Da qualche parte, sopra l’arcobaleno…

I gravi problemi di salute di Keith Jarrett, ormai certificati dallo stesso pianista in una intervista in cui ha recentemente dichiarato di non poter più suonare lo strumento, hanno gettato nello sconforto milioni di fan e decretato in pratica la morte artistica di uno dei musicisti americani più importanti emersi nella seconda metà del Novecento.

Non ho intenzione di sfornare uno scritto zeppo di retorica sentimentale e di luoghi comuni prossimi a quelli che si sono letti di recente su giornali nazionali, articoli che mirano solo a stimolare la lacrimuccia dei lettori basandosi per la milionesima volta sulla colorita narrazione attorno agli eventi che hanno dato alla luce il presunto capolavoro (che non è, in quanto i suoi capolavori al piano solo sono stati ben altri) del popolarissimo e inflazionato Koeln Concert. Nel caso, se a qualcuno interessasse sapere come la penso su quel concerto e su altro relativo al piano solo, potete rintracciare un saggio scritto anni fa e consultabile a questo link.

Per quanto sia stato tra i più amati (persino venerati) e nel contempo più discussi (persino odiati talvolta, direi parecchio a sproposito e in modo abbastanza sciocco) nell’ambito della musica improvvisata, Jarrett ci ha lasciato un enorme patrimonio di musica a cui attingere e molto altro, ne siamo certi, emergerà nei prossimi anni, vista la mole di esibizioni registrate ma non ancora pubblicate a disposizione della casa discografica ECM.

Un vero peccato non poter più godere della sua arte, in quanto si sa che i pianisti possono reggere all’avanzare dell’età molto più di altri strumentisti (in particolare i fiati, che sono fisicamente più dispendiosi), se solo pensiamo a certi concertisti storici della musica classica o ai tanti pianisti jazz in età avanzata (mi viene in mente, solo ad esempio, il grande Hank Jones) che hanno saputo fornire grandi prestazioni concertistiche e discografiche, alcuni dei quali ancora attivi sono più in età di Jarrett stesso.

Sicuramente abbiamo perso una delle figure guida della musica improvvisata contemporanea, anche se già da anni Jarrett si era musicalmente isolato, avendo ridotto ormai il suo far musica a improvvisazioni in piano solo dopo l’abbandono del longevo progetto dello Standard Trio nel 2014, senza più pensare a progetti che, ad esempio, riprendessero il discorso dei quartetti anni ’70.

Ci rimane comunque la sua vastissima opera discografica a disposizione che, tra inevitabili alti e bassi, richiede ancora oggi una valutazione più profonda e sedimentata, perlomeno non viziata dalle abbondanti e stucchevoli critiche extra musicali collegate al suo carattere emotivamente mutevole ed imprevedibile, alle sue bizze sul palco, alle sue scomposte movenze nel suonare, ed altro ancora.

Proprio in questi giorni è uscito il suo Budapest Concert, registrato nel 2016 nella capitale ungherese. L’ennesimo capitolo di una lunga serie di concerti live in solo pubblicati dalla casa tedesca che si protrae periodicamente dai tempi del Bremen/Lausanne Concerts dei primi anni ’70, con risultati inevitabilmente diseguali, ma con non infrequenti momenti musicali di rara bellezza, come solo i veri grandi della musica sanno produrre.

La sua musica spiega più e meglio di qualsiasi scritto, in particolare ritengo straordinario, per quanto ancora abbastanza sottostimato dalla critica, il suo lavoro di riscrittura degli abusati standard del jazz (uno studio approfondito sullo Standard Trio potete rintracciarlo su questo stesso blog al seguente link) troppo spesso liquidato in modo superficiale e musicalmente ingiustificato. Credo che una delle ragioni a certo rifiuto pregiudiziale su quel materiale e sul modo di trattarlo dipenda dal fatto che Jarrett impersonifichi e sintetizzi al meglio gli umori propri di quella cultura musicale americana la cui importanza viene ribadita dalla sua opera e proiettata ancora nella nostra contemporaneità, ma troppo spesso da noi ingiustificatamente minimizzata.

In questo senso, propongo qui la sua meravigliosa versione di Over The Raimbow ripresa a Tokyo nel 1984 e raccolta in un video che documenta tutto il concerto e rintracciabile anche in commercio. Una musica davvero celestiale, suonata da qualche parte, davvero sopra l’arcobaleno. Buon ascolto.

Riccardo Facchi

7 pensieri su “Da qualche parte, sopra l’arcobaleno…

  1. i media tuttologi insistono sulla retorica sparsa a piene mani perché privi di argomenti. E la loro nefasta influenza fa sì che si trovino sedicenti cultori di Jarrett che a casa propria hanno soltanto il famoso concerto di Colonia e hanno a malapena sentito parlare dello Standard Trio del quale peraltro ignorano la statura degli altri due membri dalle luminose carriere in contesti differenti rispetto al trio. Naturalmente non può che dispiacere ciò che gli è capitato umanamente parlando e il rimpianto cresce se si pensa alla tua giusta osservazione sulla longevità di tanti pianisti anche in ambito colto (Pollini è più vecchio di due anni e suona ancora, Rubinstein a oltre ottanta anni incantava ancora le platee e così Horowitz e non è così raro trovare persino novantenni che incidano e facciano alcuni concerti).
    Quanto alla sostanziale incomprensione di Jarrett in certi ambienti accademici, credo che il “dominio” della partitura quale è andato rafforzandosi dall’epoca romantica in avanti giochi un ruolo importante insieme al solito malcelato snobismo europeo in chiave antiamericana.
    Tuttavia, ho sentito diversi pianisti classici specie più giovani ma non solo accorrere ai suoi concerti specie solistici. Forse il concetto di improvvisazione è oggi meglio assimilato come composizione istantanea e forse aiuta anche l’aver appreso che i grandi compositori del passato praticavano l’improvvisazione da cui spesso e volentieri traevano gli spunti per la scrittura su pentagramma.

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    1. Purtroppo, Roberto, l’incomprensione su Jarrett non riguarda solo gli ambienti accademici, ma direi anzi che è assai più marcata nei nostro ambienti jazzistici, meno scusabili, ancora oggi “drogati” da un approccio ideologico e un antiamericanismo pregiudiziale che condiziona da sempre molto le valutazioni su Jarrett, specie quello relativo al trio.

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  2. Concordo con quanto scrivi.
    Forse però, più che contro Jarrett, è il songbook, il repertorio del musical americano a essere ritenuto deteriore da certi ambienti jazzistici reputato più fonte di intrattenimento che espressione di rilievo artistico. Naturalmente l’orientamento politico ideologico fortemente spostato a sinistra va a nozze con questa interpretazione settaria del concetto di arte in fondo tutt’altro che popolare e, dunque, contraddittoria in rapporto alle istanze che si intendono rappresentare.
    In questo Jarrett è assimilato a Peterson pur trattandosi di due musicisti di scuole e stili profondamente differenti, ma altrettanto detestato.

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    1. Quelli che chiami “certi ambienti jazzistici” in realtà sono composti da gente a cui il jazz non piace e mai è piaciuto. Tutto ciò che proviene dagli Stati Uniti non sta bene, a meno che sia utile alla loro causa o alle loro idee, ma in realtà anche dietro a quella approvazione ci sta solo strumentalizzazione ideologica e conseguentemente sostanziale non rispetto per un arte che per essere tale deve assomigliare al loro pensiero. Quindi stanno parlando di se stessi non di ciò di cui dicono di occuparsi. Pensaci.
      Jarrett oltretutto ha avuto riscontro artistico e successo popolare senza la loro approvazione, il che è dal loro punto di vista ancora più disdicevole. Non so come si faccia ancora a dar retta a costoro che come alternativa oggi si sono ridotti solo a lodare della muzak invereconda fatta passare per grande jazz.

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  3. D’accordo con te. Non a caso fra coloro che descrivi trovi i maggiori cultori della musica improvvisata europea specie dell’area mitteleuropea e orientale.
    Nulla di male in sé sia chiaro, ma i legami con il jazz e soprattutto con l’estetica afroamericana tendono a venir meno se non addirittura a sparire.

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  4. Non vi è dubbio e le conseguenze negative si riverberano sui cartelloni dei festival nazionali ormai slegati da quel che avviene e fermenta nelle metropoli americane, New York in testa, e anche, se mi permetti, nei negozi di dischi certamente sparuti e schiacciati dal commercio on line, ma dove il jazz è tristemente relegato in angoli sempre più ristretti come mi è capitato di recente di riscontrare.

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