La voce vellutata di Luther Vandross

Come altre volte ho accennato, ritengo che, con l’eccezione di Louis Armstrong e pochissimi altri, i vocalist afro-americani del pop, del soul e del r&b siano stati superiori a quelli del jazz, sia per quantità che per qualità. Tra questi, Luther Vandross è da segnalare tra le voci più significative. Il suo canto è stato definito “impeccabile” e la voce “liscia come la seta”. E’ noto per aver saputo creare nelle sue canzoni un’atmosfera di romanticismo e di forte trasporto erotico. Lo strumento vocale di Vandross era estremamente raffinato e controllato senza apparente sforzo, una qualità che il cantante perfezionò durante gli anni trascorsi come vocalist di alcune delle più grandi star degli anni ’70.

Vandross ha coltivato una lunga amicizia e collaborazione musicale con il bassista e compositore Marcus Miller, che incontrò per la prima volta quando entrambi stavano nella band di Roberta Flack nel 1972. Miller era uno dei musicisti di sessione più richiesti, quindi lui e Vandross si scontravano spesso circa le relative idee musicali: “Ero un musicista hard-core, soprattutto jazz, quindi non avevo molto rispetto per i cantanti“,  ebbe modo di affermare Miller, ma Vandross gli fece cambiare idea. E’ stato allora che Miller è diventato un fan del canto e in particolare di Luther Vandross.

Vandross ha iniziato la sua carriera come cantante nel gruppo di Gregg Diamond, ovvero i Bionic Boogie, con la fortunata canzone Hot Butterfly, per poi passare quindi nei Change, formazione creata da produttori e musicisti italiani. I brani da lui cantati con quel gruppo si sono rivelati dei grandi successi e successivamente sono stati inclusi nelle antologie da solista del cantante. Ha formato quindi Luther, un quintetto funky insieme agli ex membri degli Shades of JadeIl primo album da solista venne pubblicato nel 1981, con il titolo Never Too Much. Con gli album a seguire continuò a riscuotere sempre maggiore successo, diventando uno dei cantanti americani più seguiti ed apprezzati. Di pari passo al successo aumentò anche il suo peso, che lo portò ad una obesità, risolta agli inizi del successivo decennio con una significativa perdita dei chili in eccesso.

Quando Vandross si è proposto come leader, Miller lo ha seguito, accompagnandolo in carriera per più di 20 anni, co-scrivendo canzoni e coproducendo album insieme. In poco tempo, alcuni dei cantanti che Vandross idolatrava durante la sua maturazione divennero suoi fan, tra cui Dionne Warwick, che descrisse la voce di Vandross come un tessuto di velluto: “Era liscio al tatto, facile da sentire, meraviglioso da vedere“. Le donne in effetti  lo adoravano. In tal senso basterebbe dare un’occhiata al video dei NAACP Image Awards del 1988, quando Vandross cantò A House Is Not A Home per un pubblico estasiato. Nel filmato, Anita Baker sembra quasi stordita, una giovane Janet Jackson mostra un largo sorriso sul viso e Dionne Warwick, che in origine ha reso famosa la canzone essendo stata una interprete di successo delle canzoni di Burt Bacharach, è raggiante mentre Vandross canta ciò che lei definisce “la versione definitiva“.

Luther Vandross è morto il 1 luglio 2005, all’età di 54 anni a causa di un ictus. Stevie Wonder gli ha dedicato una bellissima e sentita interpretazione gospel al suo funerale.

Una cosa che amo molto della mia carriera“, ha detto Vandross di sé, “è che quando sono emerso, non sono stato salutato come” il nuovo Otis Redding “o” il nuovo Sam Cooke “. Non ero “il nuovo Teddy Pendergrass o Smokey Robinson”. Non ero il nuovo nessuno, ero solo Luther. ” Dionne Warwick ha affermato che “molti hanno provato” ad essere il nuovo Luther, ma nella sua mente nessuno è riuscito ad avvicinarlo.

Qui sotto propongo un paio di filmati live, in cui, in particolare nel primo, Vandross dà una interpretazione del brano citato di Bacharach nel quale si nota la caratteristica storica di tutta la cultura musicale africana-americana (ovviamente jazz compreso, si pensi ad esempio alle parafrasi di Armstrong o all’approccio motivico di Sonny Rollins in improvvisazione), ossia quella di saper trasformare e modellare in modo personale il materiale musicale utilizzato, praticamente riscrivendolo. Inoltre si nota la tendenza caratteristica di molti cantanti afro-americani nel gettarsi spontaneamente in lunghe cadenze finali, essendo quasi presi da una sorta di trans emotiva-creativa, intenzione che si può riscontrare nella profonda tradizione africana-americana della church music  e del gospel.

3 pensieri su “La voce vellutata di Luther Vandross

  1. Lo conosco troppo poco e devo dire che un po’ me ne dispiace. I due video sono davvero apprezzabili e si coglie il retroterra gospel oltre ad un’espressività non comune.
    Sono d’accordo che il Rhythm and Blues in rapporto al jazz abbia offerto soprattutto nel canto maschile più figure significative che però, qui in Italia, stentano a trovare i giusti riconoscimenti. Mi spiego meglio: non che non si sentano alcuni hit iconici dei vari Cooke, Gaye, Wonder, Redding e via discorrendo grazie a qualche spot pubblicitario o qualche fortunata commedia hollywoodiana, ma spesso ci si ferma lì senza approfondire i percorsi artistici talora piuttosto sofisticati di questi personaggi che amavano spaziare nell’ambito dell’intera black music.
    È a proposito di ciò, ricordo alcuni penosi interventi in un forum musicale a commento di un disco importante come “What’s Going On” da parte di convinti fautori del rock progressivo britannico. Purtroppo, queste sortite s’inquadrano nel più mediocre eurocentrismo nostrano ahimè ben radicato.

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    1. a bé cosa aspettarsi dai fan sfegatati del rock progressivo britannico? Nulla di più distante dalla espressività peculiare della Black Music americana. Io sono da tempo arrivato alla conclusione che anche a molti sedicenti appassionati del jazz nostrani in realtà la musica nera non piaccia proprio. Inconfessabile per loro, ma è così, basta sentire da loro quali sono i jazzisti che preferiscono e immancabilmente ti citano tutti bianchi americani o europei. Nemmeno se ne accorgono…

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      1. Pienamente d’accordo con te. Se dai fan del rock progressivo – anche se non ho mai capito la spocchia che spesso li permea con la loro ossessione per le suites e i tempi dispari convinti di ascoltare una musica assimilabile ai vari Mahler, Bartok o Stravinsky e così via – mi aspetto la chiusura mentale prima ancora che culturale, diventa sconcertante imbattersi nei soggetti ben tratteggiati da te. Devo dirti che ve ne sono in quantità considerevole nella sezione altre musiche del forum di Onda Rock.
        Il risultato è che conversare di jazz e musica afroamericana in Italia è piuttosto avvilente e faticoso sebbene per fortuna vi siano valide eccezioni.

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