finanziaria che aveva colpito mortalmente le big band americane provocandone lo scioglimento pressoché integrale, è meno “raccontata” rispetto a quelle dei decenni precedenti, un periodo nel quale si erano formati fior di solisti, divenuti poi campioni assoluti del linguaggio improvvisativo e protagonisti dell’evoluzione verso il jazz moderno.

Tuttavia, dal punto di vista della resa orchestrale, quella seconda edizione dell’orchestra basiana è stata di gran lunga più interessante, più sofisticata e caratterizzata sul piano stilistico della prima, grazie soprattutto a fior di arrangiatori/compositori, collaboratori del leader, presenti tra le fila dell’orchestra. Nomi come Neal Hefti, Ernie Wilkins, Thad Jones, Frank Foster, Frank Wess e, non ultimo, Quincy Jones, che hanno saputo fornire un contributo decisivo al repertorio e soprattutto al sound di quell’orchestra diventato poi di scuola per moltissime big band successive. Peraltro, anche sul piano solistico la band id Basie continuò a sfornare vere e proprie eccellenze, con nomi di tutto rispetto come Eric Dixon, Eddie “Lockjaw” Davis, Thad Jones, Joe Newman, Sam Noto, Al Grey e Jimmy Cleveland,  oltre agli stessi Thad Jones, Frank Foster e Frank Wess, già citati nel ruolo di arrangiatori e compositori.

Per questo fine settimana propongo perciò l’ascolto e l’apprezzamento di un concerto di quell’orchestra – edizione 1962 – che ho rintracciato in rete. La formazione completa prevedeva i seguenti elementi:

Piano: Count Basie Alto Sax: Marshal Royal and Frank Wess; Tenor Sax: Eric Dixon, Frank Foster, Frank Wess; Baritone Sax: Charlie Fowlkes; Trumpet: Al Aarons, Sonny Cohn, Thad Jones, Snooky Young; Trombone: Henry Coker, Quentin Jackson, Benny Powell; Guitar: Freddie Green; Bass: Eddie Jones; Drums: Sonny Payne; Vocal: Irene Reid. Buon ascolto.

I N.O.R.K. e l’abbattimento delle barriere razziali nel jazz

Il “blues singhiozzante” e le barriere razziali. Nel 1923 Chicago era il centro vitale del nascente jazz. Qui suonavano e incidevano dischi sia la Creole Jazz Band di King Oliver, sia un gruppo di giovani musicisti bianchi locali, così innamorati di quella musica proveniente da New Orleans da provare in tutti i modi a imitarla. Fu così che la Friar’s Jazz Society Orchestra fu rinominata New Orleans Rhythm Kings, incorporando gran parte del repertorio della band creola da poco trasferitasi al nord dalla Louisiana. In questo contesto si inserisce questo Sobbin’ Blues registrato a Richlmond (IN) il 17 luglio del 1923 per la casa discografica Gennett, forse nel tentativo di carpire i segreti musicali di questa nuova musica “hot”, fu inserito come “guest artist” (rimpiazzando temporaneamente il pianista Elmer Schoebel che non partecipò a questa registrazione) nientepopodimeno che il già celebre pianista creolo Ferdinand “Jelly Roll” Morton, dando vita alla prima registrazione di jazz “mista” della Storia. Morton era un creolo di pelle chiara, che abitava nel quartiere francese di New Orleans, ma per quei tempi in una nazione come gli Stati Uniti così profondamente razzista e segregazionista tra lui e un “colored” faceva assai poca differenza. Quindi, al di là di questo piccolo evento musicale, questa incisione rappresenta un punto di svolta.

La formazione: Paul Mares (cornetta)/ George Brunies (trombone)/ Leon Roppolo (clarinetto)/ Jack Pettis (sax in do melodico)/ Glen Scoville (sax alto, sax tenore)/ Don Murray (sax tenore)/ Jelly Roll Morton (piano)/ Bob Gillette (banjo)/ Chink Martin (tuba)/ Ben Pollack (batteria). Buon ascolto.

Edoardo Facchi

Jazz e Black Music, facciamo un po’ di chiarezza

Negli ultimi anni si è spesso assistito ad una discussione intorno al tema della attribuzione etnica al jazz e alle sue origini (non uso la parola razza, perché fuori luogo e totalmente inadeguata), o persino nazionalistica, creando fraintendimenti e parecchia confusione. Proviamo allora a fare un po’ di chiarezza.

È noto e consolidato che il jazz si è formato ed è evoluto come un processo linguistico (non lineare), nel quale contributi etnici plurimi (ma dovrei dire più correttamente, culturali), dovuti alla miscellanea di genti e relative culture di appartenenza presenti sullo stesso territorio, si sono nel tempo sempre più intrecciati e interscambiati tra loro, generando una musica in cui alla fine diventa impossbile una ricostruzione puntuale dei singoli contributi di partenza, utilizzando una sorta di “principio di sovrapposizione degli effetti”, (ben noto in ambito matematico e fisico nello studio dei sistemi e processi lineari) di fatto non applicabile ai processi non lineari come quello in questione.

Un discorso di singola attribuzione etnica e men che meno razziale del jazz è perciò privo di senso. Tuttavia, partire dal processo che ha generato il jazz per dimostrare che la cosiddetta black music non esista o non abbia senso identificarla è fondamentalmente sbagliato, in quanto il contributo “nero” al jazz, per quanto essenziale e preponderante, non copre integralmente il più ampio bacino musicale africano-americano e, viceversa, il jazz non è spiegabile solo con quel contributo.

Se dovessi rappresentare graficamente il concetto appena espresso probabilmente dovrei usare diversi insiemi rappresentanti ognuno una cultura musicale contribuente, in cui l’intersezione dell’insieme “cultura afro-americana” col (insieme) “jazz”, per quanto fondamentale, ne coinvolgerebbe comunque solo una parte e, viceversa, il jazz non coinciderebbe con l’intera black music.

Per farla molto breve e in modo esemplificativo, blues, ritmi e poliritmi, negro spiritual, gospel, work song, intensità espressiva, tradizione orale e quant’altro di assegnabile al contributo nero al jazz, non hanno generato il jazz in modo esclusivo. Molta musica nera non è considerabile jazz, per quanto possa essere apparentabile possedendo radici comuni. Inoltre, occorre sottolineare come l’interscambio culturale non impedisce e non ha impedito che altre culture utilizzino le componenti afro-americane e, viceversa, quella afro-americana acceda ad altre culture, come infatti accade ed è accaduto. E’ un fatto storico, se si considera come il nero africano, diventando afro-americano, si sia dovuto adattare e connettersi, generazione dopo generazione, alla dominante cultura americana wasp (e di conseguenza anche europea), penetrandola e fagocitandone a modo proprio i relativi materiali musicali. Viceversa, in modo altrettanto evidente, la cultura bianca, prima americana e poi europea, ha dovuto e potuto fare i conti con quella afro-americana, avviando quel processo evolutivo che ancora oggi prosegue ampliandosi ulteriormente.

Classificazioni o categorizzazioni che non tengano conto di questo genere di considerazioni, nella migliori delle ipotesi non sono corrette, nella peggiore introducono elementi per lo più utili a indirizzare il mercato musicale, oppure meramente ideologici. Perciò la discussione – molto europea – di cui sopra, tesa ad attribuire paternità a singole etnie, nazionalità o regionalismi, non ha praticamente senso e non meriterebbe nemmeno così tanta attenzione. Una discussione dalla quale poi cercare di far scaturire tesi piuttosto “allegre” e grossolane del tipo “il jazz è opera dei siciliani, non degli afro-americani” e cose di questo genere che paiono solo mirare a minimizzare il fondamentale contributo degli africani-americani alla generazione di questa musica. Detto per inciso, non è un caso che questo blog distingua nel titolo il jazz dalla black music.

Che per ciascun musicista la preponderanza della propria cultura di riferimento abbia poi anche influenza sul risultato musicale proposto, non dovrebbe sorprendere più di tanto. Il modo ad esempio di approcciare il blues di un europeo non è esattamente lo stesso di un afro-americano e forse nemmeno di un americano, anche solo per sensibilità, cultura, storia, vissuto e pratica musicale in buona parte differenti. Perciò il risultato finale facilmente potrà suonare differente. L’utilizzo di un linguaggio preteso universale e relativi strumenti comuni (leggasi ad esempio l’improvvisazione) non comporta automaticamente l’identità o l’uniformità dei risultati musicali. Anche nelle lingue parlate esistono diverse pronunce che spesso permettono di riconoscere la provenienza geografica di chi le utilizza.

Una Artetha Franklin, un Ray Charles, un James Brown o uno Stevie Wonder, non sono esempi rintracciabili in Europa, checché se ne dica, come non esistono sassofonisti europei con la pronuncia di uno Stanley Turrentine o di un King Curtis, o pianisti con l’idiomaticità di un Gene Harris. D’altro canto, esistono nella comunità nera figure come Anthony Braxton o Roscoe Mitchell, piuttosto che Tyshawn Sorey, in grado di comporre ed eseguire musica intengrandosi con l’esperienza della musica colta europea. Peraltro, nemmeno un americano come Jarrett è ancora comparso in Europa. Significherà qualcosa tutto questo?

Riccardo Facchi.

The George Gruntz Concert Jazz Band ‎– 1979

Il pianista, compositore e arrangiatore svizzero George Gruntz (Basilea, 24 giugno 1932 – Allschwil, 10 gennaio 2013) è stato un importante protagonista del jazz europeo sin dagli anni ’60, stimato ed utilizzato da grandi improvvisatori americani quali Phil Woods, Rahsaan Roland Kirk, Don Cherry, Chet Baker, Art Farmer, Dexter Gordon, Johnny Griffin e Mel Lewis. In discografia Gruntz presenta alcuni lavori da leader creativi e assai rappresentativi dell’alta qualità raggiunta dal jazz europeo sin dagli anni ’70. Dal 1972 al 1994 ha curato anche la direzione artistica del JazzFest Berlin. George Gruntz ha lavorato molto in ambito orchestrale coinvolgendo nelle proprie orchestre sia musicisti americani che europei e ricevendo diverse commissioni provenienti anche da altre big band. Un modo di procedere che ha portato frutti e progressi preziosi al jazz europeo oggi inspiegabilmente sottostimati. Da molti è infatti ricordato per aver fondato e diretto la George Gruntz Concert Jazz Band.

Proprio in questa veste e in questo formato lo proponiamo oggi in un lavoro datato 1979 in cui si segnalano per l’appunto diversi nomi importanti che qui elenchiamo:

Alto Saxophone, Alto Flute, Soprano Saxophone – Jerry Dodgion; Bass – Mike Richmond; Drums – Elvin Jones; Guitar – John Scofield; Harp – Lois Colin; Keyboards – George Gruntz; Tenor Saxophone, Flute – Lew Tabackin; Tenor Saxophone, Soprano Saxophone, Flute – Alan Skidmore; Tenor Saxophone, Soprano Saxophone, Soprano Saxophone – Bennie Wallace; Trombone – Eje Thelin, Jimmy Knepper, Mike Zwerin, Runo Ericksson; Trumpet, Flugelhorn – Allan Botschinsky, Americo Bellotto, Benny Bailey, Earl Gardner, Franco Ambrosetti, Palle Mikkelborg, Woody Shaw; Tuba, Bass Clarinet, Baritone Saxophone – Howard Johnson.

Il set dei brani è il seguente: 00:00 – 11:31 01 – Destiny 11:31 – 21:00 02 – Morning Song Of A Spring Flower 21:00 – 29:58 03 – Napoleon Blown Apart 29:58 – 42:17 04 – Cinderella Friday Night. Buon ascolto e buon fine settimana.

Alle prese con la dolce Susy

Dolce Susy, solo tu. La storia di Giuseppe e Salvatore in terra d’America. Il lecchese Giuseppe “Joe” Venuti e il molisano Salvatore Massaro in arte Eddie Lang, entrambi figli di emigranti italiani, da bambini erano compagni di scuola e vicini di casa che giocavano nello stesso cortile. Avevano entrambi passione per la musica e iniziarono entrambi a suonare il violino. Joe continuò a suonarlo sino a diventare musicista professionista, Eddie in seguito si dedicò alla chitarra con medesimo successo.

Sto parlando di due grandi del jazz degli Anni Venti, ognuno a suo modo pioniere del proprio strumento. Ciascuno di loro ebbe grande importanza nel creare un lessico musicale adatto a questa nuova musica emergente, così diversa da tutto ciò che si era ascoltato sino allora. Molti musicisti a venire saranno in debito con loro anche se molti di essi li supereranno in fama e gloria, forse anche un po’ ingiustamente. Uno su tutti il violinista Stéphane Grappelli per Joe, e gran parte dei chitarristi swing per Eddie, sino a Django Reinhardt e all’avvento del grande Charlie Christian con la sua chitarra jazz amplificata diversi anni dopo. Il brano che voglio porre all’attenzione è la versione jazz di una popolare canzone scritta nel 1928 da Victor Young e William Harris: Sweet Sue, Just You. Un pezzo semplice che la bravura di quattro musicisti dell’epoca, riuniti nei Joe Venuti’s Blue Four. ha saputo trasformare in un brillante brano pieno di swing. La formazione: Jimmy Dorsey (sax baritono)/ Frank Signorelli (piano)/ Eddie Lang (chitarra)/ Joe Venuti (violino). La regitrazione fu effettuata a New York il 12 novembre 1930. Buon ascolto.

Edoardo Facchi