Odiate il jarrettismo, non Jarrett

MI0002313860Sono passati più di 30 anni da questa incisione, ma la freschezza e creatività che ancora oggi comunica all’ascolto la rendono senza tempo, così come accade a tutti i capolavori che il jazz ha saputo disseminare nel corso della sua storia. Si tratta di uno dei dischi più calibrati ed equilibrati di tutta la serie incisa dallo Standards Trio di Keith Jarrett, una delle formazioni più note e longeve in assoluto, considerato che si è sciolta giusto un anno fa, più che altro per limiti di età raggiunti dai suoi componenti e per esaurimento conseguente della vena creativa. Il livello musicale tocca qui un picco, probabilmente estendibile anche alla ricchissima discografia disponibile nell’ambito formale del trio di pianoforte, perlomeno su questo genere di repertorio.

La seduta che produsse i due volumi degli standards costrinse, ai tempi della pubblicazione, molti detrattori a rivedere le proprie convinzioni sul pianista di Allentown, poiché all’epoca era accusato dai puristi di essere ormai distante dal jazz, specie nelle sue improvvisazioni in piano solo. Critica che oggi non verrebbe nemmeno accennata, considerati sia la classicità della proposta in questione, che i cosiddetti processi “contaminativi”, più o meno naturali o artificiosamente forzati, ormai abituali nelle musiche improvvisate contemporanee.

Dalla performance emerge, invece, tutto il rispetto e la conoscenza approfondita del songbook americano e della tradizione relativa all’ambito formale prescelto. Contestualizzando storicamente l’opera al momento della sua incisione, occorre considerare che la prematura scomparsa di Bill Evans, avvenuta poco più di due anni prima, aveva lasciato un vuoto tremendo a livello di pianismo “bianco” e una eredità artistica di cui era difficile farsi carico e nel contempo affrancarsi senza tema dell’inevitabile confronto. Viceversa, Jarrett riesce qui a dar vita non solo ad una arguta operazione commerciale, ma anche a dare nuovo impulso ad un progetto musicale già ampiamente sfruttato e apparentemente già portato ai vertici formali ed artistici dallo stesso Evans. Non a caso nel disco sono rievocati e rivitalizzati coraggiosamente tre brani presenti nel repertorio evansiano (In Love in Vain, Never Let Me Go e I Fall In Love Too Easily), con risultati artistici sugli stessi temi persino superiori. Stupisce soprattutto la capacità di arrivare a questo traguardo sin dalle prime incisioni, come se in qualche modo egli avesse in corpo da tempo questa musica ed aspettasse solo il momento propizio e i partner giusti per esplicarla. Tuttavia, il riferimento a Evans per quanto percepibile a tratti in questo disco (e in generale nelle prime incisioni anni’80 del Trio)  in realtà è abbastanza improprio e superficiale, in quanto le influenze pianistiche su Jarrett, se proprio si vogliono determinare, andrebbero ricercate più da altre parti. Sicuramente Paul Bley (specie agli inizi di carriera), un pizzico di Lennie Tristano, Ahmad Jamal e Dave Brubeck (specie per l’uso di code e certi ostinati armonicamente statici, talvolta riscontrabili nella sua discografia e di cui Jarrett fa largo uso), per poi passare negli anni ’90 a riferimenti più prossimi al pianismo bop, quindi Bud Powell, Wynton Kelly e in parte pure Herbie Hancock.

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Procedendo con ordine, l’esordio del CD è con So Tender, un brano di sua composizione già registrato negli anni ’70 per CTI nel disco Free di Airto Moreira che, pur non essendo uno standard, possiede però tutti i crismi della canzone. E’ da considerarsi una sorta di manifesto programmatico, sia per la cantabilità della melodia, che ricorda in parte il famoso Limelight di Charlie Chaplin, sia per l’arioso sviluppo solistico, sia per la perfetta accentazione ritmica posta su un classico tempo di bossa e, buon ultimo, per la bellissima coda (una vera specialità di Jarrett) in stile vagamente medio-orientale, sviluppata con eccellente tecnica pianistica.

Moon and Sand è il brano del disco che col passare degli anni acquisisce sempre più valore. Uno standard di Alec Wilder, songwriter tra i preferiti da Jarrett (incise ai tempi del quartetto americano anche un bellissimo Blackberry Wintersempre in trio con Charlie Haden e Paul Motian e nel disco successivo del Trio The Wrong Blues) molto ben interpretato. Il livello di ispirazione e intesa nel Trio  è elevatissimo, con Gary Peacock co-protagonista del pezzo. Anche qui la coda è la parte più originale del brano e prende spunto inaspettatamente dalla figura ritmica accennata alle spazzole da Jack de Johnette, in un grande momento di improvvisazione e di intesa telepatica tra i due.

In love in Vain, il primo brano dedicato a Evans, è forse il più canonico del disco e più di altri ricorda nello stile quel Raimbow inciso su Byablue circa sei anni prima in compagnia di Haden e Motian, l’altro trio a lui caro e congeniale, in una sorta di anteprima progettuale. In Never let me go  Jarrett raggiunge vertici di ispirazione e poesia raramente toccati in carriera, soprattutto nella ripresa del tema dopo lo struggente assolo di Peacock. Qui dimostra più che altrove di aver compreso profondamente lo spirito della canzone. L’interplay con il bassista nel corso del brano è pressoché perfetto e ricorda i livelli raggiunti da Evans con Scott la Faro al Vanguard. If I Should Lose You dà una botta di vita ad un set di brani ricco di ballads ed è una magnifica volata improvvisativa ricca di swing e raffinatezze tecniche.

Dulcis in fundo, I Fall In Love Too Easily, un gioiello di forma, sintesi musicale e senso melodico, che fa da suggello ad una delle registrazione meglio riuscite di quei complicati anni ’80.

Riccardo Facchi

 

3 pensieri su “Odiate il jarrettismo, non Jarrett

  1. certo che no, men che meno in musica e non a caso mi sono riferitonel titolo al jarrettismo, che non è evidentemente una persona. Jarrett comunque notoriamente crea un rapporto o di odio, o di amore, in entrambi i casi talvolta esagerato

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