Una bella versione sassofonistica di Dear Lord

Tra i quartetti di sassofonisti, PRISM è un gruppo che è stato fondato nel 1984 e che si muove per lo più in ambiti di musica contemporanea più che in quello esclusivo del jazz. Ne avevamo gia parlato su questo blog in un apposito articolo che invitiamo a rileggere.

Composto da Timothy McAllister, Taimur Sullivan, Matthew Levy, e Zachary Shemon, il gruppo si è non di rado appoggiato alla collaborazione di alcuni dei più importanti sassofonisti jazz presenti sulla scena contemporanea, come Steve LehmanRudresh MahanthappaMiguel ZenónDave Liebman e Greg Osby. Proprio con questi musicisti PRISM ha registrato qualche anno fa Heritage / Evolution, Volume 1. In quel disco vi era presente una bella versione di Dear Lord di John Coltrane che qui vi propongo in un video live davvero interessante. Liebman e Osby sono protagonisti nella intro improvvisata e nella cadenza finale, mentre nel mezzo è davvero apprezzabile il lavoro timbrico e armonico sul magnifico brano coltraniano esibito dal quartetto, ma notevole è anche l’esposizione al soprano del tema, di una purezza melodica davvero coinvolgente. Buon ascolto e buon fine settimana.

Ran Blake interpreta il Gershwin Songbook

Tra i tanti autori del Great American Songbook riletti dai jazzisti, uno dei più importanti, oltre che dei più battuti, è ed è stato certamente George Gershwin ed è difficile oggi riuscire ancora a sorprendersi nell’ascoltare qualche versione delle sue celebri canzoni. I temi di Gershwin sono sempre stati oggetto delle più svariate riletture, riverenti o risolutamente iconoclastiche, o semplicemente utilizzandone e manipolandone lo scheletro armonico.

Nel caso di un artista autentico ed estremamente colto come Ran Blake (classe 1935) assistiamo a quella rara capacità di entrare nello spirito profondo concepito dall’autore riuscendo al tempo stesso ad esprimere la propria originale poetica e il proprio stile interpretativo. Il pianista del Massachusetts ce ne ha dato prova in quel meraviglioso disco inciso nel 1990 e poi ripubblicato nel 2010 dalla Hatology, intitolato That Certain Feeling, utilizzando anche la maestria di due sassofonsti come Steve Lacy e Ricky Ford che riescono a dare un contributo fondamentale alla riuscita del progetto. D’altronde non c’è da stupirsi, in quanto Blake è noto come uno dei più aggiornati e aperti studiosi viventi del songbook americano, cosa che ho potuto verificare anche nel suo concerto a cui ho potuto assistere qualche anno fa al Teatro Manzoni di Milano, dove dimostrò di saper esplorare magistralmente anche un repertorio di canzoni più recenti, come quelle di Stevie Wonder.

Blake possiede quel modo unico o quasi (certamente influenzato da Monk) di pesare ogni singola nota che fa risuonare, utilizzando lo spazio generato dai suoi silenzi mirabilmente inframezzati tra le note, riuscendo persino a esaltare la già splendida melodia originaria. Tale magia accade in particolare nelle versioni di The Man I Love (dove il contributo dell’inconfondibile soprano di Steve Lacy risulta peraltro decisivo), di Oh Where’s my Bess I, It Ain’t Necessarily So (tratti da Porgy & Bess) e But Not For Me, trovando brillanti idee anche negli altri brani personalizzati con originali divagazioni e inaspettate soluzioni armoniche.

Riccardo Facchi

La breve ma intensa vita artistica di un grande arrangiatore: Gary McFarland

Come ho diverse volte rimarcato su questo blog, il jazz ha goduto di grandi arrangiatori, autentici musicisti completi, che avendo operato per lo più in ambito orchestrale hanno subito una sottostima per non dire un oblio per lo più ingiustificato. Sicuramente ha contato il fatto che il jazz è una musica a forte impronta improvvisativa e probabilmente ha contribuito anche la tendenza del jazz moderno ad andare verso formazioni sempre più ristrette, arrivando al limite delle esibizioni in duo (oggi sin troppo inflazionate) e persino in solo, riducendo così l’esigenza di arrangiamento tra più voci strumentali, come accade necessariamente nelle grandi orchestre. La lista dei nomi che si sono fatti e si potrebbero fare è assai lunga, ma uno dei nomi meno battuti in assoluto anche dagli stessi esperti credo sia quello di Gary McFarland (23 ottobre 1933 – 3 novembre 1971), compositore, arrangiatore, vibrafonista e persino cantante che ha avuto il suo momento di maggior fama tra anni ’60 e ’70. 

McFarland è stato perciò un musicista completo con idee assai innovative in ambito orchestrale, avendo anche registrato per prestigiose etichette jazz come Verve e Impulse! negli anni ’60. La rivista Down Beat ebbe modo di scrivere a tal proposito di aver dato “uno dei contributi più significativi al jazz orchestrale“. Una recente recensione di un documentario in DVD relativo a McFarland lo definì “uno dei più impegnati arrangiatori jazz di New York degli anni ’60“. Egli si è distinto in particolare nella orchestrazione di canzoni in ambito brasiliano, in coincidenza con l’ascesa della bossa nova nei primi anni ’60. In discografia si possono infatti trovare sue importanti collaborazioni con Stan Getz, in Big Band Bossa Nova e come sideman in Trombone Jazz Samba, a nome di Bob Brookmeyer, oltre a sue incisioni da leader in Soft Samba, e Soft Samba Strings, ma la sua produzione documenta una varietà di intenzioni musicali e una preveggente apertura alle contaminazioni linguistiche che oggi sarebbe grandemente apprezzata.

Le sue proficue e rilevanti collaborazioni in qualità di compositore e/o arrangiatore con grandi nomi del jazz non sono poche: Anita O’Day (All the Sad Young Men), John Lewis (Essence), Bob Brookmeyer (Gloomy Sunday and Other Bright Moments), la Concert Jazz Band di Gerry Mulligan (Gerry Mulligan ’63), Gary Burton (The Groovy Sound of Music) a cui si possono aggiungere contributi a lavori per Shirley Scott, Zoot Sims, Gábor Szabó e Steve Kuhn.

Gary McFarland era nativo di Los Angeles, ma è cresciuto a Grants Pass, in Oregon. Oltre ai suoi album e arrangiamenti in ambito jazzistico, si è dedicato anche alla composizione di colonne sonore per i film Eye of the Devil (1966) e Who Killed Mary What’s ‘Er Name? (1971). Verso la fine degli anni ’60, McFarland si stava allontanando dal jazz verso un pop strumentale spesso malinconico, oltre a produrre registrazioni di altri artisti sulla sua etichetta Skye Records (gestita in collaborazione con Norman Schwartz, Gábor Szabó e Cal Tjader) fallita nel 1970. 

Purtroppo all’età di 38 anni, il 3 novembre 1971 – lo stesso giorno in cui ha completato il suo lavoro per lo spettacolo musicale To Live Another Summer; To Pass Another Winter – McFarland è morto improvvisamente a New York al St. Vincent’s Hospital a causa di una dose letale di metadone liquido che aveva ingerito al Bar 55 al 55 di Christopher Street di Greenwich Village. Non si sa se abbia preso il farmaco di proposito o se qualcuno gli abbia addizionato la bevanda; la polizia non ha indagato. 

Alla tragica perdita si aggiunse quella di molto suo materiale discografico a causa dell’incendio che nel 2008 colpì la Universal, impedendone così le possibilità di ripubblicazione. Tra le sue registrazioni da leader ve ne sono alcune di grande interesse e valore spesso con la presenza di grandissimi solisti, come in The Gary McFarland Orchestra: Special Guest Soloist: Bill Evans (1963), in Profiles (1963) e in The October Suite (1967) un prezioso lavoro inciso con Steve Kuhn. Il recente riascolto in particolare di Profiles ci ha fatto tendere l’orecchio su un’eccellente raccolta di composizioni originali di McFarland eseguita live al Lincoln Center da un’orchestra stellare composta da elementi del livello di Clark Terry, Bob Brookmeyer, Zoot Sims, Phil Woods, Richie Kamuca, Richard Davis, Gábor Szabó, Sam Brown. Propongo qui sotto alcune tracce prese dai dischi citati. Meritano senz’altro la scoperta e riscoperta. Buon ascolto.

Sarah Vaughan in concert – Berna 1987

Oggi dedichiamo spazio a un po’ di jazz vocale di un certo livello, proponendo un bel concerto di una tarda Sarah Vaughan (1924-1990) una delle grandi voci femminili della storia del jazz. Il suo timbro vocale di base col passare degli anni si è scurito progressivamente, attribuendogli una impronta unica, calda, sempre riconoscibile dopo poche note. Sul palco la Vaughan mostrava grande presenza e personalità musicale (peraltro era una musicista a tutto tondo essendo anche una valida pianista) nonostante nel privato mostrasse fragilità e insicurezze in apparenza insospettabili.

Questa esibizione europea datata 1987 corrisponde anche al periodo di pubblicazione del suo ultimo album ufficiale, intitolato Brazilian Romance. Nel set di brani proposti, mostra tutta la sua abilità nell’interpretazione personale di celebri standard, sia nelle ballad che ne i brani più swinganti. La formazione è la seguente.

Sarah Vaughan ( 1924-1990 ), Piano George Gaffney (1941-2002), Bass Andrew Simpkins (1932 -1999), Drums Harold Jones (1940). Buon ascolto e buon fine settimana.

Una nuova veste a Basin Street Blues

Che Miles Davis sia stato un genio della musica e uno dei massimi protagonisti della musica improvvisata del Novecento non è certo da scoprire oggi. Fiumi d’inchiostro sono stati scritti in proposito, anche con argomentazioni sin troppo inflazionate. Tuttavia, e per quanto egli abbia saputo creare originali e persino visionari progetti musicali, oltre a sinergie di gruppo quasi irraggiungibili per molti altri, Davis ha saputo cimentarsi in modo originale e creativo anche nella rielaborazione di materiali compositivi noti come gli standard e temi risalenti sino al periodo del jazz classico.

Uno dei dischi che presenta tal genere di materiale è Seven Steps To Heaven, disco di transizione verso il periodo del suo nuovo quintetto, diviso a metà tra nuove composizioni per il quintetto e appunto la rielaborazioni di temi come Baby Won’t You Please Come Home e il Basin Street Blues di cui parliamo oggi. Ovviamente la parte più interessante e creativa del disco riguarda il nuovo materiale registrato a New York, con il giovane Herbie Hancock al pianoforte al posto di Victor Feldman, che invece siede al pianoforte negli altri brani in quartetto registrati precedentemente in California, ma anche questo materiale presenta alcuni spunti di interesse.

Proprio il pianista di origine inglese (di gran talento, occorre chiarirlo) è il co-protagonista nascosto del disco, se si considera che ben due brani registrati dal quintetto senza la sua presenza sono di sua composizione, ovvero il brano eponimo e Joshua. D’altronde è sempre stata ben nota la capacità di Davis di assorbire e assimilare materiale compositivo altrui, se non proprio di appropriarsene (si pensi a Four e Tune up, ad esempio, che erano in realtà composizioni di Eddie “Cleanhead” Vinson). In particolare, in Basin Stree Blues Feldman risulta protagonista e persino più brillante dello stesso Davis, soprattutto in fase di improvvisazione.

Da notare come la sessione californiana fu abbastanza criticata da Ian Carr, autore a suo tempo di una bella biografia di Davis, che rilevò, non del tutto a sproposito, un certo approccio autoindulgente di Davis (proprio quel genere di atteggiamento deteriore che è stato più sfruttato da tante copie sbiadite del suo trombettismo presenti anche sul territorio nazionale) e una non brillantissima qualità nell’accompagnamento di Feldman. Tuttavia, nel suo assolo di pianoforte (inizio a 6:40 del video sotto proposto), Feldman riesce a dare il meglio di sé e a fornire una brillante prestazione solistica, a nostro avviso di molto superiore a quella di Davis nella circostanza, soprattutto sul piano della spinta ritmica e del senso del blues associato alla natura stessa del brano di Spencer Williams, reso celebre da Louis Armstrong.

Accompagnato magistralmente dal contrabbasso di Ron Carter fa esplodere a un certo punto lo swing, utilizzando una serie di block chords e frasi blues, rientrando poi magistralmente alla fine della sua improvvisazione sul tema ripreso dalla tromba di Davis con una serie semplice ma elegante ed efficace di accordi. Merita l’ascolto e il riascolto.

Harold Arlen e l’ape addormentata

A Sleepin ‘Bee (spartito) è una canzone popolare composta da Harold Arlen con testi di Arlen e Truman Capote. Fu introdotto nel musical del 1954 House of Flowers da Diahann Carroll.

La canzone gode di moltissime versioni sia cantate che strumentali, in particolare il tema era tra i preferiti di Bill Evans che ne ha dato diverse versioni registrate. Segnaliamo tra queste quelle presenti in Conversation with Myself, Trio ’64, Bill Evans at The Montreux Jazz Festival e nel cofanetto relativo agli ultimi suoi concerti intitolato The Last Waltz.

Tra le versioni cantate segnalo quelle di:

Tra quelle strumentali, oltre a quelle numerose già citate di Bill Evans segnaliamo quelle di:

Evidenzio la versione da musical e un paio di significative versioni strumentali tra quelle indicate. Buon approfondimento di ascolto.

Cannonball Adderley Quintet feat. Joe Zawinul (Oslo, 1969)

Un paio di settimane fa avevamo proposto la versione per big band europea di Walk Tall, tema di Joe Zawinul ai tempi della sua presenza tutt’altro che marginale nel quintetto dei fratelli Adderley. Oggi proponiamo un estratto di un bel concerto europeo dello stesso quintetto avvenuto nell’ormai lontano 1969 a Oslo in Norvegia. Già dal brano d’esordio Experience in E, composizione di Zawinul, si può ancora una volta apprezzare la forte impronta che il pianista e tastierista austriaco ha saputo dare a quel gruppo, aggiornando di molto quell’idea di hard-bop/soul jazz nella concezione iniziale dei fratelli Adderley di un decennio prima, non solo verso il Funk (come già apprezzato in Walk Tall) ma anche verso il jazz modale prosecuzione naturale delle esperienze davisiane post Kind of Blue e (relativi sviluppi anni ’60) ben presenti sia in Cannonball che in Zawinul.

La produzione discografica dei fratelli Adderley andrebbe approfondita per scoprire un gruppo che ha saputo produrre musica di un certo livello e persino degli spunti innovativi in termini di contaminazione linguistica all’epoca non ben compresi o semplicemente trascurati.

Il set dei brani eseguiti prevede appunto l’iniziale Experience in E, il brano più interessante seguiti dai ben noti Morning of the Carnival, Work Song e Walk Tall, mentre la formazione, peraltro annunciata alla fine dallo stesso Cannonball Adderley è la seguente:

Cannonball Adderely (sax), Joe Zawinul (Piano), Nat Adderley (cornet), Victor Gaskin (bass), Roy McCurdy (drums). Buon ascolto e buon fine settimana.

Cantando il Blues

Singin ‘the Blues è una composizione jazz del 1920 di J. Russel Robinson, Con Conrad, Sam M. Lewis e Joe Young. Fu registrato dalla Original Dixieland Jass Band nel 1920 come brano strumentale e pubblicato dalla Victor come parte di una medley con Margie. La versione cantata fu pubblicata dalla stessa Victor con i testi della cantante Aileen Stanley. Ma è nel 1927 con la versione di Frankie Trumbauer, Bix Beiderbecke e Eddie Lang pubblicata da Okeh che questo brano divenne uno standard jazz di grande popolarità, arrivando ad essere considerato il precursore dell’estetica “cool” che prese corpo un paio di decenni dopo. L’eterea sonorità e il fraseggio leggero di Beiderbecke è qualcosa di straordinario. Per quanti tentativi siano stati fatti negli anni, nessuno più è riuscito ad avvicinarsi a tanto. Buon ascolto

Edoardo Facchi

Un capolavoro del jazz e di Oscar Peterson

Che cosa distingue un capolavoro nel jazz da una sola eccellente esecuzione? Quali sono i criteri che si seguono per arrivare a definirlo come tale?

Difficile rispondere ad una domanda del genere in termini esclusivamente oggettivi, forse impossibile, e a maggior ragione in una musica come il jazz caratterizzata in modo preminente dall’improvvisazione e dal relativo modo personale di utilizzare il materiale compositivo, in cui non sempre è possibile considerare solo elementi di valutazione strettamente musicali, men che meno solo a spartito. Occorre considerare a volte e ad esempio aspetti di vasta influenza sul linguaggio musicale successivo, persino a livello sociale, culturale e di costume. Tuttavia, specie quando si ragione in termini di linguaggio musicale già condiviso e consolidato come nel caso del cosiddetto mainstream jazz, ci si può attenere ad argomentazioni strettamente musicali, come nel caso del brano che stiamo per approfondire: una straordinaria versione di On Green Dolphin Street suonata da Oscar Peterson e il suo trio (completato da Sam Jones al contrabbasso e Bob Durham alla batteria) e presente nell’album MPS Mellow Mood come capitolo V della serie di incisioni live intitolate Esclusively for My Friends.

Un brano frequentato pressoché da tutti i grandi improvvisatori del jazz moderno, direi tra i più battuti in assoluto. A maggior ragione questa versione del grande pianista canadese colpisce per costruzione formale e totale perfezione esecutiva, per intesa tra i musicisti, per gestione della dinamica, per creatività e ricercatezza nell’improvvisazione e, non ultima, l’assoluta sicurezza nella conduzione ritmica e gestione del relativo alternarsi di tensione e distensione, elemento che nel mainstream jazz è dirimente.

Peterson è stato non di rado accusato, molto a sproposito, di essere un freddo tecnico, un “notaiolo”, addirittura una sorta di dattilografo del pianoforte e questa traccia sembra fatta apposta per smentire certi giudizi ingiustificatamente sprezzanti e così volgarmente superficiali.

La cura per il dettaglio con la quale Peterson decide di sviluppare il brano la si evince sin dalla intro al tema, della durata di circa mezzo minuto, davvero riuscita proprio sul piano espressivo e per delicata raffinatezza espositiva, sfruttando a meraviglia la timbrica dello strumento e dei relativi accordi prescelti. Probabilmente una delle migliori introduzioni sullo standard in assoluto. Segue l’esposizione del tema, con la proposta originale di una efficacissima sostituzione di accordo a minuto 0:47. Quindi l’improvvisazione al piano (di cui potrete apprezzare la trascrizione nel video successivo), davvero splendida, ricca come usuale per Peterson di grandissimi spunti ritmici negli accenti, di improvvisi e azzeccati raddoppi di tempo, progredendo dal punto di vista dinamico verso il climax arrivando ad esplodere di swing al minuto 2:40 supportato magnificamente dalla poderosa cavata “in quattro” di Sam Jones, il quale prosegue con il suo bell’assolo da minuto 4:04 prendendo spunto dall’idea utilizzata nella intro. Quindi una breve ripresa di improvvisazione al piano a minuto 5:20 piazzando un altro bel raddoppio di tempo prima di replicare il tema completato da una spettacolare cadenza finale. Alla maturità e perfezione di questa raggiunta classicità del linguaggio jazzistico non si può chiedere di più e di meglio, serve solo gustare il piacere dell’ascolto.

Un ricordo su cosa ci siamo persi…

Uno scomparso improvvisamente pochi mesi fa per grave malattia, l’altro ritiratosi dalle scene nel 2017. Chick Corea e Gary Burton sono stati per decenni, precisamente dalla pubblicazione di Crystal Silence nel 1972, una accoppiata di geni della musica vincente e affiatata come poche altre nella storia del jazz, regalandoci momenti di grande musica. Un po’ di rimpianto e nostalgia è inevitabile, anche per una musica che tende sempre (giustamente) a proiettarsi in avanti.

Nella eccellente serie di concerti pubblici al Tiny Desk – sede sempre impegnata a dare uno attento e aperto sguardo al panorama musicale contemporaneo – ho rintracciato questa breve esibizione dei due grandi jazzisti datata 2016, probabilmente tra le ultime effettuate. Merita senz’altro il nostro nostalgico ascolto la proposta di due loro noti successi quali sono stati l’iniziale Love Castle e l’immancabile Crystal Silence, entrambe composizioni del compianto Chick Corea, che non solo è stato un grande e influente pianista, ma anche un eccellente autore di frequentati temi. Buon ascolto e buon fine settimana.

Humphrey Lyttelton, un nobile inglese innamorato del jazz

Humph, un nobile inglese innamorato del jazz. Singolare storia questa di Humphrey Lyttelton, discendente di casate nobili inglesi ma personaggio eclettico (oltre che musicista era anche fumettista) che si autodefinì un “socialista romantico”. Negli anni Cinquanta Lyttelton ebbe un ruolo di primo piano nel revival britannico delle forme tradizionali del jazz di New Orleans, arrivando a registrare con Sidney Bechet nel 1949. Per farlo dovette rompere con le pratiche restrittive dell’Unione dei musicisti che proibivano di lavorare con musicisti jazz degli Stati Uniti. Il revival è solitamente malvisto tra i critici di jazz, secondo me a torto. In fondo nessuno nell’ambito della musica “classica” si è mai scandalizzato di risentire Bach, Mozart o Beethoven. In ultima analisi ogni concerto è un revival, e pochi sanno che il primo ad iniziare la pratica di rieseguire composizioni del passato fu Mendehlsson nel XIX secolo. In realtà il jazz, nato prima dell’invenzione del grammofono, subì all’inizio gravi amputazioni alla sua possibilità di essere riprodotto, essendo musica non scritta per la gran parte. Ciò fu dovuto in parte alle leggi razziali che proibivano l’accesso dei musicisti di colore nelle sale d’incisione, e in parte alla rudimentale tecnica d’incisione delle origini, dall’inizio del secolo sino almeno al 1923. Una delle “vittime” più illustri è la Creole Jazz Band di King Oliver, considerata l’apice dello stile New Orleans. In questo caso una rivisitazione non solo è lecita, ma anche un’opera di restauro musicale, dal momento che la piena fruizione di alcuni brani risulta ostica ad un orecchio moderno per le difficoltà di registrazione che recarono notevoli danni sonori. Solo orecchi molto allenati ed esperti riescono ad afferrare tutta la freschezza di quel jazz. ne è un esempio il brano scelto oggi, Chattanooga Stomp, che faceva parte del repertorio della Creole, e la versione di Humph e la sua band ne ha permesso una lettura se non altro più agevole e chiara. Un suggerimento. Dopo aver ascoltato questa versione del 1950, andate ad ascoltare la versione originale del 1923 di Oliver, facilmente reperibile in rete, e la troverete senz’altro più leggibile. Buon ascolto.

Edoardo Facchi

Un grande interprete pianistico di Cole Porter

Non c’è avanzamento e progresso senza profonda conoscenza del passato e reale rispetto per la storia e per la tradizione culturale di un popolo, non solo musicale. Questo è a nostro avviso uno dei principali problemi che patisce la divulgazione della musica jazz e più in generale della musica di tradizione africana-americana nel nostro paese, specie oggi, in un periodo nel quale pare si affoghi in una sorta di incolto sovranismo jazzistico e come nel sentire comune paiono contare solo l’attualità, le mode e il pensiero unico maggioritario, spesso costruito su basi assai fragili per non dire semplicemente errate. Insomma, pare che il mondo sia iniziato solo da quando siamo nati e ben per tal motivo questo blog insiste nella ripresa di certi argomenti musicali e certi personaggi la cui arte altrimenti rischierebbe di essere volgarmente e ingiustamente dimenticata.

Non mi stupisce perciò per nulla che si sia pressoché persa nozione di grandissimi musicisti del passato jazzistico, vere e proprie colonne portanti, come nel caso di Earl Hines, soprannominato esplicitamente da colleghi e critici col termine “Fatha”, ossia “padre” del pianismo improvvisato. Soprattutto si sta perdendo la nozione di quell’approccio estremamente percussivo allo strumento che è così caratteristico della musicalità afro-americana e che è così ben rappresentato, (insieme all’ineludibile Stride piano di James P. Johnson), da Earl Hines. Quel filone del pianismo jazz rappresentato cioè dai Count Basie, Teddy Wilson, Art Tatum, Erroll Garner, Oscar Peterson etc. sino a giungere a Cecil Taylor, McCoy Tyner, Andrew Hill e Don Pullen, passando per Thelonious Monk e Herbie Nichols. Non esistono, insomma e per intenderci, solo Bill Evans, Paul Bley o Keith Jarrett e certo pianismo da loro derivato atto a descrivere il panorama del pianismo improvvisato contemporaneo, anche se tale pianismo è più affine alla nostra sensibilità e cultura musicale di base, è bene chiarirlo.

A tal proposito e a conferma di ciò, propongo una traccia davvero splendida incisa da un tardo Earl Hines negli anni ’70 alle prese col book di canzoni composte dal grande Cole Porter. Si tratta di una lunga versione improvvisata di Night and Day che vede il pianista di Pittsburgh esibirsi in un pensiero musicale estremamente complesso e creativo, oltre che altamente distintivo. Un brano tratto da un suo capolavoro discografico che vivamente consiglio di procurarsi e intitolato Earl Hines Plays Cole Porter. Un pianismo che ha ben poco da invidiare a quello dei nomi della contemporaneità sulla bocca di tutti. Ascoltate, ne vale veramente la pena, perché la vera arte musicale è senza tempo.

Un omaggio europeo a Joe Zawinul

IL contributo di Joe Zawinul, soprattutto in qualità di compositore, prima in ambito di Soul Jazz con la band di Cannonball Adderley e poi nella cosiddetta “fusion” all’interno dei Weather Report non andrebbe sottaciuto. Probabilmente si è trattato di uno dei maggiori compositori jazz della sua generazione, senz’altro tra i più originali e innovativi, anche per la concezione implicitamente orchestrale di molte sue composizioni. Non a caso l’estratto video del concerto che vi propongo oggi è proprio una versione orchestrale di un suo tema, intitolato Walk Tall e inciso dalla formazione dei fratelli Adderley in cui ha militato in un paio di dischi: Country Precher, nel 1969, con la presenza dello stesso autore al piano elettrico, e Music You All del 1972, con George Duke di rimpiazzo allo stesso Zawinul.

Come noto in Europa esistono fior di formazioni orchestrali che da anni dimostano di saper dominare perfettamente il linguaggio jazzistico e non a caso molti musicisti americani di passaggio le utilizzano per i loro tour concertistici europei. La tedesca WDR Big Band è senz’altro una di queste, spesso diretta dal famoso arrangiatore e compositore Vince Mendoza. Il risultato musicale è decisamente brillante e raffinato, assolutamente all’altezza delle versioni originali, forse inevitabilmente più pregne di un groove più convinto.

Sottolineo come la musica dei fratelli Adderley in quegli anni derubricata a mera commercializzazione e semplificazione del Soul Jazz, meriterebbe una ampia revisione critica, in quanto si è dimostrata col tempo assai più influente di quanto all’epoca non si pensasse, così come per la figura di Cannonball Adderley, da considerare senza perplessità e ingiustificate esclusioni nella lista delle grandissime figure del jazz moderno. Per chi volesse approfondire il tema sul sito potrete trovare articoli di approfondimento a questo link, estratto di un vecchio articolo scritto dai Gianni. M. Gualberto e a quest’altro del sottoscritto relativo proprio alla produzione del periodo qui considerato. Buon ascolto e buone feste pasquali a tutti i lettori.

Riccardo Facchi