Inauguriamo il “Flop Jazz”- 2017

Natale e fine anno, tempo in cui si afferma, con dosi sempre più massicce di insopportabile ipocrisia, che “siamo tutti più buoni”. Tempo per la musica anche di riassunti/resoconti degli avvenimenti discografici dell’anno, in cui ci si esercita con classifiche, referendum, premi (nazionali e internazionali), pensati da riviste specializzate, siti internet, portali e quant’altro, pubblicati allo scadere del calendario.

Devo dire che col tempo ho imparato a non prendere troppo sul serio i risultati annunciati di tali iniziative, in alcuni casi noiosamente ripetitivi, stereotipati e spesso poco indicativi dei valori musicali ed artistici emergenti e poco descrittivi della reale scena musicale contemporanea. Senza contare, specie da noi, dell’eccesso di “politically correct” (per non dire peggio) verso le produzioni del tal musicista-icona, o della tal casa discografica, di cui abbondano certe improbabili liste dei migliori eventi discografici dell’anno, che invece sono spesso solo lo specchio dei propri gusti personali e delle proprie limitate conoscenze, poco inclini a modificarsi.

Siccome non mi diverto molto ad esercitarmi nelle ipocrisie del suddetto “politically correct” e siccome ogni anno che passa, vedendo il progressivo sfacelo del Paese a più livelli, mi sento a Natale sempre meno buono, ho pensato perciò di fare una sorta di provocatoria classifica al contrario, cioè un elenco motivato di dischi che ho potuto ascoltare quest’anno e che ho trovato tra i più superflui, se non addirittura insignificanti, noiosi, o semplicemente brutti. Si tratta di una lista e di opinioni del tutto personali, senza altro pretendere, avvertendo che non si tratta necessariamente di titoli pubblicati nell’anno, ma proprio di dischi che ho potuto ascoltare solo quest’anno, vista anche l’enorme produzione annuale che è davvero difficile seguire nella sua totalità, specie se non lo si fa per professione, come nel mio caso.

L’elenco non corrisponde ad una classifica di demerito, sia perché le motivazioni addotte sono differenti, sia perché la cosa diverrebbe persino perfida da fare e sostanzialmente del tutto irrilevante.

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Ida Lupino – Giovanni Guidi. Si tratta di un disco né bello né brutto, né che ti dia piacere, né che ti faccia arrabbiare. E’ semplicemente un disco superfluo, l’apparenza del jazz e della buona musica, il nulla musicale ed espressivo messo su disco. Uno dei dischi più insignificanti che mi sia mai capitato di ascoltare in più di quarant’anni di serrato ascolto jazzistico.

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Bells For The South SideRoscoe Mitchell. Disco già ampiamente santificato forse prima ancora di essere ascoltato e capisco che parlarne bene significa passare per persona colta e intelligente a buon mercato, ma, con tutto il rispetto per il profilo artistico di Roscoe Mitchell e la sua storia passata, riuscire a parlare ancora di “avanguardia musicale” e musica visionaria per proposte ormai storicizzate di questo genere, comincia a diventare una cosa poco seria. Non trovo grandi differenze con le cose da lui prodotte ormai quasi mezzo secolo fa. Anzi, in quelle vi era una freschezza e una contestualizzazione storica e sociale che oggi non ha più riscontri. Si dovrebbe più che altro parlare ormai di “avanguardia storica” che è giunta ad una sua forma di classicità, ma in nessun modo musicisti ormai prossimi agli ottant’anni e questa sorta di musica contemporanea di seconda mano possono essere considerati musicalmente “attuali”, men che meno in ambito jazzistico. Se anche si ammettesse che tutto questo sia ancora davvero “avanguardia” jazzistica, significherebbe allora che essa non è riuscita a fare passi avanti, imboccando un sostanziale vicolo cieco. Ascoltare oggi le cose di Roscoe Mitchell è diventata  una sorta di “Come eravamo“, una colonna sonora del tempo che fu per jazzofili “freecchettoni” nostalgici, ormai mestamente invecchiati, ma che sembrano non rendersene conto.

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Christian Scott con questo Ruler Rebel appartenente ad una Centennial Trilogy di registrazioni pubblicate nel corso del 2017 possiede motivazioni a priori assai ambiziose, relative all’idea di rappresentare la contemporaneità non solo musicale, ma mostra un risultato tutto sommato povero di contenuti musicali, assai deludente rispetto alle precedenti uscite e al potenziale talento mostrato sino ad ora. La sensazione è che il trombettista di New Orleans si stia un po’ perdendo intorno al compiacimento del suono della sua tromba di chiara ispirazione davisiana, dietro ad un tappeto sonoro con un uso dell’elettronica poco creativo e ritmicamente piatto. Di fatto si produce solo una atmosfera sonora piuttosto monotona, almeno per i miei gusti. Peraltro, gli altri lavori della trilogia non sembrano proporre molto di meglio. Se questa è davvero la descrizione della contemporaneità non c’è da stare molto allegri.

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Kamasi Washington con Harmony Of Difference sembra continuare a rivolgersi ad un pubblico popolare prettamente afro-americano, ma sembra anche aver fatto, come Scott, un discreto passo indietro rispetto alla precedente acclamata e interessante uscita, ma un po’ troppo dispersiva, in 3 CD di The Epic (dove è finita la preziosa sintesi espressiva di un tempo che produceva capolavori di grandi musicisti coadiuvati da grandi produttori?). Washington è sicuramente un ottimo sassofonista che sa il fatto suo e non sono certo che si tratti di un brutto lavoro. Non so però nemmeno che aspettative si abbiano da questo richiamo un po’ alleggerito alla musica spiritual-ritualistica anni ’70 post-coltraniana e alle esperienze corali prodotte in alcuni lavori di Max Roach (It’s Time, Lift Every Voice and Sings) mixate con umori pop e funky, ma francamente per quanto non amassi il genere, questo disco mi ha fatto rimpiangere le opere di Pharoah Sanders dell’epoca, senz’altro più coerenti, pur mostrando una analoga discreta staticità armonica, specie nel lungo brano finale, di una ripetitività quasi ossessiva. Può essere che questo sia un modo di avvicinare giovani generazioni dal jazz e rimango possibilista, ma sinceramente ho al momento più di un dubbio.

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The Complete Syllables MusicNate Wooley. Non disconosco in generale il valore di questo trombettista per altri suoi lavori e per averlo apprezzato a Bergamo Jazz di qualche anno fa, ma, sinceramente, pubblicare un lavoro di ben 4 CD fatto solo di sperimentazioni sonore sulla tromba mi sembra davvero troppo pretenzioso. Mi domando che senso ha pubblicare una serie di esercizi da fare davanti allo specchio e pretendere di comunicarli al mondo. Sarebbe stata dura ascoltare un solo CD, figuriamoci quattro, se poi si è amanti dell'”O famo strano” jazzistico a tutti i costi, bé allora è tutta un’altra storia.

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In MaggiorePaolo Fresu. Considero Paolo Fresu uno dei jazzisti più sopravvalutati che abbia mai potuto sentire, tutta apparenza e assai poca sostanza dell’arte jazzistica. L’acclamato trombettista nazionale per mio conto dà una rappresentazione superficiale, quasi oleografica di ciò che è il jazz, molto edonistica e profondamente borghese. Nello specifico, questo duo di musica totalmente aritmica, fatta di un melos lagnoso, monotono è per quel che mi riguarda l’antitesi di ciò che dovrebbe esprimere il jazz e la musica improvvisata. Musica insipida e profondamente decadente. Chi pensa che questo genere di lavori abbia a che fare col jazz (e non sono pochi)  è totalmente fuori strada.

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Turn Up The Quiet -Diana Krall. Che Diana Krall producesse musica di un certo tipo di “easy listening” jazzistico non è certo una novità e in fondo in passato lo ha saputo fare anche discretamente bene, seppur in modo non troppo originale, ma da qualche tempo, passato il notevole riscontro di pubblico del decennio scorso, pare caduta in una sorta di filodiffusione ormai adatta solo alle hall e agli ascensori dei grandi alberghi internazionali.

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Alternate Moon Cycles – Rob Mazurek. Ho conosciuto tardi questo trombettista che pare esercitarsi in modo abbastanza discutibile e non troppo sofisticato con l’elettronica, ma questo è davvero un disco che propone una musica di una stagnazione ritmica e armonica quasi imbarazzante. Sembra la descrizione in musica di un gelido e desertico paesaggio ibernato proprio dell’Antartico. Sinceramente, a parità di musica elettronica, mi pareva molto più sofisticata la musica che ascoltavo a quindici anni dei Tangerine Dream (almeno questi qualcosa in merito avevano appreso da Stockhausen) piuttosto che questa roba priva di alcun costrutto, ma probabilmente apprezzabile per chi è del già accennato partito dell’ “O famo strano“. Ritengo che anche il tempo dedicato all’ascolto della musica e alla gratificazione uditiva sia prezioso tanto quello dedicato dal musicista, il quale non dovrebbe comunque abusarne e averne rispetto. Lascio volentieri questo misconosciuto capolavoro a chi è in grado di apprezzarlo.

19 pensieri su “Inauguriamo il “Flop Jazz”- 2017

  1. 😀 come osi, cugino? non esistono ciofeche nel Jazz, se si parla di ITALIAN JAZZ poi lo sanno tutti che siamo sempre nell’ambito di “Sfumature di Capolavoro”. Buon Natale e speriamo in un prossimo derby come dio comanda.

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  2. Credo che per dire ciò che si pensa, non ci si debba nascondere dietro uno pseudonimo, a meno che non si rischi la galera. Ciò detto, mi piace che qualcuno esprima la propria opinone, negativa, visto i tanti incensamenti di recensori tra i più in voga e che poi puntualmente deludono gli ascoltatori incuriositi da cotante belle parole (tendenti a confondere lettore/ascoltatore). Se recensione deve esserci che sia vera e sincera!

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    1. No guarda, non ho problemi a nascondermi, anzi. Capisco bene che non ti sia mai capitato di leggere questo blog se non ora, e se guardi anche l’indirizzo https del blog troverai il mio nome scritto chiaramente. Conta che condivido ogni giorno i miei articoli da due anni sulla mia pagina FB, con tanto di nome e cognome e informazioni sin troppo dettagliate e nei vari gruppi dove sono iscritto dedicati alla musica. Mi conoscono in molti e da tempo. Se c’è una cosa per cui sono noto nel giro del jazz è proprio perché mi espongo, anche sin troppo e sempre fregandomene se do qualche dispiacere anche a chi conosco. Per quel che mi riguarda non ha più senso la funzione critica nel jazz proprio per le ragioni che hai qui sopra descritto. Saluti

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  3. Finalmente qualcuno che la pensa come me su Fresu, abilissimo come pochi in Italia nei rapporti con i media e nelle pubbliche relazioni , nell’ organizzazione di costosi eventi di cui è incontrastato ed egocentrico protagonista (Time in Jazz, ma non solo), conoscitore come pochi nell’ ambiente di tutte le sofisticate tecniche di marketing ma decisamente molto più modesto come musicista.
    Avendo potuto osservare come durante gli eventi curati dal trombettista di Berchidda vengono coccolati , corteggiati e regolarmente dotati di albergo , auto, autista e mille altri confort per una decina di giorni i giornalisti della stampa nazionale ed internazionale non si fa fatica a capire da dove vengano certi giudizi affrettati che esaltano le (scarse) qualità di Fresu (un buon registro medio che lo rende adatto alle ballad) ma sorvolano completamente sui macroscopici limiti: gelido, lezioso,con evidenti carenze tecniche che gli impediscono di andare sul registro alto (ma questo è il difetto meno grave) , soprattutto da sempre incapace di prendere il seppur minimo rischio nell’ improvvisazione.
    Ma tant’ è, a quanto pare l’ estetica del trombettista sardo sembra coincidere perfettamente con quell’ idea di jazz levigato, rassicurante , privo di asprezze (borghese, appunto) lontano anni luce dalle matrici afro americane ma anche dalle evoluzioni più interessanti del jazz contemporaneo.
    A proposito : provare a dire (peraltro in tono civile) queste cose in Sardegna (sono sardo anch’ io) equivale ad ottenere la scomunica a vita.

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  4. Comprendo perfettamente la tua posizione, anche se non ho conoscenza diretta delle situazioni specifiche che qui riporti e di cui prendo atto, ma non mi stupiscono più di tanto. Purtroppo viviamo in un paese in cui regna il conformismo (di convenienza o di semplice atteggiamento servile) e una devastante incapacità dialettica. Qualsiasi pensiero od opinione, anche seriamente motivata, che non si adegui a un pensiero comune e condiviso,peraltro senza personali elaborazioni, è visto male e crea sempre degli immediati tentativi di delegittimazione verso chi li esprime. Personalmente mi è capitato spesso in rete e sui social. Come minimo ti dicono, come mi è capitato, che denigri o che dici certe cose perché “ce l’hai” con qualcuno. Questo è il livello intellettuale e il rispetto per l’opinione diversa dalla propria che abbiamo ormai in questo paese, oltre non si va.

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  5. Non mi pronuncio sull’album recensito di Fresu che non conosco ed ammetto di non essere particolarmente interessato.
    Di lui possiedo un paio di album che per quanto mi riguarda non si discostano da un medio apprezzamento spesso più per gli altri musicisti presenti (Ralph Towner) che per il trombettista sardo.
    Anch’io coltivo dubbi sulle capacità tecniche, lontanissime non soltanto dai maestri riconosciuti come Satchmo, Eldridge, Gillespie, Hubbard, Morgan, Dorham, Brown ecc… ma anche da solisti del calibro di un Blanchard o di un Lew Soloff .
    Peraltro rilevo come qui in Italia prevalga tra i trombettisti nostrani il filone derivativo che fa capo a Chet Baker e Miles Davis. Chissà perché?
    Mi pare che un’eccezione possa essere considerato Fabrizio Bosso per ciò che conosco.

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    1. la mia impressione è che purtroppo i modelli di Chet Baker e Miles Davis siano stati presi come riferimento più per gli aspetti “abbordabili”, non solo dal punto di vista tecnico, assorbendone anche i limiti più che i (tanti) pregi. Credo che ci sia anche una loro prossimità al sentire europeo in fatto di musica e concezione della relativa arte. Personalmente non sono interessato alle cartoline o alle brutte copie, quando ho a disposizione gli originali. I modelli degli altri nomi che fai sono decisamente meno abbordabili ( e meno prossimi alla nostra cultura musicale di base), non solo per ragioni tecniche, per questo, temo, possono risultare meno seguiti. Quanto a Bosso, per altri versi vale per mio conto un discorso analogo, ovvero poco espressivo e idiomaticamente poco interessante rispetto ai suoi maestri di riferimento, per quanto tecnicamente ineccepibile.

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      1. Credo che nella scarsa varietà espressiva e stilistica dei trombettisti nostrani giochi un ruolo importante la formazione di molti di loro alla scuola di Siena Jazz (che peraltro ha tanti meriti) , dove a lungo hanno svolto un ruolo didattico importante Fresu e Rava , ‘davisiani’ di vecchia data ( anche se il secondo in gioventù ha dato vita a interessanti e originali progetti).
        Per inciso , entrambi da anni pubblicano per la stessa etichetta, l’ arcinota ECM , che però meriterebbe un discorso approfondito a parte.
        Non credo che sia un caso che i due trombettisti italiani più lontani dai canoni estetici davisiani siano Bosso e Boltro , della cosiddetta scuola torinese e Giovanni Falzone e Fabio Morgera ,il primo siciliano con solida esperienza accademica,il secondo, colpevolmente ignorato in Italia ,si è formato negli USA , dove ha suonato fino a pochi anni fa con i più bei nomi del panorama newyorkese e del quale mi pare opportuno citare il frammento di un’ intervista a Jazzitalia del marzo 2015 i cui contenuto condivido in pieno :
        ‘Il Jazz troppo spesso non è musica afroamericana, e quando lo è, è vista attraverso la lente eurocentrica. Se uno vuole suonare come i jazzisti italiani che vanno per la maggiore non c’è bisogno di andare lontano, basta imitare loro. Se invece si è interessati alla musica nera, sarebbe opportuno passare qualche anno almeno a New York, New Orleans ecc, o anche molti anni, ma poi tornare e condividere le proprie esperienze con gli altri, come sto cercando di fare io stesso’.
        Per quanto riguarda Bosso , avendolo sentito dal vivo in almeno una ventina di occasioni ,oltre che in una serie infinita di dischi, sono invece del parere di Roberto: a parte l’ armamentario tecnico enorme ,inarrivabile per Fresu , Rava e i loro derivati , non difetta di quell’ espressività e ‘ groove” che a tanti italiani mancano. Il problema, piuttosto, è l’ iperproduzione discografica e concertistica che lo porta spesso a disperdersi in progetti qualitativamente insignificanti che alla lunga , a mio parere, rischiano seriamente di inaridire il talento che ancora possiede .
        Una postilla, giusto per non tirarla troppo per le lunghe su questa faccenda di Fresu e compagnia ma , ahimè , rischiando di aprire praterie di discussione: siamo sicuri che il discorso riguardi solo i trombettisti e non possa essere esteso – ad esempio- a tanti sassofonisti, pianisti, bassisti e batteristi nostrani ? ( con molte eccezioni positive, devo riconoscere).

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  6. Sono d’accordo sul carattere più europeo di Baker e Davis rispetto ai Gillespie e compagnia e sul loro appeal che copre inconfessabili lacune dei nostri trombettisti.
    A questo proposito, racconto un aneddoto che riguarda una sera di primavera del 1982, mi pare nel mese di aprile. L’evento era il ritorno di Miles in Italia dopo non so quanti anni, suppergiù sette-otto anni immagino…vi fu la diretta radiofonica della data di Roma, ospite Enrico Rava che tesseva perdutamente le lodi del nostro eroe, per me la copia minore del musicista che abbiamo sentito a capo del magnifico quintetto degli anni ’60, ma è solo un’opinione personale sia chiaro.
    Durante l’appassionata requisitoria piuttosto insolita per il laconico Rava, fece parecchi riferimenti ai trombettisti bianchi, in particolare Maynard Ferguson, dipingendoli come virtuosi inespressivi sostanzialmente vuoti persino insopportabili.
    Questo è il brodo di coltura in cui si muove il jazz italiano perlomeno tra i trombettisti.

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    1. Il discorso di Rava sui trombettisti tecnici e Ferguson in particolare non è per lui nuovo (e non è solo legato ai trombettisti, visto che pubblicamente ha avuto da ridire ad esempio su un gigante come Oscar Peterson che di musica significativa ne ha prodotta quanta lui nemmeno può immaginare). Potrebbe anche avere delle ragioni, se non fosse che il suo discorso pare viziato dal suo punto di vista, dalla sua estetica (molto limitata) che è chiaramente opposta, oltre che dai suoi limiti tecnici che sono per me sin troppo evidenti. Insomma mi pare il classico discorso autoreferenziale all’italiana al quale anche lui, che pure qualche merito oggettivo l’ha, pare non sottrarsi. Quindi va preso per quel che può valere. Più in generale il discorso mi pare legato alla (lungamente) fraintesa contrapposizione tra tecnica ed espressività, poiché possedere l’una non implica forzatamente mancare dell’altra. Per me è una generalizzazione sbagliata se non un’autentica fesseria molto frequentata tra gli appassionati e ho cercato anche di affrontare l’argomento a suo tempo in questo articolo (http://freefalljazz.altervista.org/blog/?p=14808). Sarebbe come a dire di accusare un letterato o un filosofo di conoscere perfettamente l’uso della lingua per esprimere concetti anche sofisticati che lo richiedono, o pretendere che si tratti di astrofisica e di teoria delle stringhe o di meccanica quantistica conoscendo solo l’algebra e le equazioni di secondo grado. Il pensiero musicale quando è sofisticato, come peraltro, più in generale, il pensiero umano, richiede l’uso di strumenti più sofisticati per esprimersi. A meno che si pensi che scrivere un tema sia una somma di elementari pensierini e che questi siano più espressivi, non mi pare proprio…

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      1. tra l’altro, dimenticavo, potrei fare l’esempio, credo a fagiolo, di Don Ellis (che peraltro è cresciuto nell’orchestra di Maynard Ferguson) che era un trombettista tecnico che ha saputo essere comunque espressivo esprimendo musica complessa sotto vari profili. Ad avercene di questi trombettisti…

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  7. Per Antonio: Si può fare anche del jazz senza seguire pedissequamente la cultura afro-americana, tenendo conto che si è europei e che il jazz è una musica dovuta anche a molti altri contributi. Per quel che mi riguarda credo che l’elemento decisivo sia l’aspetto dell’elaborazione ritmica nel pensiero musicale e quello, piaccia o no, è decisamente un contributo “black” (anche andando oltre il Nord America, se pensiamo all’aspetto ritmico della musica latino-americana anche lì di radice africana). Mi pare che troppa musica prodotta da ECM e in parte prodotta da molti musicisti europei di oggi, oltre a quella di Fresu e Rava, sia carente da quel punto di vista per considerarla di matrice jazzistica

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  8. Condivido il tuo pensiero e non capisco come si possa negare importanza al lato tecnico del jazzista, alla capacità di usare lo strumento nella sua pienezza armonica, dopodiché ciascuno può legittimamente considerare più espressivo e più emozionante il musicista tecnicamente meno dotato , ma non per questo bollarlo come inconsistente.

    Ottimo il riferimento a Don Ellis di cui possiedo qualcosa, troppo poco, ma del quale ho molta stima e considerazione per il suo ruolo di trombettista nell’ambito del jazz orchestrale.
    Aggiungo che Don Ellis, dai riscontri avuti in diversi forum musicali, è pressoché sconosciuto cosa che considero assurda.

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    1. So benissimo che è sconosciuto ai più, ma è uno dei massimi geni del jazz “bianchi”, una mente visionaria come poche altre, ma non è l’unico. Ben per questo il blog si esercita spesso a proporre e riproporre figure del passato dimenticate, per ingiustizia o per semplice ignoranza e persevereremo su questa strada ovviamente, perché è cosa quanto mai necessaria.

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  9. @Antonio

    La mia conoscenza di Bosso è senz’altro molto più limitata della tua.
    Tuttavia, il gap tecnico con Fresu è di un’evidenza drammaticamente palese.
    Conosco anche Boltro e condivido il tuo punto di vista avendolo visto a Ivrea in concerto parecchi anni fa.
    Si dà il caso però, che con l’invecchiamento di Rava, oggi il trombettista italiano più conosciuto ed apprezzato o forse meglio “promosso” sia Fresu.

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  10. Rettifico l’espressione può legittimamente considerare più espressivo e più emozionante il musicista tecnicamente meno dotato. Volevo dire più emozionante; il riferimento all’espressività è sbagliato. Me ne scuso.

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